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Giorno: 15 Marzo 2014

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La mamma di Federico Aldrovandi al congresso nazionale Arci: via la divisa ai poliziotti condannati per la morte di mio figlio [video]

Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi è intervenuta ieri al XVI Congresso Nazionale dell’Arci in corso a Bologna per ricordare la campagna #vialadivisa che sta portando avanti assieme ai familiari di altre vittime delle violenze delle forze dell’ordine. La richiesta è la destituzione dei quattro poliziotti condannati per la morte del figlio. I seicento delegati hanno aderito alla campagna con un flash mob sollevando un foglio con l’hashtag dell’iniziativa.
Il Congresso dell’Arci si concluderà domani con l’elezione del nuovo presidente nazionale. Per la prima volta si fronteggiano due candidati: Filippo Miraglia e Francesca Chiavacci, una contrapposizione che sta suscitando non poche tensioni tra i delegati e un acceso dibattito interno.

[vedi anche questa sintesi]

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Civiltà e cultura, l’eco di Bassani in Germania

Da MONACO DI BAVIERA – In occasione dei cento anni dalla nascita di Alfred Andersch (Monaco di Baviera, 4 febbraio 1914 – Berzona, 21 febbraio 1980), attento e sensibile scrittore, editore e produttore radiofonico tedesco, si vuole dedicare a lui questo breve saggio sull’eco dell’opera di Bassani in Germania, ricordandolo come lo scrittore tedesco che più di ogni altro negli anni sessanta ha contribuito alla diffusione dell’opera dello scrittore ferrarese.

Le traduzioni dei romanzi e dei racconti di Giorgio Bassani sono apparse in Germania proprio negli anni in cui i tedeschi cominciavano ad occuparsi molto seriamente del loro passato nazista. Negli anni cinquanta, nel periodo del miracolo economico, il ricordo del Nazionalsocialismo fu bandito. I tedeschi avevano tentato di allontanare persino dai ricordi quell’epoca buia della loro storia. “Si cercò di evitare di pensare alla storia, si viveva e si pensava solo al presente. Lo stato e la politica non erano più in primo piano” così scrive di quegli anni il giornalista Helmut Boettinger in una retrospettiva degli anni ’50 nella Germania Ovest.

Questo atteggiamento cambiò negli anni sessanta, soprattutto ad opera del movimento del ’68. In questi ultimi anni si sono rivolte molte critiche al movimento studentesco, spesso anche giustificate, ma rimane incontestabile che si deve a quel movimento l’aver riaperto la discussione sul Nazismo, sul fascismo e l’aver messo in evidenza il ruolo delle diverse classi sociali nello sterminio degli ebrei. Soprattutto all’interno delle famiglie borghesi, nacquero forti scontri generazionali tra padri e figli, su chi fosse responsabile di quei misfatti. In quegli anni, vennero anche riscoperti nelle università testi letterari e filosofici di ebrei e antifascisti emigrati, che nel dopoguerra erano stati dimenticati o, peggio, nascosti. L’interesse per la cultura di lingua tedesca dell’esilio (la famiglia Mann, Walter Benjamin, Bertold Brecht, la Scuola di Francoforte, ecc.) trovò un nuovo impulso. Si scoprì anche la letteratura antifascista degli altri paesi europei, come per esempio i romanzi dello spagnolo Jorge Semprun, dell’austriaco Jean Amery che viveva in Belgio, il diario dell’olandese Anne Frank, i romanzi degli italiani Cesare Pavese, Alberto Moravia, Ignazio Silone, Primo Levi, oltre all’opera di Giorgio Bassani.

Ma ci sono differenze fra autori e artisti diversi. Per Primo Levi era centrale la realtà dei campi di concentramento nazisti. L’esperienza della resistenza contro l’occupazione nazista è narrata da Beppe Fenoglio. Roberto Rossellini ha rappresentato in Roma città aperta il comportamento delle truppe tedesche durante l’occupazione di Roma. Leggendo invece l’opera di Bassani “con occhi tedeschi” colpisce che il suo interesse si focalizzi sul fascismo, sull’Italia e su Ferrara. Alcuni dei protagonisti dei suoi romanzi vengono deportati in Germania e uccisi dai nazisti nelle camere a gas. “Dopo una breve permanenza nelle carceri di Via Piangipane, nel Novembre successivo furono avviati al campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi, e di qui, in seguito, in Germania” (epilogo de Il giardino dei Finzi Contini). L’attenzione dello scrittore ferrarese è posta in particolare sul fallimento della borghesia italiana, soprattutto della borghesia ebrea in una città di provincia come Ferrara. Noi tedeschi siamo stati e rimaniamo colpiti dal modo con cui Bassani evidenzia criticamente le molte contraddizioni interne della borghesia ebrea.

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Fotogramma Il giardino dei Finzi Contini

Nella Germania del dopoguerra dominavano due posizioni nei confronti degli ebrei, presenti in tutti i dibattiti politici: c’era ancora un latente ma talvolta chiaro antisemitismo, e si affermava un’immagine manichea del mondo. C’erano i nazisti e i loro simpatizzanti da una parte, gli antifascisti democratici, gli ebrei ed altri gruppi discriminati durante il periodo nazista, dall’altra. Tertium non datur. Era impensabile in Germania l’esistenza di cittadini ebrei che simpatizzassero con i fascisti, come invece avvenne a Ferrara fino alla promulgazione delle leggi razziali. Dalla lettura dei romanzi di Bassani, infatti, emerge un certo fascino esercitato dal fascismo sulla borghesia cittadina ed anche su quella ebrea. Forse per questo i romanzi di Bassani hanno avuto una sorprendente risonanza presso il pubblico tedesco: il suo antifascismo era più sottile e nascosto rispetto a quello di molti scrittori tedeschi dell’esilio.
A differenza di quanto successe soprattutto nella Repubblica Democratica Tedesca, dove l’antifascismo era rappresentato esclusivamente come qualcosa di eroico, Bassani non creò eroi. Ci si può facilmente identificare con i personaggi di Bassani e con i loro sentimenti (in particolare con la figura di Micol protagonista femminile de Il giardino dei Finzi Contini). L’ambiente borghese del Romanzo di Ferrara era, in ogni caso, molto più vicino alla sensibilità del lettore tedesco di quanto non fosse l’ambiente proletario descritto dagli scrittori della tradizione comunista. Per esempio, ci si sentiva vicini alla sensibilità del Dottor Fadigati, perché quell’atmosfera piccolo borghese si respirava anche nelle città tedesche.

Fra gli autori tedeschi degli anni sessanta, Alfred Andersch è stato colui che più di ogni altro ha avuto il grande merito di aver fatto conoscere l’opera di Giorgio Bassani in Germania. I suoi romanzi, infatti, hanno molte affinità con quelli di Bassani. Anche Andersch evidenzia il ruolo della borghesia nel movimento nazionalsocialista. Paradigmatica per esempio la domanda di Andersch nel racconto Il padre di un assassino incentrato sulla figura del filologo classico professore Rex: “E’ possibile che l’umanesimo non ci protegga?” Ricordiamo che la figura del filologo è ispirata al padre di Heinrich Himmler, l’assassino nazista. Si devono ad Andersch i primi apprezzamenti per l’opera di Giorgio Bassani nell’ambiente letterario di lingua tedesca, sua è infatti la laudatio in occasione del conferimento allo scrittore ferrarese del premio Nelly Sachs nel 1968. E il suo saggio Sulle tracce dei Finzi Contini è tra i più bei testi dedicati allo scrittore ferrarese e a Ferrara.

Quando si parla del rapporto tra Giorgio Bassani e la Germania, non si può non ricordare la sua ammirazione per Thomas Mann. La personalità e l’opera di Mann erano tenute anche in grande considerazione dalla famiglia Croce, legata da rapporti di grande amicizia a Bassani. Lo scambio epistolare tra Benedetto Croce e Thomas Mann degli anni ’30, mostra quanto questi grandi intellettuali europei si apprezzassero. Civiltà e cultura (parole mai tradotte in tedesco da Mann) erano i valori centrali di quella corrispondenza, importanti leitmotiv anche nell’opera di Bassani. Ma entrambi, sia Giorgio Bassani sia Thomas Mann, non sono più figure di riferimento nella cultura tedesca di oggi, sono poco presenti nella cultura delle giovani generazioni e vengono considerati scrittori di un’altra epoca. E questo è un grande peccato, ma è la realtà.

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Master-tutto e il rischio dell’omologazione

Cuochi, cantanti, manager, scrittori: la formula del master televisivo ha ormai un approdo per qualsiasi talento o aspirazione. Mancano ancora i giornalisti ma, vedrete, sarà solo questione di tempo.
Il format talvolta è superficialmente divertente e apprezzabile. Ma cosa premia? La conformità, non certo l’originalità. Le varie giurie di norma scelgono e selezionano non l’inventiva e la creatività, ma l’aderenza a un modello standardizzato o a una tendenza in voga. Non siete d’accordo? Provate a domandarvi se voci ‘stonate’ come un Vasco Rossi o un Paolo Conte avrebbero mai potuto dimostrare il loro X factor. Io ne dubito seriamente.
Si obietterà: la realtà (per fortuna!) non si risolve all’interno di un contenitore televisivo. Però, data la pervasività del mezzo e la sua sempre più marcata disposizione a imporsi come agenzia formativa accanto a famiglia e scuola – con forza e mezzi persuasivi spesso superiori a quelli che sono in grado di dispiegare genitori e insegnanti – viene da chiedersi quale messaggio veicolino tali programmi così in auge. Il rischio è che consegnino ai nostri figli la convinzione che si vince solo stando nel coro. Che non è in assoluto nemmeno un’indicazione fuorviante, purtroppo. Ma è di certo un orizzonte deprimente.

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Quel Salotto letterario che attrae, nel Copparese e oltre

“Una piccola città per la cultura” è lo slogan del copparese Salotto letterario “Voci d’insieme”, un messaggio anticipatore della professoressa Zanella, notissima e bravissima insegnante, una vera istituzione del sapere, che con grande entusiasmo sollecitò ben venti docenti locali ad aderirvi nel momento del suo atto costitutivo, e così fu.

Ci si vide per la prima volta il 23 ottobre del 2007 a palazzo Zardi, per promuovere quello che si aveva in loco, in alcune note località del nostro paese ma, soprattutto, in Spagna e in Argentina.
Si partì, ovviamente da Copparo, dal gazebo del bar Jolly con la presentazione di un libro, poi in quello della Dolce vita con un giovane scrittore indigeno e, successivamente, alla vetrata Carducci dell’Albergo da Giuseppe con due pittori del posto, per chiudere il primo ciclo, al Museo della civiltà contadina alla Tratta, con una serata tra enogastronomia, musica e la lettura di alcuni stralci di un bel libro in dialetto copparese.

Piacque molto, e con la presenza iniziale di una quarantina di persone tra scrittori, pittori, musicisti, letterati e qualche pasticcino con il tè, si animò l’avvio di un clima culturale nuovo.
Poi si continuò, anche in altri luoghi, dentro all’ampio perimetro del bellissimo centro storico dove troneggia il torrione della delizia estense.
Alcuni itinerari in Copparo: al De Micheli, alla sala Braiati, al salone delle feste della Cavallerizza, al ridotto del teatro, al parco delle piscine, negli stand del Settembre copparese.
E ancora: le location scelte per cene letterarie, uno spritz appoggiati ai tavolini, con sgabello scomodo, sotto i portici di levante e ponente; poi letture dei dialetti e righe di poesie, i 150 anni dell’unità d’Italia, poi alle feste dei rioni, negli angoli del ciottolato di via XX settembre, a raccontare storie degli estensi e dei legati pontifici, aneddoti e tradizioni del ‘900.

Il cuore di tutte queste bellissime iniziative per la cultura fu, con “lo scialle dei ricordi”, un pubblico interessato tra i tanti tavolini a tre piedi nel salone delle feste del Parco verde, un po’ di musica, storie e racconti, riconoscenze, letture e band giovanili, qualche assaggio di pasticcini per completare il tutto.
Ora ci si concentra sulle quattro domeniche pomeriggio al salone del Palazzo Zardi, a fine inverno, a inizio autunno, con un ritorno che sta trovando moltissimi riscontri di pubblico, anche nel territorio più vasto, quello delle Terre “alte” di mezzo che occupa ben sei comuni e ventisei piazze del copparese.

Un Salotto che sta gestendo al meglio i quattro premi Braiati di arti figurative e il nuovo premio Cavalazzi sui libri gialli, e che coinvolge alunni e studenti delle scuole elementari e medie di Copparo e, soprattutto, le scuole superiori della provincia, nel partecipare ai bandi di concorso.
Premi che impongono un iter complesso e ben dettagliato: gli elaborati, oltre i 200, una commissione esaminatrice di valore, una premiazione al Teatro comunale con il pienone fino alla seconda galleria. Quest’ultimo rappresenta la punta più alta dell’attività culturale del Salotto copparese.

All’inizio, sul Salotto ci fu qualche mugugno e indifferenza, poi la prima attenzione della biblioteca, poi della provincia, del teatro, e anche richieste di uscite ad Ambrogio, a Tresigallo… e ora l’invito, a breve, alla Biblioteca Ariostea di Ferrara.

Che dire, dopo oltre 8.000 presenze, se non grazie alle amiche del Salotto!

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A Ferrara si rinnova la passione per Camille Claudel

Pare essere il suo destino: rimasta nell’ombra tutta la vita, lei ogni tanto rivive. E’ successo nel lontano 1989, quando la prof.ssa Carla Collina portò con grande partecipazione ed entusiasmo gli studenti di Francese del Liceo Ariosto a vedere il film in lingua Camille Claudel, interpretato da un’intensa Isabelle Adjani. E’ successo nel 2003 con le poesie di Monica Pavani Luce ritirata, che le hanno valso il Premio Senigallia. E succede ora: un gruppo di danzatrici dirette da Caterina Tavolini sta mettendo in scena una coreografia ispirata alle sculture di Camille Claudel e a poesie di Monica Pavani, che andrà in scena il 10 maggio alla Teatro Cortazar di Pontelagoscuro. Non si tratta di un semplice tributo all’artista, tutt’altro; l’intento che di tanto in tanto si rinnova nelle donne ferraresi è di farla rivivere, fornendole le parole che lei non possedeva “Il linguaggio non mi ama, solo il marmo in me aveva fissa dimora”, e i movimenti che traggono vita dalle sue sculture.

Abbiamo incontrato queste tre donne in un momento corale, e ricavato una ricca “intervista-suggestione”, per capire cosa le ha affascinate dell’artista, e per condividere le passioni e le ragioni che ci fanno ancora parlare di Camille Claudel.

“E’ stato alla mostra di Reggio Emilia del 2003 a Palazzo Magnani – racconta Monica Pavani – che ho scritto la prima poesia della raccolta. Prima di allora avevo visto solo qualche fotografia delle sculture, ma non sapevo nulla della sua storia. Sono arrivata alla mostra un po’ per caso, l’ultimo giorno, non c’era quasi nessuno. Si poteva girare attorno alle statue, quelle di Camille e quelle di Rodin; ho visto Sakountala nella versione dell’una e dell’altro, il meraviglioso La Valse dalla quale non riuscivo a staccare gli occhi, e lì ero già rapita dalla materia e dal genio dei due, ma poi, davanti ad un piccolo busto in marmo bianco di una bambina (La petite châteleine) con due grandi occhi sgranati, con uno sguardo che ti guarda dentro e carico di tutti i segreti dell’umanità, sono scoppiata in lacrime. In balia di tutto questo, cominciando a percepire che lì si stava parlando di una sapienza dolente e acuta, mi sono diretta nella saletta in cui veniva proiettato il video sulla vita di Camille Claudel, realizzato in occasione della mostra, e guardandolo mi si è spaccato qualcosa dentro. Ho provato una sensazione di grande estraneità: non poteva essere che la donna di cui stavo scoprendo un destino profondamente ingiusto – tanto da venir rinchiusa per trent’anni in un ospedale psichiatrico – fosse la stessa che doveva aver vissuto momenti di passione così autentici e profondi, tanto da segnarne il corpo e l’anima e che, attraversandoli, aveva saputo trasfonderli nelle sue opere con una chiarezza e una limpidità disarmanti. Poi sono andata a riguardarmi tutte le sculture e lì mi è venuta di getto la prima poesia della raccolta, che è tale e quale come è stata pubblicata: le parole continuavano a rigirarrmi nella testa, me le ripetevo in continuazione, non potevo farne a meno… sono arrivata in stazione, ho preso un foglietto di carta e le ho scritte:

“Noi siamo degli altri
che siamo noi
e restano
di pietra.”

M. Pavani, Luce ritirata, Ed. La Fenice, Premio Senigallia, 2005

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Camille Claudel (1864-1943) nel 1884

Quello che sentivo sulla pelle era lo scarto, la differenza, l’estraneità tra l’artista e la sua vita: Camille aveva toccato la propria anima, l’aveva vista bene, conosciuta e anche scolpita nel dettaglio, ma poi la vita non aveva preso quella forma. C’è uno scarto enorme tra l’anima e la vita dell’artista, le due cose non coincidono affatto, se non durante il periodo in cui lei e Rodin si amavano e lavoravano insieme, con passione e complicità, nei momenti in cui la mano di Camille si confondeva con quella di Rodin, e insieme davano vita ad opere meravigliose.
Nei quattro o cinque giorni successivi alla mostra, mi sono venuti fuori altri pezzi di versi, frasi, parole, non capivo come arrivassi a pensarli, sembrava che fossero di qualcun altro. Solo in un secondo momento ho cominciato a documentarmi, sono andata a Parigi, ho letto i libri sulla vita e sulle opere, e completato la mia raccolta dandole la forma del diario spezzato, per frammenti, con grandi pause fra un’ ‘annotazione’ e l’altra.»

La mostra di Reggio Emilia del 2003 di cui parla Monica Pavani è la prima retrospettiva allestita in Italia, dopo la riscoperta dell’artista. Venne realizzata grazie alla collaborazione di Reine-Marie Paris, pronipote di Camille, che fin dalla giovinezza si è impegnata a collezionare e studiare le sue opere, oltre a ricostruirne la biografia. Dopo la laurea Reine-Marie Paris si è unita alle ricerche pionieristiche su Camille Claudel di un suo professore di storia, Jacques Cassar, e le ha dedicato la tesi di specializzazione in Storia dell’arte. Instancabile, grazie alle sue conferenze, alla partecipazione a decine di mostre tenute in tutto il mondo, e grazie ai consigli che ha dato come direttore artistico al regista Bruno Nuytten di Camille Claudel, Reine-Marie Paris ha contribuito enormemente a fornire una conoscenza precisa e ben documentata dell’artista e a farne comprendere e apprezzare il suo genio. Ancora oggi la sua collezione è la più ricca e completa.

A partire dagli anni ’80, dopo appunto le prime ricerche su di lei e soprattutto con il romanzo di Anne Delbée, a Camille sono stati dedicati lavori teatrali, coreografie e opere cinematografiche, il film di Bruno Nuytten con Isabelle Adjani che ne crea il mito. Il film racconta la passione divorante, feconda poi distruttiva, di Camille Claudel per la scultura e per Auguste Rodin.

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Locandina del film Camille Claudel di Bruno Nuytten del 1988

Nella «fiche technique» del film, preparata dalla Prof.ssa Collina per gli studenti di Francese e conservata al «Centro documentazione donna » di Ferrara, c’è un articolo apparso su “Le Français dans le Monde” del critico francese Michel Estève, che scrive: “Per lungo tempo Camille Claudel è rimasta nell’ombra. All’ombra di Rodin, di cui fu allieva, poi amante. All’ombra di suo fratello Paul, di cui la personalità e l’opera ne hanno occultato il genio. Oggi, i riflettori sono puntati su di lei. Evento cinematografico di quest’inverno, Camille Claudel, opera comune di Bruno Nuytten, noto direttore della fotografia, e Isabelle Adjani, tirano fuori dall’ombra colei di cui Paul Claudel disse: “C’est un mystère en pleine lumiere”.
Interessante anche ciò che scrive dell’attrice: “Isabelle Adjani si è appassionata a Camille Claudel, precorritrice della donna moderna, scultrice di fine ‘800 sconosciuta, sprofondata nella follia dopo la rottura con Rodin. Questo film non sarebbe potuto uscire senza Isabelle Adjani: lei è stata l’anima dell’impresa, acquisendo, per l’adattamento cinematografico, i diritti del libro scritto da Reine-Marie Paris, convincendo la famiglia Claudel a permettere la realizzazione del film (prima ci avevano provato, ma senza riuscirci, Claude Chabrol e Isabelle Huppert) e Gérard Depardieu a interpretare Rodin. Al fine di far nascere il film, l’attrice ne è diventata anche produttrice.”

Carla Collina però conobbe Camille Claudel molto prima di tutto questo: “Io ero studentessa negli anni ‘70 a Parigi – racconta – dove stavo preparando la mia tesi con Roland Barthes. Un giorno andai al Museo Rodin e rimasi molto colpita da quelle sculture che, allora, erano tenute in disparte in una piccola saletta al piano terra. Dopo la visita rimasi lungo a riflettere, passeggiando nel parco del palazzo, e da lì cominciò la mia ricerca attorno a quella figura femminile di fine ‘800.

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La Valse, 1893

“Anch’io – racconta Caterina Tavolini – l’ho scoperta al Museo Rodin, nei primi anni ‘80. Ma la passione è nata con il film. Per la coreografia che sto creando, mi sono ispirata a tre donne artiste, Camille Claudel, Frida Khalo e Pina Bausch perché c’è una cosa in comune tra queste donne: tutte e tre hanno avuto il coraggio di scolpire l’animo umano, ognuna a suo modo e con la propria arte; nelle loro opere fanno emergere le parti belle e quelle brutte dell’umanità, la bellezza ma anche la crudezza, gli aspetti di cui di solito non si vuole parlare. E le sculture di Camille, in particolare, rappresentano la danza dei sentimenti colti all’apice della loro espressione.”
“In più, Camille – aggiunge Monica – è stata la principale fonte d’ispirazione per Rodin: le figure e i volti che Rodin ha scolpito ispirandosi a Camille sono i più belli in assoluto; alcune opere che lui ha realizzato quando era già famoso, come Il Bacio, segnano ormai una fase puramente estetica del suo lavoro.”

Camille aveva un certo carattere. Donna forte e coraggiosa, scolpiva giorno e notte senza sosta, ha dato tutto per la scultura e per Rodin, con un’intensità e un’autenticità senza pari, tanto da finire un certo punto per ammalarsi: “dopo la rottura con Rodin delirava e aveva manie di persecuzione sempre più frequenti” dice Monica. Rodin scrisse di lei: “Ha una natura profondamente personale, che attira per la grazia ma respinge per il temperamento selvaggio.”
Carla Collina introduce alcuni elementi necessari per contestualizzare la storia di Camille Claudel, e dice: “Per capire le cause della sua psicosi però, bisogna considerare anche che, dopo la rottura con Rodin, ha lottato tantissimo, per anni, per affermarsi sul piano professionale, in un periodo in cui la scultura era ancora appannaggio maschile, e per delle difficoltà economiche e cita: «la mancanza di denaro era una preoccupazione costante per lei, perché scolpire è dispendioso e tutte le sue risorse andavano per pagare i modelli, i praticanti, il marmo, l’onice, per la colatura in bronzo, spendeva tutto per le sculture, tagliava su cibo e vestiti, rinunciava alle distrazioni». Ad un certo punto ha ceduto, non ce l’ha più fatta e si è ammalata.”

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L’age mur, 1899

Effettivamente la vita e l’opera di Camille Claudel si fondono totalmente: “In Camille Claudel le vicende dell’esistenza personale e gli esiti dell’opera si sono inestricabilmente mescolati e fusi. Molte delle sue sculture sono il diario, il grido disperato di un’anima che passa dalla felicità di un tormentato rapporto d’amore, quello che la legò, per alcuni anni, a Rodin, al rancore e alla rêverie di ciò che non è stato e mai potrà essere. […] Sakountala, La Valse, Clotho, L’Age mûr, L’implorante, Perée et la Gorgone, Profonde pensée, Rêve au coin du feu, Vertumne et Pomone sono l’esaltazione amorosa, l’illusione della felicità e delle promesse di fedeltà, dell’abbandono, del risentimento, della solitudine estrema, dell’amara consapevolezza di una ferita che mai potrà rimarginarsi. A lei fu data la dolorosa capacità di “dare forma alle proprie visioni interiori, di strappare all’ignoto che ci abita – “il salvame” del “nostro intimo” di cui parla Rilke nelle Elegie duinesi – brandelli di verità, di vedere più nitidamente ciò che altri potevano solo superficialmente intuire. Perché sono, le sue opere, sofferenza pagata.” (Introduzione di Sandro Parmiggiani a, A. Normand Romain, Camille Claudel e Rodin. Le temps remettra tout en place, Édition du Musée Rodin, Paris, 2003 – Catalogo della mostra a Palazzo Magnani, Reggio Emilia, 14 giugno – 31 agosto 2003).

Comunque sia, già ai suoi tempi era chiaro che Camille Claudel fosse ritenuta una scultrice di straordinario talento, perizia tecnica, sensibilità e intuizione, e che seppe dare un contributo di rinnovamento in una disciplina, la scultura, che soprattutto a quei tempi era appannaggio maschile. Il critico d’arte Octave Mirabeau scrisse di lei “è una rivolta della natura, una donna di genio”.

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M. Pavani, C. Tavolini e C. Collina, brindisi a Camille Claudel

Ma il fermento attorno a questa figura non sembra ancora arrestarsi: è appena uscito il secondo film a lei dedicato Camille Claudel 1915 di Bruno Dumont, con una splendida Juliette Binoche; nella primavera del 2015 aprirà il Museo Camille Claudel nella casa di Nogent-sur-Seine che la famiglia Claudel abitò dal 1876 al 1879. Per quanto riguarda Ferrara, Carla Collina, Monica Pavani e Caterina Tavolini non escludono di costituire in futuro un’associazione dedicata a Camille Claudel.

 

Biografia di Camille Claudel [vedi]
Bibliografia su Camille Claudel [vedi]

 

Carla Collina è stata docente di Francese presso il Liceo L. Ariosto di Ferrara dal 1979 al 2010; per vent’anni docente-formatrice di didattica delle lingue straniere PSLS in provincia di Ferrara e in regione, è stata tra le promotrici dell’introduzione dello studio di una lingua straniera alle elementari. Ha pubblicato libri per la scuola superiore tra cui “Il nuovo esame di stato di francese” con la Loescher, e articoli di didattica francese in varie riviste del settore, italiane ed estere, tra cui “Le français dans le monde” e “Reflet”. Come giornalista pubblicista, ha collaborato assiduamente alla rivista “Leggere donna” di Luciana Tufani Editrice.

Monica Pavani è docente di Inglese presso il Liceo sociale Carducci di Ferrara, docente di Lingua e letteratura italiana di livello avanzato presso Middlebury college school in Italia, traduttrice letteraria presso varie case editrici (Adelphi, Mobydick, Il Saggiatore, Rizzoli, Fazi, ecc.) e giornalista pubblicista.

Caterina Tavolini, coreografa, danzatrice e insegnante di Danza contemporanea creativa presso il New sesto senso a Ferrara, docente di Educazione fisica nella provincia di Rovigo.

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l’aforisma
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“La saggezza è il riassunto del passato, ma la bellezza è la promessa del futuro” (Oliver Wendell Holmes)

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la foto
di oggi

Il palazzo comunale di Ferrara
(foto ferraraitalia)

 

 

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Il palazzo comunale di Ferrara

A volte per comprendere le cose è necessario mutare punto di vista. Questa foto ne è un esempio: rivela un profilo inedito del palazzo municipale e ci fa scoprire un orizzonte nuovo

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