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Salgo sul taxi accolto da un elegantissimo autista che mi preleva al Liceo Ariosto dove si festeggia il compleanno della scuola con una serie d’iniziative straordinarie. Dopo un po’ mi chiede “Allora, cosa votiamo?”; rispondo che non lo so e che comunque non lo direi nemmeno a mia moglie (un evidente falso), ma che comunque la posta in gioco non vale questi sommovimenti di pancia e di testa. Eh si sa! Il solito radical–chic.
Scrive oggi Michele Serra nella sua ‘Amaca’ che se si facesse un gioco per indovinare con chi non vorreste andare a cena dell’eventuale schieramento condiviso, probabilmente ci andreste da soli. E’ vero, quasi sicuramente è vero. Allora che si fa? Si rinuncia al voto? Pessima idea per chi è stato abituato a considerare il voto non solo un diritto, ma un dovere nel sistema democratico. E questo valga anche per il voto referendario che non sposta per nulla il risultato sia che tu vada o non vada a votare. Restano dunque due soluzioni. O voti e nello stesso tempo annulli il voto oppure te ne stai a letto con la consapevolezza di non partecipare alla vita democratica. Ai posteri l’ardua sentenza. Ma non desidero, né voglio, né m’interessa che qualcuno ponga (pre)-giudizi sulla mia scelta.
Chiaramente è un’ipotesi di condotta e mai vi svelerò – beninteso a chi interessa – se è stata applicata o meno ieri.
Sono stufo di sentir parlare di scrofe grilline, di bambinetti petulanti a cui Salvini stringe la mano perché recitano la parte di ‘fuori lo straniero’ a otto anni, di rubizzi Renzi che con la gorgia ci vorrebbero insegnare quale paradiso potrà essere una futura Italia dopo la riforma, di pensose schiere di colleghi accademici che, con voce impostata e grave, vorrebbero convincermi della necessità (?) della loro scelta.
E nell’Italia scomposta, nella ‘Ferara’ in preda ai centenari dove i celebranti s’azzuffano a danno dei celebrati, di minacce di spostamenti d’intere pinacoteche da un luogo all’altro per rendere più appetibile l’offerta turistica (quella scientifica, si sa, conta poco) un momento di commozione prevale nell’ascoltare alcuni momenti della maratona arrostisca, che ininterrottamente si svolge nel salone grande della Pinacoteca nazionale dei Diamanti (forse?) a breve smantellata.

A chi nella sua vita ha svolto nove corsi accademici su Ariosto e il Furioso sarebbe potuto apparire superfluo, se non imbarazzante, secondo le regole universitarie, aderire a questa manifestazione.
No. E’ stato un modo straordinario di riascoltare la parola della realtà ovvero della poesia nella sua nuda verità. Ho sentito leggere il canto XI e il XII, tra i più amati e riconoscibili: Olimpia, Bireno, la condanna delle armi da fuoco, il gioco sensuale di chi vuol raggiungere lo scopo e giacere con la donna amata, le parole che, come carezze descrivono la nudità della donna come un paesaggio di colline e di fiori. Ed ecco schierarsi una intera classe, una quarta del liceo scientifico Roiti. Un’alternanza di voci e di fraseggio tra scambi di acuti e di gravi. Rotolano le parole. Mature nelle voci delle ragazze, adolescenti invece in quelle dei ragazzi invano adorni, come va ora di moda, da mustacchi e barbette. Gli occhi dei ragazzi tradiscono apprensione, quelle delle ragazze fierezza. Scuotono lunghe ‘capellature’ direbbe il poeta, sibilano le ‘essce’ ferraresi in improbabili ‘tzete’. E non importa se, nonostante ragioni di rima evidenti pronunciano ‘Circàssia’ e non ‘Circassìa’. La più bella (la mi’ nonna toscana avrebbe detto ‘la sembra una madonnina’) guarda protettiva i visi un po’ brufolosi dei compagni e uno in camicia bianca sgrana occhi pieni di stupore e di meraviglia. Accolti da convinti e meritati applausi sfilano fieri e lasciano il posto a un gruppo di ragazze straniere. Una di queste recita in lingua slava ( mi sembra…) alcuni versi e poi prosegue in un italiano perfetto. S’alternano dotte signore e convinti signori e il gruppo entusiasta delle bibliotecarie ‘ariostee’. Se di festa si deve e si può parlare, lo scopo è raggiunto.

Le celebrazioni per il compleanno del Liceo Ariosto sono altrettanto commoventi. Visi attenti, consapevoli che la festa è qui, avrebbero detto un tempo i miei compagni di liceo. E si parla non del ciuffo di Trump, ma di Ariosto. Di un grande non di un piccolo (…issimo).

Si stanno concludendo le celebrazioni. La febbre provocata dalla bassanite e dall’orlandite scema. Si pensa già ad altri traguardi.
Oggi ci svegliamo con altri pensieri provocati da scelte democraticamente prodotte.

Ma nessuno saprà dirci la verità più della poesia e, per citare rovesciando l’affermazione dell’amatissimo Eusebio-Montale, l’invocazione sarà: “Chiedici la parola che mondi possa aprirti”. E questa parola è e deve essere quella della cultura, della poesia, dell’arte.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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