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La nave Aquarius, con 629 migranti a bordo, è destinata a essere uno spartiacque.
Ha avuto la sventura di avere gli occhi puntati del governo del cambiamento e il suo destino di essere uno fra gli sbarchi sulle coste siciliane è decisamente cambiato.
Con il suo “no” all’attracco italiano, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha fatto capire che sui migranti la musica è cambiata.
In tutta la vicenda non è sfuggito il protagonismo del titolare del Viminale, e leader della Lega Nord, di fronte a una quasi afonia del presidente del Consiglio.
Dopo i fronti diplomatici con la Tunisia, per le parole di Salvini sul paese che esporterebbe “galeotti”, e con Malta, cui sarebbe toccato il dovere di accogliere i migranti dell’Aquarius, di fatto un terzo se n’è aperto con la Francia.
In questo caso, per la verità, sono stati governo e partito del presidente Emmanuel Macron a metterci del loro, definendo il comportamento del governo di Roma “irresponsabile”, “cinico” e “vomitevole”.
Anche le dichiarazioni in direzione Roma del premier spagnolo, il socialista Pedro Sanchez, non sono state simpatiche. L’offerta del porto di Valencia non basta però a nascondere le ragioni di calcolo del primo atto ufficiale di Madrid per accreditarsi sulla scena internazionale, dopo la crisi che ha travolto l’esecutivo guidato da Mariano Rajoy. E questo impedisce di attribuire il gesto unicamente alla solidarietà umanitaria.
C’è uno strano vento che gonfia le vele della maggioranza giallo-verde e principalmente della sua trazione leghista.
Sono in tanti a soffiare in quella direzione e la cosa singolare è che sembra farlo anche chi è convinto di soffiare dalla parte opposta.
L’esempio francese pare calzante. A parte il pulpito da cui viene la predica, lo strappo di Parigi anziché mettere in discussione una linea politica, finisce per rafforzarla. Conferma cioè le convinzioni di Salvini a cercare nuovi equilibri europei verso est, in direzione Ungheria. Nonostante le contraddizioni di un abbraccio solo apparente, perché Viktor Orban con le sue chiusure sui migranti ne scarica di fatto tutto il peso sull’Italia.
L’ipotesi, poi, di un asse Roma-Vienna-Berlino ventilata sulla gestione delle frontiere esterne, è un altro prodotto di questa mancanza di visione e già il fatto che se ne parli è un danno.
Così l’Europa, dopo avere voltato la testa quando si trattava di non lasciare l’Italia da sola, si frantuma in un ordine sparso completamente in balia degli interessi nazionali, nemmeno più capaci di una sintesi almeno formale.
Se l’Ue alla prova dei fatti è questa, si gonfiano le vele di chi l’ha sempre guardata con scetticismo. Se non c’è una politica comune su un problema migratorio che è il vero banco di prova per un governo unitario, perché continuare a diventare matti per rispettare vincoli di bilancio e parametri che in tanti, ormai, definiscono stupidi?
Non solo.
A brindare c’è da immaginare siano quelle parti del mondo che, per interessi loro, scommettono sul fallimento di Bruxelles: Russia, Cina e anche gli Usa di Trump. Per non parlare di altri che, come la Turchia, magari sono meno importanti, ma è la somma che fa il totale, come diceva Totò.
Tutti perimetri geopolitici contrassegnati da autoritarismo e populismo.
Stili di governo distanti anni luce dalla cultura democratica, che è l’atto di nascita di un’Europa sempre più vaso di coccio tra vasi di ferro.
Se si conviene che quello populista sia il collante principale che tiene insieme, almeno finora, il governo del cambiamento, il pensiero torna alle vele spiegate e sospinte da un vento favorevole.
La Brexit ha tutta l’aria di essere stato un campanello d’allarme che ha suonato invano. Le biografie di chi ha votato per l’uscita avrebbero dovuto essere il vero terreno di analisi.
Il vincitore di quel referendum nel giugno 2016 è stato l’elettorato della paura, ossia gli strati sociali usciti sconfitti e impoveriti dalla più grave crisi economico-finanziaria dell’Occidente dal dopoguerra. Più o meno, lo stesso elettorato che, oltre oceano, ha portato Donald Trump alla Casa Bianca.
E qui veniamo a un’altra folata di vento che gonfia le vele populiste: la sinistra.
Nell’interessante dibattito innescato da Carlo Triglia su “Il Mulino”, Nadia Urbinati analizza la crisi del Pd. Thomas Piketty la chiama “sinistra braminica”, cioè quella che in Italia vince ai Parioli e perde nei quartieri popolari. La sinistra, precisa la studiosa che insegna alla Columbia University di New York, che sociologicamente vince dentro le mura, nelle zone a traffico limitato.
Qui si assiste a uno storico capovolgimento della rappresentanza politica. Gli strati sociali un tempo serbatoio tradizionale della sinistra, ora lo sono della destra.
L’ultimo fallimento in ordine di tempo è la Terza via teorizzata in terreno britannico da Antony Giddens e tradotta in programma di governo da Tony Blair. Al netto delle differenze, quella renziana è stata la traduzione italiana, per giunta in ritardo sull’orologio della storia come dicono gli esperti.
Il problema col quale non si riesce (o non si vuole) fare i conti, è che è saltato l’equilibrio progressista e socialdemocratico di quel compromesso che Jürgen Habermas ha chiamato tra capitalismo e democrazia.
Per compensare le inevitabili disfunzioni del sistema capitalistico (in questo aveva ragione Marx) interviene lo Stato che, in cambio di legittimazione, garantisce un sistema di compensazioni in termini di servizi e welfare.
Il problema nasce, e lo colse lucidamente già all’inizio degli anni ’80 Achille Ardigò nel suo “Crisi di governabilità e mondi vitali”, quando inizia a scricchiolare questo equilibrio perequativo.
Sulla riflessione dello statunitense O’Connor in:“Crisi fiscale dello Stato” (1979), Habermas, per quanto non semplice, rimane chiarissimo: “Le legittimazioni mancanti devono essere compensate con risarcimenti conformi al sistema. Una crisi di legittimazione si produce non appena le pretese di risarcimenti conformi al sistema aumentano più rapidamente della massa dei valori disponibile, o quando si ingenerano aspettative impossibili da soddisfare con risarcimenti conformi al sistema”.
È l’annuncio, già decine di anni fa, che il coperchio stava per saltare perché per mantenere un certo livello di uguaglianza sociale, gli Stati stavano perdendo il controllo dei bilanci pubblici, producendo debito.
Venendo ai giorni nostri, il vicolo cieco da cui non sembra esserci via d’uscita è che se si vuole uguaglianza bisogna sopportare debiti pubblici insostenibili, mentre una politica di bilancio più avveduta significa tagli ai sistemi di welfare e allora le distanze sociali iniziano di nuovo a crescere. Se così è, la bestia capitalista, senza museruola, ricomincia a concentrare ricchezze a dismisura in poche mani, com’è nella sua natura.
Uno dei piedi d’argilla su cui ha retto, finanziariamente, il compromesso socialdemocratico è stato il basso costo delle materie prime, in gran parte provenienti dal Sud del mondo.
Di fatto, non solo gli spiriti animali capitalisti sono stati sfruttatori del Terzo mondo, ma anche i progressisti.
E se oggi si assiste a un esodo migratorio di queste proporzioni, non è il risultato solo dei signori vestiti di nero in cilindro e finanziera, ma di una serie di addendi ben più ampia.
Andato in frantumi il compromesso di stampo progressista tra capitalismo e democrazia, anche nelle molteplici variabili, nessuno ha ancora pensato a un nuovo modello che possa reggere la prova della storia.
Nel frattempo il capitalismo continua a essere darwinianamente vivo e vegeto e, come disse il consigliere di John Kennedy Arthur Schlesinger Jr., il sistema democratico ha bisogno per vivere del libero scambio ma non è vero il contrario.
Se queste ragioni hanno un briciolo di buon senso, la sinistra ha difficoltà perché, come scrive Nadia Urbinati, “da un lato una buona condizione sociale e lavorativa rende gli stessi diritti sociali non pressanti; dall’altro, la condizione sociale vulnerabile rende i servizi sociali veri e propri beni di necessità”.
Dunque, la politica progressista al governo, con l’intento di passare dal sistema delle garanzie a quello delle opportunità, ha finito per lisciare eccessivamente il pelo ai lupi di economia e finanza e sventolando, con le migliori intenzioni, la bandiera della flessibilità, ha aumentato precarietà e distanze sociali.
Perciò, indossando simultaneamente i panni della giustizia sociale e le forbici dei tagli, la sinistra perde credibilità perché smentisce la sua stessa mission, viene annoverata a tutto ciò che è establishment e finisce per soffiare vento nelle vele dell’avversario.
Così la barca dei populismi è sospinta in avanti ben oltre la forza dei propri remi e ha buon gioco, finora, perché la crisi scoppiata alla fine degli anni 2000 ha prodotto una società piena di paure, disillusa e senza bussola.
Con un elemento di gravità in più rispetto al passato.
Mentre la società del dopoguerra aspirava a un futuro dal niente che aveva, in quella di oggi molti hanno perso quello che finora hanno ritenuto scontato di avere. E questa retrocessione della classe media nella scala sociale aggiunge rancore alla paura.
Ma la barca populista riceve anche un’altra spinta, più o meno consapevole.
Anche chiesa cattolica e cattolicesimo italiani hanno soffiato – e soffiano – in quella direzione.
Da un lato, vescovi e Vaticano, per rilanciare missione ed evangelizzazione in un’Italia preda della secolarizzazione, già dagli esiti del referendum sul divorzio (1974) iniziarono a stoppare la strada del discernimento, della scelta religiosa, della conciliare “lettura dei segni dei tempi” e della mediazione, per preferire la più decisa, muscolare e ciellina, strada della “presenza”.
Una scelta che alla fine fu disattenta sulle conseguenze di prosciugare il cattolicesimo democratico, riducendo a ininfluente rigagnolo uno storico affluente della classe dirigente italiana.
Tanto per fare un esempio, si devono a questa tradizione culturale interi pezzi della Costituzione repubblicana del 1948 e bastano solo pochi nomi per renderci conto di chi parliamo: Dossetti, Bachelet, Moro.
L’apice della strada percorsa, invece, trova fatale sintesi iconografica nell’epilogo del Celeste Formigoni e nella strategia ecclesiale di individuare in Silvio Berlusconi il paladino dei valori non negoziabili. Un alleato, per quanto tattico, che però ha fatto del proprio rapporto diretto con il popolo la principale arma puntata contro qualsiasi altro potere istituzionale non vantasse quella stessa diretta legittimazione, a cominciare dalla magistratura.
È così che si è soffiato vento nelle vele populiste.
Dall’altro lato, le energie di un volontariato sociale cattolico solidaristico e terzomondista, sempre più confinato nelle riserve indiane del pre-politico e nel nome del sacrosanto principio del rispetto della persona, corrono il rischio parallelo di annoverare nelle schiere dell’opulento e oppressivo Occidente capitalistico anche gli sconfitti interni della competizione globale.
Le pulsioni egoistiche e securitarie che agitano tante periferie, fuori le Ztl, lette con la lente della mancanza di accoglienza evangelica, rischiano di alimentare diffidenza e distanze, lasciando quote di quelle sofferenti chiusure in balia di chi si proclama in presa diretta col popolo.
Altro vento in poppa nella barca populista.
È legittimo avere dubbi sulla durata di questa luna di miele. Lo stesso atteggiamento amichevole di rapportarsi direttamente al popolo senza inutili e false mediazioni, nasconde almeno altrettante menzogne.
Per adesso, però, questa sintonia c’è.
Se si vuole invertire la tendenza, l’impressione è che occorra andare dentro questo stato delle cose, innanzitutto per comprenderlo fino in fondo.
Ne deriva che ci vorrà tempo per costruirne una nuova. Un cammino che, forse, dovrà essere un’altra generazione a compierlo.
Ciò che sembra certo è che serve a poco limitarsi a stigmatizzare – anche a sproposito – come fascisti i sostenitori e gli epigoni di questa stagione, se non si vuole soffiare altro vento in quelle vele.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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