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La tolleranza non ha mai provocato una guerra civile; l’intolleranza ha coperto la terra di massacri. (Voltaire, Trattato sulla tolleranza, 1763)

DA MOSCA – Quando ho scoperto che Mosca ospitava il più grande museo ebraico al mondo, ho prenotato il mio consueto compagno di passeggiate e di scoperte per una domenica di fine Novembre, stazione della metro Marina Roshcha, Ulitsa Obraztsova numero 11, quartiere nord della Capitale. Dopo aver camminato per una quindicina di minuti, ci troviamo di fronte all’ex deposito di autobus che oggi ospita il museo e costituisce un interessante esempio di architettura industriale costruttivista.
Il museo occupa gli 8.500 metri quadrati dell’ex Garage Bakhmetievski, costruito nel 1926-1927 dall’architetto Konstantin Melnikov e che, fino al 2011, era una delle gallerie d’arte più frequentate della città, gestita da “Dasha” Alexandrovna Zhukova, compagna del magnate Roman Abramovich (famoso per essere il proprietario del Chelsea Football Club, ma anche per i suoi contributi alle comunità ebraiche in Israele e nel resto del mondo, che riflettono le sue radici ebraiche).
L’intero intervento è costato oltre 60 milioni di dollari, tutti finanziamenti privati, il museo più caro di Russia: i nomi dei benefattori esposti all’ingresso vanno da quello Putin, che ha donato un mese del proprio stipendio al museo, a quelli dell’amministratore delegato di Gazprom, Aleksej Borisovič Miller, dell’uomo più ricco di Russia secondo Forbes 2013, fino a quello di Ronald Lauder, erede dell’impero di cosmetici o dell’imprenditore Victor Feliksovič Veksel’berg.
Creatore di questa spettacolare struttura è il guru mondiale dell’edutainment (o intrattenimento educativo), il famoso ebreo americano Ralph Appelbaum che, con la sua società basata a Soho, ha firmato l’Holocaust Memorial Museum di Washington. Inaugurato l’8 novembre 2012 alla presenza di Shimon Peres, nato, peraltro, a Višneva oggi villaggio bielorusso, il nuovo museo ripercorre i due secoli della storia tumultuosa degli ebrei in terra russa, dalla diaspora all’epoca degli zar, al periodo dell’U.R.S.S. fino a oggi, passando per le repressioni staliniane e l’Olocausto. Interattivo, interattivissimo. Al punto che qualche malevolo lo ha definito “Disneyland in salsa yiddish”. Personalmente non l’ho affatto trovato così, anzi questa interattività è, al contrario, in grado di attirare un pubblico giovane e moderno, quello che deve conoscere, che deve sapere, per mostrargli la cultura ebraica in forma accessibile, un pubblico al quale costruire una memoria.
Così, dopo che mi sono stati consegnati appositi occhialini viola, mi ritrovo seduta in un piccolo cinema che proietta in 4D la creazione del mondo e l’esodo dell’Egitto, travolta da pioggia, vento, onde, terremoto e cavallette. Ho i capelli bagnati, sento le gocce del Diluvio Universale e il vento del mare sui vestiti, animaletti repellenti mi arrivano sul viso. Mentre le poltrone tremano e Dio crea il cielo e la terra, le parole e la musica ti penetrano i pensieri. Si esce dalla saletta un po’ frastornati ma stupiti e sorpresi e si continua, anzi si inizia, la visita, passando da un’epoca all’altra velocemente, senza vincoli di sale numerate o spazi delineati. Tutto è libero, salvo la cronologia, tutto interattivo e quindi guidato da te, come vuoi e dove vuoi. Basta la curiosità a condurre verso oggetti, poster, fotografie, filmati. Sono subito attratta da un’enorme “carta dell’emigrazione” sferica, che riporta la distribuzione geografica degli ebrei. Alcuni plastici a grandezza naturale ricreano, insieme a ologrammi, filmati e sculture, gli interni delle abitazioni ebraiche negli shtetl dell’800, i villaggi dove oltre un milione di ebrei vissero confinati per decreto zarista dopo la spartizione della Polonia. Si è attirati poi dalla parte relativa all’esodo degli ebrei verso le grandi città della fine del XIX secolo, ricostruito con l’esempio di Odessa, città aperta. Grandi fotografie in bianco e nero, panchine di legno che fanno pensare a viaggiatori intirizziti accoccolati ad aspettare un treno che li porterà chissà dove. In una sala è possibile sedersi con lo scrittore Sholem Aleichem (Sholem Naumovich Rabinovič, il primo autore a scrivere libri per bambini in lingua yiddish) e con altre personalità ebree locali. Ci si siede intorno a tavolini rotondi di fronte a queste sculture bianche lattee e si muovono le dita su alcuni libri virtuali proiettati dall’alto sullo stesso tavolino, pagine che magicamente si aprono e proiettano brevi filmati storici, in formato touch come su un iPad. Utile e divertente. User friendly e davvero molto smart come direbbero i giovani.
Al centro del museo vi è un immenso schermo panoramico sul quale sono proiettate le immagini che documentano le fasi più tragiche della Seconda Guerra Mondiale: il massacro di Babi Yar del settembre 1941, le esecuzioni in massa da parte dei nazisti, l’assedio di Leningrado, la battaglia di Stalingrado e infine la vittoria. Sfilano date e numeri. Davanti allo schermo c’è una trincea innevata, elmetti di soldati trapassati da pallottole. Quando per la sala risuonano le scariche di mitragliatrice delle brigate di fucilazione degli hitleriani che hanno sterminato ebrei in Bielorussia, Ucraina e Lituania, ti viene un tremito, hai le mani fredde, le guance arrossate, le lacrime scendono inconsapevolmente, rapide. Vicino, si osserva, poi, un monumento funebre piramidale dove i visitatori possono accendere una candela in ricordo dei milioni di vittime i cui nomi compaiono uno dopo l’altro su un grande schermo scuro. La luce fioca e triste di quelle candele ti porta lontano.
In mezzo a tutta questa solida documentazione storica vi sono anche scene di vita quotidiana, lo shabbat è un invito in famiglia un venerdì sera di cento anni fa, a tavola coi bambini come in un’installazione di Bill Viola, il grande rappresentante della videoarte. La e-Torah diventa un libro magico che si apre anch’esso col touch screen. In un mare azzurro, profondo, illuminato dal sole e sterminato si aprono fotografie e nomi ad esse associate. I ricordi paiono voler annegare qui.
L’esposizione è suddivisa negli stessi periodi storici della storia dello Stato russo. Si tratta, quindi, di uno sguardo sulla storia del Paese da un’altra angolazione. Proprio sulla base dei racconti di anziani ebrei e di storici si costruiscono film sulla rivoluzione, sui pogrom di ebrei, sulla guerra, sull’Olocausto in territorio sovietico, immagini che girano sugli schermi dal pavimento al soffitto.
Abile l’uso delle luci e dell’illuminazione che ti fanno concentrare attentamente su fotografie, documenti, libri, oggetti ricamati e colorati, bianche sculture di spalle che, con la testa coperta e piegata, leggono sommessamente e discretamente, forse sognando di scappare lontano.
La visita si chiude con il passaggio al Centro della Tolleranza dove si proiettano film che invitano alla tolleranza non solo etnica e religiosa, ma anche, per esempio, verso persone con possibilità limitate. Il museo ha già un accordo con il dipartimento dell’istruzione per ospitare classi scolastiche a parlare dell’importanza di essere tolleranti verso le altre persone, che non sono simili a te.
Se siete a Mosca, dovete andare. In questi giorni che ci ricordano quanto è importante la Memoria non si può omettere questo luogo. A costo di non visitarne qualcuno più noto.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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