Skip to main content

Giorno: 9 Dicembre 2013

green-economy

Scenari post-crisi, noio vulevam savuar l’indiriss

Confesso di essere un lettore distratto. Ma mi chiedo perché, nell’oceano di statistiche, grafici, dati e cifre che ogni giorno ci sommerge, non trovino quasi mai posto un ragionamento, un’indicazione, uno studio sul cosa fare per superare questa crisi.
La contrapposizione dottrinale e politica tra rigore e sviluppo tiene ancora banco in Europa, e non si sa ancora quale dei due orientamenti prevarrà. Nel frattempo chiudono imprese, saltano posti di lavoro, si riducono al lumicino le speranze di migliaia di giovani di avere un lavoro ed un futuro. Per l’Italia, il Rapporto Censis 2013 – non certo un bollettino rivoluzionario – punta il dito contro politici, imprenditori e banchieri, additandoli come responsabili primari della crisi. “È impossibile pensare ad un cambiamento – sostiene il Censis – perché la classe dirigente non può e non vuole uscire dalla implicita ma ambigua scelta di drammatizzare la crisi per gestirla”. Terribile.
Tentiamo qualche ragionamento. Negli ultimi quindici – vent’anni il nostro Paese ha perso o fortemente ridotto la sua capacità produttiva in settori industriali nei quali era stato tra i primi al mondo. Dapprima l’informatica e la chimica; poi l’elettronica di consumo, l’industria aeronautica, gli elettrodomestici e la siderurgia. O si sono perse posizioni, o si è restati marginali.
Rimane in piedi l’auto, con tutte le difficoltà ben note di un mercato maturo e dal futuro imprevedibile. Il fallimento della municipalità di Detroit, città dell’automotive per eccellenza schiacciata da 18 miliardi di dollari di debiti, è un campanello d’allarme preoccupante al riguardo.
Perché sono così in pochi ad indicare come uscire da questa situazione? Nessuno dice cosa si deve produrre in Italia, al posto di quello che non si produce più, e dove lo si deve vendere.
La verità è che il nostro Paese da anni non investe o investe poco nelle intelligenze e in settori nuovi. Quando lo fa, lo fa male. Nella produzione di energia alternative, ad esempio. Il fotovoltaico ha pesato troppo sulla bolletta elettrica e con il calo degli incentivi si è sgonfiato rapidamente. L’utilizzo delle biomasse, soprattutto nella Valle Padana, ha suscitato proteste più che consensi, probabilmente perché non ha utilizzato giuste ed avanzate tecnologie. Più in generale, la green economy – cavallo di battaglia di uno sviluppo alternativo – in Italia non è diventata sistema, nonostante molte e lodevoli iniziative imprenditoriali.
Intanto si aspettano idee per uscire dalla crisi. Dal governo, anzitutto, ma anche dagli imprenditori. Tempo fa il presidente di Confindustria Squinzi ha detto più o meno che, se incentivati da politiche pubbliche, gli industriali italiani ci avrebbero stupito. Aspettiamo fiduciosi, ma non tanto.

Pci-Ds

Il patrimonio ex Pci, sei milioni nelle mani di una fondazione privata

Dov’è finito il patrimonio dell’ex Pci, transitato nel 1991 nel Pds poi ereditato nel 1998 dai Ds ma mai conferito al Pd? La storia non è nuova, ma non sono in molti a conoscerla. Quel patrimonio, fatto essenzialmente di immobili, dall’autunno del 2007 è custodito da una rete di fondazioni private. Quella provinciale, che gestisce le ex case del popolo, i magazzini e gli stabili che un tempo furono del Partito comunista ferrarese e poi dei suoi eredi diretti, si chiama “L’approdo”. A governarla è un comitato di indirizzo, composto da cinque membri nominati a vita e presieduto da Secondo Cusinatti, storico dirigente del Pci copparese. Ne fanno parte Severino Franco, Riccardo Baricordi, Alberto Bovinelli e Daniele Zoli. C’è poi il consiglio di amministrazione, di cui fanno parte cinque persone: il presidente Bracciano Lodi e i consiglieri Maurizio Aguiari, Daniele Ravagnani, Alessandro Tedaldi e lo stesso Cusinatti. Poi ecco il collegio dei (tre) revisori dei conti. Tredici persone in tutto. Lo statuto prevede anche un comitato scientifico con relativo direttore generale ma di questi sino a oggi si è fatto a meno.
“Nessuno di noi percepisce un euro”, si affretta a chiarire Cusinatti, e fa bene a mettere le mani avanti perché di questi tempi il sospetto è legittimo. “Nemmeno i rimborsi spesa – aggiunge – se vado a Bologna mi pago la benzina”. Nessun gettone da 900 euro per la trasferta? Se la ride, ma non si sa quanto di gusto. Per uno che in certi valori crede davvero quel che sta accadendo non è facile da mandare giù.

Ma di cosa stiamo parlando in soldoni? Grossomodo di sei milioni di euro, il valore di una trentina di immobili proprietà dei Ds che non sono finiti nei forzieri del Pd, oltre a circa 170mila euro di rendita annua che deriva dal loro affitto. Cifre approssimate, ricavate dal presidente che al momento del nostro colloquio non ha sottomano i bilanci (“ma sono controllati, c’è la massima trasparenza”, afferma) e per soddisfare la nostra insistenza ci rimanda al sito della Regione dove – sostiene – sono pubblicati. Ma dalla Regione, dopo vane ricerche in rete e un lungo giro di contatti, apprendiamo che in realtà i bilanci delle fondazioni non sono online e per poterli consultare i tempi non sono brevi. C’è il solito iter… Così, sollecitato di nuovo, Cusinatti l’indomani ci richiama e dice di avere ritrovato un appunto al margine di una relazione e snocciola questi numeri. Altro non c’è, perché – spiega – la liquidità di cassa, a Ferrara come in tutta Italia, fu devoluta al nuovo partito ai tempi della fusione, sei anni fa. In ogni caso non è poco. Sei milioni di roba e 170mila euro di rendita annua sono un bel gruzzolo, benché un provento del 3 percento su un simile patrimonio non sia proprio da lustrarsi gli occhi.

A questo punto subentrano gli interrogativi. Il primo è capitale. Perché nel 2007, pur devolvendo la cassa, ci si tenne “l’argenteria”? Diffidenza reciproca, sostanzialmente – afferma in una sua recente memoria Giorgio Bottoni, allora tesoriere dei Ds, che non condivise però la soluzione delle fondazioni e non entrò a farne parte -. L’interpretazione appare convincente. D’altronde quello fra Democratici di sinistra e Margherita fu un matrimonio innaturale. Le due formazioni politiche ereditavano la tradizione di Pci e Dc, eterni rivali. Mettersi insieme, pur in un contesto storico radicalmente mutato, era una scommessa e per qualcuno forse un azzardo. Tanti non aderirono, non riconoscendosi nell’identità del nuovo soggetto. E coloro che comunque decisero di andare avanti lo fecero con riserva tutelandosi nel caso che… L’idea era che qualora il matrimonio fosse fallito ciascuno (mettendo preventivamente da parte i propri averi) poteva sempre tornare a casa propria. Sotto questa luce l’operazione appariva come un temporaneo accantonamento, in attesa che si dissipassero i dubbi sulla possibilità di convivere nel nuovo partito. In maniera analoga si regolò anche la Margherita.

Cusinatti però non la vede così. “Il problema era un altro: i partiti da sempre sono mangiasoldi. Quei beni sarebbero spariti in fretta. La volontà delle fondazioni nate a livello nazionale e messe in rete fra loro era quella di mantenere il patrimonio frutto del lavoro dei compagni delle feste dell’Unità, delle autotassazioni, delle sovvenzioni…. Dietro la facciata delle parole emerge però un retropensiero che l’interlocutore non esplicita ma lascia intendere: quello che il Pd non rappresentasse coerentemente il patrimonio ideale dei Ds, cioè della sinistra. E che quel patrimonio andasse preservato dalla deriva ideologica.
A questo punto però lo scenario si complica e divergenti appaiono le implicazioni.
Se il problema sono “i partiti mangiasoldi” – come dice Cusinatti – c’è da chiedersi sulla base di quale autorità morale fondazioni private, per sottrarre il patrimonio alla voragine, si siano di fatto impadronite di una ricchezza che era pur sempre maturata nell’alveo di una formazione politica, dunque collettiva.
Se di operazione di pura cautela si trattava – come invece pensava il tesoriere Bottoni – beh probabilmente dopo sei anni di sposalizio la reciproca diffidenza si potrebbe considerare superata e nulla più osterebbe al conferimento del patrimonio al suo legittimo erede, il Pd.
Ammenoché non prevalga la terza, implicita, riserva: quella politica. Il Pd è indegno erede e quindi tutto resta congelato in attesa della fine del mondo e di una palingenesi: la rinascita dalle ceneri di un erede finalmente degno. Uno scenario apocalittico, ma in fondo neppure troppo remoto visti i continui dissidi interni ai Democratici. Che però sono abbastanza trasversali alle vecchie appartenenze e quindi potrebbero un domani, qualora pure si giungesse a una scissione, non approdare alla formazione di un soggetto in grado di soddisfare la purezza di pedigree attesa dai depositari degli antichi ideali.

Tornando ai fatti, la realtà ferrarese parla, come anticipato, di sei milioni di patrimonio immobiliare (metà dei quali ascrivibili al centro feste di Vigarano). Cosa dovrebbe fare L’Approdo di questo bendidio? “Metterlo a disposizione della collettività”, afferma in maniera vaga Cusinatti. Per cosa concretamente? L’imperativo che viene esplicitato è “diffondere la conoscenza della storia e della cultura della sinistra”. Ottimo. Ma in concreto cosa è stato fatto? Gli anni sono già sei ma nel sito ufficiale (www.fondazionelapprodo.it) l’unica cosa segnalata alla voce “attività” è la pubblicazione del volume “E l’Unità faceva festa” a firma Sara Accorsi, realizzato e stampato in trentamila copia nel 2010 da Cirelli e Zanirato, al costo (precisa il presidente del comitato di indirizzo) di 30mila euro, “in vendita – è scritto nel sito – in tutte le migliori librerie al costo di soli 21 euro”.
Già questo lascia perplessi: in vendita, dunque. Ma – chiediamo a Cusinatti – non dovreste divulgare, mettere a disposizione? “Sì, infatti li abbiamo poi regalati, a parte un centinaio. Adesso stiamo vedendo cosa fare delle rimanenze. Quante? Un migliaio. Andranno ai circoli di partito e alle biblioteche”.
Va bé… E a parte il libro? “Beh stiamo sistemando i locali di piazzetta Righi, da viale Krasnodar trasferiremo lì la sede, stiamo anche attrezzando un archivio…”. Questo è l’oggi – puntualizziamo – ma in passato? “Ci siamo preoccupati della manutenzione degli immobili, della loro messa a norma…”. Già, ma che c’entra con la divulgazione dei valori della sinistra? “Abbiamo pubblicato un libro di Gaetano Marani e contribuito alla scuola di formazione del Pd”. E “tutto” questo fervore culturale quanto vi costa ogni anno? “Dai 15 ai 25mila euro”, sostiene l’interlocutore. Che aggiunge: “Abbiamo anche concorso con le fondazioni di tutta Italia alla realizzazione della mostra itinerante sul Pci”.

Onestamente ci pare poco. Da quanto ci viene riferito la fondazione sembra avere quale scopo primario quello di sopravvivere. Si fa manutenzione, appunto, ma manca la progettualità. Addentrandoci nelle scarne cifre di bilancio, guidati dal presidente Cusinatti e dai suoi appunti, scopriamo che nel 2012 dei 147mila euro di uscite circa la metà sono andati a copertura dei mutui che gravano su alcuni degli immobili, 20mila per opere di messa a norma, 11mila per il personale di segreteria e il rimanente in spese assicurative, tasse e tributi vari. Alle iniziative culturali sono finite solo le briciole. Eppure il bilancio si è chiuso con un attivo di 23mila euro. Dunque se si fa poco a livello di iniziative il motivo c’è: si spende poco o nulla. Ma lo scopo della fondazione, ribadiamo, non è galleggiare, bensì promuovere e diffondere la conoscenza dei valori della sinistra. E allora? Mancheranno mica le idee?
Già che ci siamo ne buttiamo lì una. Perché non vendere una parte cospicua del patrimonio e col ricavato creare, per esempio, un grande centro culturale multimediale che davvero dia impulso alla ricerca sui temi propri della sinistra, oltre che coltivarne la memoria? Cusinatti replica che non si può fare, poi si corregge e dice che sì, si potrebbe, ma è un’idea troppo ambiziosa, “mica siamo a Roma”.

Allora si torna al quesito iniziale. Una fondazione così ripiegata in se stessa a cosa serve? Ne comprenderemmo la ratio se la funzione (come sostiene Bottoni in una lettera scritta alla Nuova Ferrara nella primavera scorsa) fosse quella di cassa di sicurezza, in caso di divorzio nel Pd. A questa condizione la gestione meramente conservativa avrebbe un senso. Ma se la fondazione deve essere un motore di conoscenza, come viceversa reputa Cusinatti, non può semplicemente svivacchiare, tirare avanti ridipingendo le pareti di casa e togliendo la muffa. “Senza le fondazioni metà del patrimonio già oggi non ci sarebbe più”, ribadisce tosto il presidente. E io provoco: quindi la vostra è solo una funzione di tutela, un rifugio dagli spendaccioni di partito? “Da una cultura sbagliata che c’era anche dentro i partiti di sinistra”, chiarisce l’interlocutore. E si affretta a precisare (con un paradosso che dissipa possibili malevole interpretazioni): “Voler spedire quell’unica copia dell’Unità in Valle d’Aosta costava 500 euro, non era economicamente conveniente…”.

Bene, ma oggi che l’Unità non c’è più (per stare alla metafora) e siamo a fine anno, cosa si propone di fare L’Approdo per il 2014? Al dubbio che ci assale chiediamo soluzione a chi ha potere di decidere. “Ad aprile ci troveremo per stilare il bilancio consuntivo e approvare quello preventivo”. Ad aprile? Siamo a dicembre! E poi che c’entra il bilancio, stiamo parlando di programmi, di attività, progetti, non di contabilità… “Sistemeremo la nuova sede, l’archivio, ci sarà una saletta con 40/50 posti”. E per farne cosa? Chi siederà su quelle sedie? I dubbi persistono.

E poi c’è il problema delle cariche a vita. Sempre Giorgio Bottoni scrive che di questi compagni ci si può fidare (“sono brave persone, oneste, disinteressante”), ma domanda: una volta che non ci siano più loro che succede? Lo statuto prevede che se uno degli attuali componenti per qualsiasi motivo viene a mancare si sceglie un sostituito per cooptazione. Pratiche da “ancien regime” che credevamo superate. “Già – sorride – Cusinatti – però almeno noi siamo tutti gratis”, lasciando intendere che la carica è, in tutti i sensi, più un peso che un godimento.

Ci salutiamo e a me resta una convinzione. Se questi signori sono garanti di un patrimonio collettivo, come il presidente stesso ammette, non è giusto che decidano tutto da soli. Non sarebbe stato meglio, nel 2007, coinvolgere la totalità degli iscritti ai Ds di quell’anno come se fossero i soci di un azionariato diffuso, definire una forma associativa condivisa fra tutti i militanti e posta sotto il loro controllo assembleare anziché privatizzare la gestione? Non sarebbe stato più giusto, più “di sinistra”? “La scelta è stata nazionale, si è deciso così”, chiosa Cusinatti.

Mentre ci allontaniamo, ad accompagnarci è l’altro rovello: che senso ha mantenere in vita la fondazione in una condizione di sostanziale inerzia?
Se lo scopo era semplicemente quello di preservare il patrimonio nel caso di rottura nel Pd, ha ragione Bottoni quando dice che ora è tempo che quei soldi vadano al Partito democratico. Se invece, come ritiene Cusinatti, il Pd non rappresenta i valori della sinistra, e quindi la fondazione ha il dovere di sviluppare una propria autonomia azione per sostenere e diffondere quei valori, è tempo di rimboccarsi le maniche: in sei anni due libri, qualche contributo all’Istituto di storia contemporanea e il sostegno alla scuola di partito (del Pd peraltro, che in quest’ottica risulta un paradosso, ammenoché non si pensi di indottrinarne i dirigenti!) sono il nulla. Insomma, in qualsiasi caso, così non va.

1 – CONTINUA

L’allenatore di campioni al campetto del San Luca

Dei ragazzini che giocano a calcio in un campetto di Ferrara, un campione del Manchester City come Yaya Touré e un attaccante acclamato come Gervinho. Che cosa hanno in comune questi 13enni ferraresi, attaccanti, difensori e portieri dalla maglia rossoblù con il centrocampista di una delle più celebri e blasonate squadre inglesi e con uno dei nuovi idoli della Roma? In comune hanno un pezzetto di quella terra d’Africa, la Costa d’Avorio. Un paese martoriato da una guerra fratricida che, però, non è riuscita a uccidere la passione, la voglia di vivere, correre e lottare per qualcosa che va oltre ogni confine: lo sport e, in questo caso, precisamente il calcio.
Perché, a lanciare da un campetto delle giovanili africane Yaya Touré prima e poi Gervinho, è stato Traore Aboubakar, meglio conosciuto come Abu. Adesso Abu allena il gruppo Esordienti dell’associazione sportiva Acli San Luca-San Giorgio di Ferrara.
Abu è venuto via dalla Costa d’Avorio, come Yaya e Gervinho. Ognuno di loro, la cosa che sa fare bene, è il calcio. Alle spalle una storia personale segnata; nel cuore la voglia di non arrendersi mai. Nelle giovanili africane Abu ha conosciuto, scelto e allenato questi ex ragazzini, ne ha apprezzato la bravura, li ha spronati a superare se stessi. Nel luglio 2010 Yaya firma un contratto quinquennale con il Manchester City, nel 2011 e nel 2012 viene eletto miglior giocatore africano dell’anno. La carriera di Gervinho prende il volo in Francia, nel Lille, per poi passare all’Arsenal fino ad arrivare, quest’estate, alla Roma. Insieme con Didier Drogba, Touré e Gervinho sono tra i giocatori più rappresentativi della Nazionale ivoriana.
In Italia dal 2009, Abu ha ottenuto l’asilo politico e a Ferrara la possibilità di portare avanti il suo mestiere, che gli serve per mantenere i due bambini rimasti orfani della mamma e per non spegnere mai la passione che, insieme con il cibo e l’aria, è quella che tiene vivi dentro. A seguirlo e a fare tesoro della sua professionalità e della sua carica di umanità una quindicina di ragazzini, classe 2000 e 1999. Che corrono, sudano e esultano con Abu in via del Campo e nei prati dove li porta il campionato esordienti ferrarese.

tecnocrazia

Dittatura economica, i tecnocrati sottraggono la sovranità ai cittadini

di Barbara Diolaiti

Quando, leggendo il “Bill of Rights” del 1689, chiedo agli studenti di Quarta Itis di individuare quali affermazioni secondo loro confermino con maggiore chiarezza la vittoria del Parlamento inglese sul Re, sempre citano: “Che imporre tributi in favore o ad uso della Corona, per pretese prerogative, senza l’approvazione del Parlamento, per un periodo più lungo o in altra maniera che lo stesso Parlamento non ha e non avrà concesso, è illegale.” Il potere fiscale sottratto al Re.

Penso a questo sabato 7 dicembre mentre ascolto Franco Russo, relatore del terzo appuntamento della scuola di formazione popolare “Invertire la rotta”, organizzata dal Comitato Acqua pubblica di Ferrara in collaborazione con Attac Italia e Insolvenzfest.

“I trattati dell’Unione Europea – spiega, infatti, Russo – sono basati sul criterio dell’efficienza e non della democrazia. L’obbligo degli Stati membri di approvare e inviare alla Ue le leggi di stabilità entro il 15 ottobre di ogni anno, leggi che devono uniformarsi alle indicazioni della Ue stessa, dimostra che il potere fiscale non è più nelle mani dei Parlamenti nazionali e nemmeno del Parlamento europeo, ma di organismi tecnocratici che, in pratica, svolgono il ruolo che era dei Re nelle monarchie assolute.”
L’incontro è dedicato al tema “Stati sovrani? Economia del debito e democrazia economica”; i due precedenti a “Finanziarizzazione dell’economia e dei servizi pubblici” (30 novembre, Roberto Errico e Ivan Cicconi) e a “l’Europa delle istituzioni, dei popoli, della finanza” (23 novembre, Stefano Risso e Claudio Gnesutta).
Cinquanta, settanta persone ad ogni incontro, molte domande e riflessioni.
Alessandro Somma, Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, ha coordinato l’intero ciclo e con lui hanno dialogato i diversi relatori.
Somma ricostruisce la progressiva perdita di sovranità ricordando che già il fascismo si presentò come una soluzione sul piano prima di tutto economico: “La liberalizzazione del mercato era in profonda crisi e vi era il rischio che l’economia venisse presa in mano da un movimento operaio forte. Il fascismo rappresentò così la “terza via” per riformare il mercato e la politica divenne lo strumento per presidiare l’ordine economico attraverso l’applicazione dell’ordoliberalismo: lo Stato interveniva nell’economia difendendo la proprietà e l’iniziativa private, garantiva alcune misure di protezione sociale, ma lasciava il singolo individuo solo di fronte al potere politico ed economico.”
“Non è un caso – prosegue Somma – che le Costituzioni democratiche dei Paesi che, pur in momenti diversi, hanno vissuto la dittatura (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo) siano fortemente caratterizzate da una reazione anche alla dittatura economica.”
Perché per difendersi da involuzioni autoritarie non è sufficiente garantire la democrazia politica, ma è indispensabile prevedere la socializzazione dei beni economici. E sono proprio questi, oggi, gli Stati sotto attacco costante della Troika europea, che impone – e ottiene – modifiche di quelle Costituzioni e delle Leggi conseguenti proprio nelle parti relative alla democrazia economica. Ecco allora il pareggio di bilancio in Costituzione o la modifica dell’art.18 che affievolisce la difesa del lavoratore e lo lascia più solo di fronte al potere politico ed economico.
“Per la Germania andò diversamente – chiarisce Somma – perché decisero gli Alleati, prevedendo già una Costituzione con l’obbligo di pareggio di Bilancio, ad esempio. L’Unione Europea nacque con l’obiettivo di realizzare un’ “economia sociale di mercato”, che di fatto reintroduceva il concetto di ordoliberalismo al quale ora si sta via via riconducendo l’economia dei singoli Stati membri.”
“Il federalismo europeo di marca liberale – riprende Russo – riteneva che si dovesse agire sul mercato per superare la volontà di potenza degli Stati sovrani, che, in effetti, era stato elemento determinante nello scoppio delle due guerre mondiali. L’idea era unificare i meccanismi economici per giungere anche all’unità politica. Ma quelle posizioni vennero velocemente eliminate e si costruì, invece, un’Unione funzionale all’economia capitalista, basata sul criterio dell’efficienza e non della democrazia economica. Oggi siamo in presenza di un ordine giuridico del mercato, che prescinde dai diritti delle persone.”

“Non è questione di difendere la sovranità dei singoli Stati o dell’Europa – incalza Somma – ma di difendere la sovranità dei cittadini ai quali questa sovranità è stata tolta. Ogni volta che si ristruttura il debito per adeguare un Paese ai parametri europei si compie una violenza sulla sovranità dei cittadini tagliando servizi, dismettendo il patrimonio pubblico. Per citare lo storico Marc Bloch, se tutti i debiti venissero saldati, il sistema capitalista crollerebbe. Non a caso ora nessuno permette ai Paesi di fallire: occorre mantenerli indifesi di fronte a cambiamenti strutturali. Eppure nella Storia sono numerosi gli esempi di Stati falliti. Gli Stati dovrebbero avere il diritto di fallire anche perché questo significherebbe avviare una rilettura di ciò che è accaduto, delle scelte compiute, assicurarsi la possibilità di cambiare rotta.”

Che fare, allora, per restituire a tutti noi quei diritti democratici che non possono prescindere dalla democrazia economica?
“Non è facile – riflette Somma – anche perché abbiamo introiettato il metro economico per valutare ogni cosa. Ma vi sembra normale che si pensi di eliminare le Province per risparmiare soldi? O di ridurre il numero di parlamentari sempre per risparmiare soldi? Nell’entusiasmo generale si sceglie di privarsi di strumenti democratici per risparmiare soldi e contemporaneamente si afferma però di rivolere la sovranità. Il tema dovrebbe essere il controllo democratico delle scelte, come recuperare spazi di democrazia e di conflitto.”

Franco Russo è chiaro: “Per contrastare questo disegno, per invertire davvero la rotta occorre prima di tutto mantenere un atteggiamento etico, essere consapevoli che alle ragioni dell’economia vanno contrapposte le ragioni delle persone. Smettiamola di pensare che coloro che decidono siano degli idioti inconsapevoli della realtà, che propongano ricette fallimentari poiché incapaci. Sanno perfettamente ciò che fanno e di certo operano consapevolmente contro noi cittadini.”

“La nostra alfabetizzazione – conclude Russo – è un passaggio ineludibile: basta con la superficialità. Dobbiamo studiare, approfondire, rifuggire dalle banalità e dalle scorciatoie. Troppo a lungo la Sinistra ha sottovalutato l’importanza dell’Unione Europea e la necessità di agire per modificarne la direzione. E poi il sindacato…i sindacati sono presenti in tutti i Paesi aderenti alla Ue eppure non lottano contro le scelte dell’Unione Europea; si accordano, sembra abbiano rinunciato a difendere i diritti dei lavoratori. Occorre aprire un confronto anche su questo.”