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“Siamo così, dolcemente complicate, sempre più emozionate”, canta Fiorella Mannoia cogliendo il lato femminile della medaglia umana.
Forse bisognerebbe estendere le stesse parole anche al lato maschile per avere un’idea dell’identità di noi italiani.
Sembra che ci proviamo gusto a complicarci la vita, salvo poi gridare aiuto quando ci si rende conto di essere prigionieri delle stesse suicide complicazioni.
Un esempio? Siamo talmente abituati a vivere nell’emergenza che questa ci pare la più naturale normalità. Tanto è vero che siamo i campioni mondiali in fatto di protezione civile. Quando c’è da prestare soccorso per un disastro non prendiamo lezioni da nessuno e in quelle prime fasi dell’emergenza se ne vanno le nostre energie migliori. Poi, spompati, franiamo miseramente nella gestione dell’ordinario. Una normalità sempre incompiuta in un’interminabile transizione, che finisce il più delle volte per produrre altre emergenze nelle quali siamo sistematicamente risucchiati. E tutto si ripete con una ciclicità sfiancante.

Così, in un quotidiano sistematicamente fuori regola, si seleziona darwinianamente il tipo ideale italiano: il furbo, il guitto, l’esperto nell’arte di arrangiarsi e che a sua volta dà il meglio di sé non nell’applicare le regole, ma nell’aggirarle per fronteggiare le infinite eccezioni. I nostri codici normativi – così ci dicono – sono infatti il trionfo del cavillo, tanto che pare nessuno in Italia sappia esattamente quante leggi esistano. Mentre chi si sforza di osservarle non rientra nel novero delle civiche virtù.
Dolcemente complicati.

La figura dell’italiano un po’ cialtrone e baraccone è il filo conduttore, in fondo, dell’intera narrazione cinematografica di Mario Monicelli: da Brancaleone, alla sgangherata banda dei ‘Soliti ignoti’, fino ai due perennemente imboscati in ‘La grande guerra’. Qui Alberto Sordi e Vittorio Gassman hanno dato, da par loro, volto e parola alla quintessenza della cialtroneria. Salvo uscire, in un sussulto identitario d’indignazione, con quel “Mi te disi propri un bel nient, fassa de merda” che il grande Gassman quasi sputa addosso all’ufficiale austriaco, sicuro di estorcere dai due molli fanti informazioni preziose sui movimenti delle truppe italiane. Un moto di orgoglio fatale che sale dallo stomaco fino alla gola solo quando – ancora l’emergenza – il tedesco guarda l’italiano con disprezzo. In quell’istante i due scansafatiche sono pronti a pagare anche con la vita – sempre più emozionati – il loro essere italiani. Un atto miracolosamente eroico, tuttavia non riconosciuto dai commilitoni salvati grazie a quell’inaspettato sacrificio che, anzi, si chiedono dove quei due si siano nuovamente imboscati, pur di scansare l’ennesima prova.
Dolcemente complicati.

Che dire poi dell’ordinario e atavico guardarsi in cagnesco? Per un verso è stato il principio di quella trama di Comuni e Signorie che furono il ventre gravido di una bellezza sublime – culturale, artistica e architettonica – ancora oggi in grado di sbalordire il mondo intero. Per altro verso, quella stessa trama è stata il fatale varco di una debolezza, del quale hanno approfittato interminabili schiere di eserciti invasori che per secoli hanno calpesto e deriso l’intero Stivale, “perché non siam popolo, perché siam divisi” recita il nostro inno nazionale.
Pure questo fu terreno fertile per il germogliare furbo di una fitta e suicida rete di alleanze, l’un contro l’altro, sempre a somma zero. Lo racconta ancora il cinema con il film ‘Il mestiere delle armi’ di Ermanno Olmi, in cui il duca estense Alfonso I vende allo straniero lanzichenecco i cannoni che spareranno all’italiano Giovanni dalle Bande Nere.
Complicati e, stavolta, neppure tanto dolcemente.

Si potrebbe comprendere con questa rincorsa storica anche l’ultima sciagurata legge elettorale. Molti presagiscono che il nuovo sistema di voto che fa da cornice alla campagna elettorale già iniziata, consegnerà il paese a una pericolosa instabilità
In fondo, nel Rosatellum c’è il guardarsi in cagnesco per far perdere l’avversario, c’è l’algebrica somma zero di una politica incapace di occupare il proprio spazio, tanto che le ultime due leggi elettorali le ha scritte la Magistratura, e c’è la deliberata costruzione dell’emergenza, il prolungamento di una transizione incurante dell’approdo.
Lo scrive bene Gianfranco Brunelli, direttore de ‘Il Regno’ (20/2017). Per la Camera sono assegnati 232 seggi in altrettanti collegi uninominali e 386 con il proporzionale, per accedere ai quali basta raggiungere il tre per cento dei voti. In più, in palio ci sono i dodici seggi della circoscrizione estero.
“Come è stato adeguatamente dimostrato – scrive Brunelli – se uno dei tre soggetti maggiori della competizione – centro-sinistra, centro-destra e M5S – ottenesse il 35 per cento dei seggi proporzionali (cosa plausibile) e il 50 per cento dei seggi maggioritari, il numero dei suoi deputati sarebbe 251, lontano dai 316 necessari per avere la maggioranza”.
Per raggiungere quota 317 (un solo seggio in più della maggioranza), occorrerebbe arrivare al 40 per cento dei proporzionali e al 70 per cento di quelli maggioritari.
Per il Senato, poi, la situazione non è migliore.
“Il prossimo governo – continua il direttore – qualunque sia la formula che adotterà il presidente della Repubblica dopo le elezioni, dovrà necessariamente nascere dalla scomposizione delle coalizioni che si presenteranno unite davanti agli elettori per poter dare vita a una qualche maggioranza. Persino nel caso di un governo provvisorio in vista di un veloce ritorno alle urne”.

Capito? Gli elettori votano per partiti e coalizioni che poi in Parlamento faranno e disferanno alleanze a prescindere dalla volontà dei cittadini. E’ il ritorno della prima Repubblica in pompa magna, con i suoi rimpasti di maggioranze, le non sfiducie e con la girandola di governi che duravano giusto il tempo di una canzone per l’estate.
Così, tutti insieme appassionatamente, si va incontro a instabilità che si aggiunge a instabilità e lo spirito italico continua a vivere sull’orlo del caos.
Sarà anche per questo, forse, che cadiamo e ricadiamo nell’illusione dell’uomo della provvidenza, del leader, lo spavaldo, il guascone, il giovane disinvolto al posto dei parrucconi, il semplificatore, per porre fine col suo polso fermo e il passo veloce del bersagliere, al labirinto claustrofobico del perenne stato d’eccezione e dell’enorme ufficio complicazione affari semplici, in cui ciclicamente ci cacciamo.
Siamo così, noi italiani, dolcemente complicati, sempre più emozionati. O spaventati?

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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