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Da: Istituto Storia Contemporanea Ferrara

Sessant’anni di vita in Kibbutz
Corrado Israel Debenedetti racconta ai ragazzi la lunga notte del ’43 e l’addio a Ferrara

Le testimonianze dirette evidenziano gli aspetti del passato che non possono essere trattati dal revisionismo storico; perciò è fondamentale che Israel Corrado Debenedetti abbia raccontato la sua esperienza da sionista ferrarese, stamani, di fronte alle classi del Liceo Scientifico “Roiti”. A organizzare la mattina sono stati il Museo nazionale dell’Ebraismo italiano e della Shoah (Meis) e l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, la cui direttrice Anna Quarzi ha intervistato l’ospite arrivato direttamente da Israele.

LA LUNGA NOTTE DEL ‘43
«Fui arrestato la notte del 14 novembre 1943, quella famigerata e descritta da Bassani – è entrato nel merito Debenedetti – sebbene avessi solo sedici anni. Allora stavo dando gli esami da privatista proprio al Liceo “Roiti”, che si trovava in via Borgo dei Leoni, al posto del Tribunale. Non sapevamo che in città fosse stato ucciso il gerarca fascista Ghisellini. Alle 23 suonarono alla porta due carabinieri in divisa, con una lista in mano, e mi portarono via ‘per avere delle informazioni’, almeno a detta loro. Otto di quelli che erano con noi, tra ebrei e antifascisti, furono poi massacrati con le spalle rivolte al muretto del Castello Estense». L’ospite quasi novantenne, al quale caddero addosso le Leggi Razziali, ha manifestato una certa commozione con i ragazzi.
«Quella notte gli presentarono la maestra Alda Costa, che cercò di proteggere il giovane impaurito – ha aggiunto la Quarzi – Abbiamo la fortuna di poterci confrontare con dei documenti in carne e ossa». Debenedetti ha studiato nella scuola ebraica di via Vignatagliata prima di fuggire con la famiglia. I docenti erano di alto livello, come Matilde e Giorgio Bassani, allontanati dall’Università: «Dopo il ’38 la scuola raccoglieva trenta-quaranta studenti – ha specificato – dalla quarta ginnasio alla terza liceo. Nella mia eravamo in due, quindi potevamo godere di un rapporto diretto con gli insegnanti». Dalla platea degli studenti è scaturita una domanda sui suoi cari, se avessero mai subito il peso della discriminazione. Debenedetti ha risposto: «Mio nonno era notoriamente contro Mussolini e il regime, e più volte i fascisti gli hanno sfondato le vetrine su via Cairoli, dove faceva il cambiavalute. Mentre mio padre, ufficiale di carriera, fu cacciato dall’esercito».

LA SCELTA DEL KIBBUTZ
La tenacia di sua nonna, la sentinella della tradizione in casa sua, lo salvò dalle carceri. «All’alba del 15 novembre 1943 – ha proseguito Debenedetti – qualche ora dopo che otto di noi erano stati condotti altrove, dal retro del Palazzo delle Poste uscimmo per strada, circondati da due colonne di Camice Nere. E cominciammo a camminare. Non sapevamo che sorte ci sarebbe spettata, fino a quando dal fondo del gruppo in marcia Gigetto, lo storico gelataio comunista, avvistò via Piangipane, gridando di stare tranquilli, che ci stavano portando solo in prigione». Una volta che fu rilasciato, a distanza di due mesi, Debenedetti preparò la fuga con i familiari. Il 29 gennaio del ’44 lasciarono Ferrara per nascondersi in Romagna, sotto falsa identità, dove rimasero fino alla fine della guerra. Il 3 febbraio, ovvero quattro giorni dopo, gli ebrei furono convocati nella Sinagoga di via Mazzini e spostati a Fossoli, per essere infine deportati nei campi di sterminio.
«Del centinaio di persone che entrò ad Aushwitz, ne sono uscite quattro. La responsabilità di quella notte maledetta fu degli italiani. Erano loro ad applicare i provvedimenti, a fucilare chi la pensava in altro modo. Non intervenne alcun tedesco. Finita la guerra ci sentivamo traditi dal nostro Paese – ha incalzato – volevamo creare una nuova patria, che fosse più pulita e solidale rispetto a quella della nostra infanzia. Ci avvicinammo ai principi del Socialismo e del Comunismo, scegliendo di vivere in Kibbutz. Ci trasferimmo in Israele nel ’49, l’anno seguente alla fondazione dello Stato. Il trattamento economico non dipendeva dal lavoro che facevamo; che tu fossi ingegnere o lavapiatti, ricevevi le stesse cure, e le priorità sono sempre state l’assistenza sanitaria e l’educazione dei figli». Non a caso, Debenedetti ha pubblicato I sogni non passano in eredità. Cinquant’anni di vita in Kibbutz, edito da Giuntina: «Il titolo sottolinea – ha concluso la Quarzi – che per quanto le pratiche siano oneste e volenterose, non bastano per mantenersi nel tempo. La generazione di Corrado ha tentato di tramandare ai nipoti gli ideali che diedero loro tanto coraggio, che significarono più di qualsiasi altro bene materiale».

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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