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Da BERLINO – In questi giorni in cui la transgender Vladimir Luxuria, nota figura televisiva ed esponente della sinistra italiana, fa visita al decaduto e nient’affatto “diversamente eterosessuale” Silvio Berlusconi, triste satiro della ahimè decadente Italia, partecipo alla conferenza non senza sorpresa piuttosto interessante di Shaka McGlotten presso l’Institute for Cultural Inquiry.

Vestito (o meglio vestita) in una giacchetta di pelle che espone il suo corpo muscoloso e tatuato, pesante maquillage e tacchi a spillo, Shaka McGlotten insegna Gender Studies alla prestigiosa Suny, la maggiore università pubblica della East Coast, e con fare gentile illustra la “via del drag queen” come un metodo radicale e certamente non rivolto a tutti per combattere quello che Foucault chiamava il “fascismo in ciascuno di noi” ovvero ciò che si materializza come amore per il Potere – più spesso anche solo il potere (minuscolo se non meschino).

Tra ironia, disincanto e passione civile McGlotten ha analizzato alcune figure di “drag queen” che sfruttano la loro figura e senz’altro la loro presenza scenica per proporre una forma di lotta politica che si incrocia con “live performances” non diversamente da come la scena inglese ospitava la musica Punk come controcultura o, più recentemente, in tutt’altra modalità Borat di Shasha Baron Cohen.

Vanno notate soprattutto due figure attive sulla scena israelo-palestinese che contestano il “machismo” tanto del “soldato oppressore” israeliano quanto quella del “civile resistente” arabo – ciascuno veicoli di una versione stereotipata, rigida e aggressiva di “mascolinità,” di cui chiara rappresentazione sono sia la politica nazionalista di Netanyahu sia il drammatico terrorismo praticato delle varie fazioni arabe.

Da un lato è stata ricordato (o ricordata) Rafaat Hattab di origine araba che in diversi spettacoli teatrali ha attaccato l’omofobia virulenti nella società israeliana presentandosi come “The bride of Palestine” che canta un inno libanese di resistenza sotto la minaccia armata di un uomo con la pistola che poi le spara.

Un’altra importante performance è quella di Liad Hussein Kantorowicz vestito (o vestita) da “domina,” con un certo gusto fetish e para-nazista, che “comanda” un ingenuo e mite cittadino israeliano che cosa e come votare, denunciando quindi l’aspetto grottesco della presunta “unica democrazia” del Medio Oriente, non certo contestandone la democraticità formale bensì esponendone il carattere morbosamente ambiguo, quando, come nota McGlotten, il servizio segreto interno (il famigerato Shin Beth) afferma che difenderà il carattere “ebraico” di Israele “ad ogni costo,” suggerendo così che anche persino la “democrazia” possa venire annoverata tra i possibili “costi.”

Si tratta di una forma di lotta politica che forse non può avere una ricaduta pratica effettiva per la maggior parte della popolazione civile ma di cui andrebbe colto e apprezzato il
carattere irrisorio, irriverente e anticonvenzionale come rimedio, magari solo temporaneo, per una vita politica, specialmente quella italiana, che non galleggia più semplicemente sull’ipocrisia ma se ne nutre.

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Federico Dal Bo

È giornalista pubblicista e traduttore, dottore di ricerca in Ebraistica, dottore di ricerca in Scienza della traduzione, residente a Berlino

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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