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di Maria Paola Forlani

Paolo Manaresi, mio professore d’incisione all’Accademia di Belle Arti di Bologna, con il quale noi allievi abbiamo vissuto momenti di intense conversazioni sull’arte e sul mondo che ci circondava. Paolo Manaresi ascoltava e osservava la nostra vitalità, che in quegli anni si dibatteva tra mille incertezze e lotte sessantottine, inquietudini e disagi che affioravano dai nostri sguardi in cerca di ‘verità’. Sfioravamo la lastra inchiostrata con la tarlatana, coprivamo di segni la superficie di zinco incerata, la tuffavamo nell’acido per più morsure, intanto Manaresi sorridendo guardava il nostro lavoro, il nostro operare e solo lì vedeva la risposta a tutte le nostre attese.
Quando giovanissima feci la mia prima mostra alla Galleria ‘Il Forziere’ a Ferrara, Manaresi mi scrisse una lettera affettuosa:

“Carissima Paola
ho saputo della tua mostra ferrarese e non mancherò di venire da te; conosco il tuo entusiasmo così palesemente sincero per ogni espressione d’arte; i tuoi quadri non potranno che averne questa interiore vivificazione e finalità […] Sei stata una delle care e migliori allieve che non si possono dimenticare, ed ancora oggi ci dai la gioia di rivederti periodicamente e leggere nel tuo limpido sguardo l’entusiasmo per il tuo e nostro operare[…]
Così, cara Paola, voglio in anticipo inviarti quei miei spontanei voti augurali che dal primo momento che ti ho conosciuta sono costanti e per sempre nel mio animo per te.
Con affetto il tuo
P.Manaresi
Bologna marzo 1970”

Paolo Manaresi nacque a Bologna nel 1908. Nel 1929 si diplomò all’Accademia di Belle Arti, dove era stato allievo di Giovanni Romagnoli e Achille Casanova.
Dal 1934 insegnò alla Scuola d’Arte di Varallo Sesia e intraprese l’attività di scultore. Nel 1945 ritornò a Bologna come docente al Liceo Artistico. Dal 1949, incoraggiato da Giorgio Morandi, si dedicò attivamente all’incisione. Nel 1950 fu invitato alla Biennale di Venezia, dove ritornò nel 1952. Nel 1953 Carlo Alberto Petrucci, direttore della Calcografia Nazionale, ordinò presso l’istituto romano un’ampia antologica dell’opera grafica di Manaresi. Sempre nel 1953 divenne direttore dell’Istituto d’Arte di Bologna. Nel 1954 ottenne il Gran Premio Internazionale per l’incisione alla XXVII Biennale di Venezia. Dal 1956 al 1958 insegnò all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 1958 Giorgio Morandi lo volle come suo successore alla cattedra di Tecniche dell’Incisione presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Tra gli anni Sessanta e Settanta molti furono i premi prestigiosi che gli furono assegnati in tutta Europa per l’incisione. Fino al 1978, quando l’associazione ‘Francesco Francia’ in collaborazione con il Comune di Bologna gli dedicò una grande antologica, suddivisa in due sezioni: una di dipinti presso il Museo Archeologico, l’altra sull’opera grafica presso la Galleria d’Arte Moderna.
Con l’evento del 1978 si concluse l’iter di Manaresi. Negli anni successivi si rifugiò nel suo studio presso il Collegio Venturoli, di cui era amministratore. Dopo un lungo periodo di disagio esistenziale, alla fine di luglio del 1991 decise di porre fine alla propria esistenza.

La Raccolta Lercaro a Bologna ricorda questo protagonista dell’arte bolognese del Novecento, di cui è stato maestro nel campo dell’incisione, con la mostra ‘Paolo Manaresi. I colori dell’inquietudine’, a cura di Andrea Dall’Asta SJ e Francesca Passerini, con la collaborazione di Donatella Agostini Manaresi (aperta fino al 2 luglio 2017).
Rispetto alle precedenti esposizioni che hanno celebrato l’artista, la mostra della Raccolta Lercaro si presenta in modo inusuale: non sono infatti esposte (solo) le sue straordinarie incisioni, ma soprattutto le opere pittoriche, per lo più sconosciute al grande pubblico. All’interno del percorso espositivo vengono alla luce un centinaio di oli, pastelli e tempere, in gran parte inediti. Una vera e propria scoperta, che permette un’immersione nel lungo arco temporale che va dagli anni Trenta all’inizio degli anni Novanta del NOvecento, quando Manaresi conclude la sua esperienza di vita.

La mostra si presenta in modo articolato e complesso, ma un filo rosso unifica le diverse sezioni: che si tratti di paesaggi, di scene religiose o, ancora, di nature morte realizzate in periodi diversi, il denominatore comune è sempre una profonda inquietudine. Nei primi ritratti o nelle scene d’interni degli anni Trenta i tratti sono ancora distesi, ma con l’arrivo della Seconda guerra mondiale la mano inizia a farsi nervosa. I lavori degli anni Cinquanta e Sessanta – siano essi paesaggi o periferie cittadine, che risentono delle lezioni metafisiche di Carrà e di Sironi – sono orientati da una ricerca estetica che privilegia il contrasto chiaroscurale: è la proiezione, in pittura, delle strade tortuose percorse interiormente dall’artista.
Nel succedersi delle diverse sale della mostra emergono così i suoi interrogativi sul senso della vita, espressi con grande intensità, soprattutto nelle scene di carattere religioso.
Colori accesi e segni forti, che a tratti ricordano l’arte nord-europea, in particolare Munch e Nolde: Manaresi mostra come la sua ricerca esistenziale sia inseparabile da una riflessione sulla fede. In particolare si concentra sulle infinite varianti di Crocifissioni. Al centro, sempre la rappresentazione del Christo patiens: la sofferenza del Figlio di Dio sembra rivelare il dolore stesso dell’artista. Dopo Cristo il personaggio maggiormente ricorrente è la Maddalena, rappresentata come una macchia cromatica di colore rosso vivo che ai piedi della croce grida dolore e amore.
Sono questi gli stessi anni in cui la Chiesa vive il concilio Vaticano II, anni di grande apertura, ma anche di dolorosi scontri tra diverse visioni del mondo. Manaresi partecipa a questo dibattito attraverso la sua pittura: nel Cristo morto e nella Maddalena riversa il suo grido muto di uomo ferito dalla vita, nonostante tutto, ancora tenacemente capace di cercare risposte e riconciliazioni.

Questa irrequietezza si presenta in tutta la sua potenza espressiva nelle ultime composizioni, realizzate tra fine Ottanta e inizio Novanta: dopo una progressiva compressione dei volumi, una sintesi delle forme e un’intensificazione dei contrasti cromatici, alla fine della vita Manaresi elabora composizioni in cui le visioni dell’anima si mescolano e si fondono con la realtà naturale. Da un lato recupera elementi appartenenti alle precedenti ricerche formali, dall’altro risolve l’urgenza espressiva ricorrendo all’astrazione, via inedita per lui. Queste “opere nuove” – come lui stesso le definiva – appaiono quasi implodere su loro stesse. Il tratto nervoso e acuto sembra perdersi nell’interazione. Qual è il senso di queste forme ‘informi’, nate da un urlo senza suoni e da un gesto colmo di energia, ma irretito e immobilizzato da un segno agitato? Tutto sembra perdersi in un buio esistenziale, in una sofferta sconfitta, come nella ‘Composizione rosso-nera’ che chiude la mostra. Questi inediti lavori segnano il drammatico esito di un artista che ha ancora tanto da rivelare e che la mostra indaga da un punto di vista nuovo. Una riflessione sul senso delle cose e della vita.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

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