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Da organizzatori

Brandelli di quella Bellezza che forma i miracoli del cosmo e che rappresenta la sfaccettatura della vita
Mark Tobey

Con il titolo ‘Mark Tobey. Luce filante’ si è aperta a inizio maggio la più esaustiva retrospettiva degli ultimi vent’anni in Europa, e la prima in assoluto in Italia, dedicata all’artista americano Mark Tobey (Centerville, Wisconsion 1890 – Basilea 1976). A cura di Debra Bricker Balken, sarà visitabile fino al 10 settembre 2017 alla Collezione Peggy Guggenheim.

Tobey nel Midwest degli Sati Uniti, trascorre un’infanzia felice lungo le rive del Mississipi. Disegnatore di talento, nel 1911 si stabilisce a New York dove si avvia alla carriera di illustratore di moda. La sua vera vocazione si rivela nel corso del decennio seguente, quando si converte alla fede Bahá’i che da allora trasforma la sua visione del mondo e la sua pratica artistica. La sua vita è caratterizzata da numerosi viaggi e prolungati soggiorni in Europa, Oriente e Asia. Dopo aver divorziato, nel 1922 si trasferisce a Seattle dove, nel 1923, incontra Teng Kuei, studente e pittore cinese che lo inizia alla calligrafia. Insegna arte fino al 1925, poi compie viaggi in Francia, in Catalogna, in Grecia, a Costantinopoli, Beirut, Haïfa, dove s’interessa alla scrittura persiana e a quella araba. Nel 1927, Alfred Barr presenta le sue opere al Museum of Modern Art di New York. Tra il 1930 e il 1937 si stabilisce nel Devonshire, dove insegna presso la Dartington Hall School; compie alcuni viaggi in Europa ma anche in Messico, nel 1931, e in Palestina, nel 1932.
La sua arte evolve nel corso degli anni passando da una raffigurazione accademica e diligente, che caratterizza le sue opere degli anni Venti e Trenta a una forma espressiva e gestuale che svilupperà a partire dal 1934-35, al suo ritorno dai soggiorni in Cina e soprattutto in Giappone. Tobey sbocciò realmente alla fine degli anni Trenta, quando raggiunse quell’immaginario infinito, libero dai principi concreti e costruttivi che inquadrano un’arte occidentale di cui egli percepisce i limiti. Di ritorno dall’Inghilterra, nei mesi di novembre e dicembre del 1935, dipinge numerose tele utilizzando una “scrittura bianca” che sarà la caratteristica principale della sua opera e che costituisce uno dei punti di riferimento dell’arte informale americana. Tobey la descrive così:
“‘Scrivere’ la pittura, sia essa colorata o in toni neutri, diventa una necessità. Spesso ho pensato che il mio modo di lavorare fosse una performance, nel senso che il mio quadro doveva essere realizzato tutto in una volta o non essere realizzato affatto. Era esattamente il contrario del ‘costruire’, principio al quale mi ero attenuto tempo addietro”.
L’esposizione alla Collezione Peggy Guggenheim si configura come un attento riesame della produzione artistica di Tobey, tra i maggiori artisti americani a emergere negli anni Quaranta, quel decennio clou che vide la nascita dell’Espressionismo astratto. Riconosciuto come figura d’avanguardia, precursore con la sua “scrittura bianca” di quelle innovazioni artistiche introdotte di lì a poco dagli artisti della Scuola di New York, quali Jackson Pollock.

Quando i piccoli dipinti di Tobey, raffiguranti griglie fitte e chiare composte da linee delicate, vennero esposti a New York nel 1944, suscitarono ampio interesse per l’audacia delle loro composizioni a tutto tondo. Queste sue rappresentazioni calligrafiche, uniche nel loro genere, sono dei chiari riferimenti alla città, alle sue vertiginose forme architettoniche che svettano verso l’alto, alle sue ampie strade, al turbinio pervasivo delle luci elettriche. Come tali sono il risultato di una lirica integrazione tra due culture figurative, l’occidentale e l’orientale, che spaziano dalla tradizionale pittura cinese su pergamena al cubismo europeo. Tale forma di astrazione, unica nel suo genere, deriva dalle diverse esperienze fatte dall’artista nei suoi viaggi in oriente e la sua conversione alla fede Bahá’ì, religione abramitica monoteistica nata in Iran a metà del XIX secolo. Come spiega la curatrice Debora Bricker Balken “all’interno di questo mix di fonti, Tobey è stato in grado di evitare uno specifico debito col Cubismo, a differenza dei suoi compagni modernisti, fondendo elementi legati ai linguaggi formali in composizioni che sono sorprendentemente radicali e al tempo stesso meravigliose”.

Quando, all’indomani della seconda guerra mondiale, nasce la Scuola di New York, gruppo informale di artisti che attinge la propria ispirazione da fonti artistiche d’avanguardia. Tobey si trova solo marginalmente integrato all’interno del gruppo poiché avverso al nazionalismo culturale e alla ‘americanità’ della retorica imposta alla pittura contemporanea. Diversamente dalle più immediate e vigorose affermazioni pittoriche di Pollock e dei suoi contemporanei, il lavoro di Tobey, pacato e più introspettivo, non può essere facilmente incasellato all’interno della critica contemporanea volta alla formulazione di una nuova identità nazionale per l’arte americana. Tobey rifiuta nelle sue creazioni l’ampia scala e le dimensioni monumentali, per creare mondi microscopici e composizioni intime basate sull’osservazione intensa della natura, della città e del flusso delle luci. La sua distintiva “scrittura bianca”, o labirinti di segni e linee interconnessi, evocano una dimensione spirituale.

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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