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Giorno: 22 Marzo 2014

Matteo Pazzi è il neo candidato sindaco di “VoghierAperta”

da: Matteo Pazzi candidato sindaco alle elezioni amministrative per il Comune di Voghiera

E’ Matteo Pazzi, 36 anni, il candidato sindaco del gruppo ‘VoghierAperta’ che il prossimo 25 maggio 2014 correrà per essere eletto nuovo Sindaco di Voghiera.

“Dopo aver ascoltato l’opinione dei miei concittadini”, scrive Pazzi in una nota, “ho deciso di candidarmi alla carica di Sindaco. Il progetto che un gruppo di voghieresi sta cercando di portare avanti fra diverse difficoltà ha una connotazione “civica”. Nonostante il rispetto provato per l’amministrazione uscente”, continua Pazzi, “crediamo che dopo 20 anni di governo ininterrotto da parte di ‘Progetto Comune’ sia giunto il momento di cambiare”.

Per il neo candidato sindaco di ‘VoghierAperta’ “quando per molti anni il governo di un territorio è gestito sempre dalle stesse persone il rischio che si inneschino dei meccanismi di burocratizzazione del sistema politico è alto”.

La lista si connota come la semplice e immediata espressione di tutti quei voghieresi che desiderano cambiare ed innovare. “Persone nuove”, sottolinea il candidato, con idee realistiche ed innovative”.

Un esempio di idee programmatiche lo riporta direttamente Matteo Pazzi: “I punti del programma sui quali stiamo ragionando sono i seguenti: 1) sicurezza; 2) tassazione; 3) salute; 4) marketing territoriale e beni culturali fra i quali l’aglio di Voghiera; 5) sviluppo urbanistico e conservazione del territorio; 6) sostegno all’imprenditorialità. Abbiamo deciso di metterci in gioco”, conclude, “la nostra speranza è ricevere l’appoggio di tutti coloro che non si riconoscono più in Progetto Comune”.

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Papa Francesco e don Luigi Ciotti a mani unite contro la mafia

 

 

 

 

Papa Francesco assieme a Don Luigi Ciotti
Papa Francesco assieme a Don Luigi Ciotti

La foto più importante del rinnovamento morale: Papa Francesco e Don Ciotti entrano in chiesa a ricevere i parenti delle vittime della mafia.
La simbologia delle dita intrecciate parla più di tante inutili parole. Da laico ne sono ammirato e commosso.
(Gianni Venturi)

 

 

(clicca sull’immagine per ingrandirla)

Il Comune di Comacchio ricorda il prof. Ezio Raimondi

da: ufficio stampa Comune di Comacchio

Un ricordo di Ezio Raimondi attraverso le sue parole dedicate alla Casa Museo Remo Brindisi nel 2005, in qualità di Presidente dell’IBC, ma anche di grande scrittore. Si riportano alcuni brani di questo testo, poi pubblicato su repertorio della Casa Museo edito dall’IBC, che ha dato il via ufficiale, allora, a quel “cantiere Brindisi”, tuttora in corso, fatto di ricerche, restauri, catalogazioni, riscoperte.

Remo Brindisi e la sua Casa-Museo
” [un] progetto architettonico, con il senso concreto di un luogo, in un paesaggio amato di luce e di aria. Il suo doveva infatti essere un museo vivente, dove l’immaginazione si fonde con il quotidiano e il sogno con il reale e in cui si iscrive una storia, un’esperienza individuale in dialogo con le forme e con le interne pulsioni dell’esistenza. […]
Anche se non rinuncia alla propria presenza di pittore, con il grande ciclo sulla resistenza e sulla fine del fascismo, Brindisi fa parlare soprattutto la passione e la tenacia del collezionista, che vuole dare testimonianza delle tendenze e dei movimenti più rappresentativi del suo tempo e non si stanca di cercare e indagare, come in un libro a struttura aperta che chiede continui ritocchi. Ne nasce così un’interpretazione del Novecento figurativo nell’ottica di un protagonista, cominciando dai “maestri storici” e passando ai “compagni di strada” e alla “generazione di mezzo” sino ai più giovani, a cui appartiene anche il futuro […]
Conviene fermarsi sull’esperienza percettiva e conoscitiva di chi si accosta ora all’universo di immagini, ricomposto dall’intelligenza generosa di Remo Brindisi, tra pagina e spazio, mappa e realtà. Non vi è dubbio infatti che in questo luogo tutto rimanda all’occhio sapiente del suo ideatore, all’emozione che si irradia dal suo illuminarsi e diventa calore di vita, placido legame d’affetto. Perciò ogni nuovo sguardo assorbe quella diffusa visione originaria, la riprende e in fondo la fa propria, come se il vecchio pittore fosse ancora presente e invitasse a guardare, a riconoscere pazientemente l’avventuroso linguaggio del colore, a vivere per un poco con le sue cose e le sue creature. Forse era proprio quello che voleva Remo Brindisi con il suo dono: non un monumento, ma una ospitale casa dell’arte e della vita, in cui gli uomini possono ancora incontrarsi nel tramando di un bene comune e dove la memoria, legando insieme il visibile e l’invisibile, è soprattutto un atto di gratitudine e di amore. […]”.

Ezio Raimondi, 2005

Lunedì 24, per Happy Go Lucky Local, al Torrione il jazz cosmopolita del Tom Kirkpatrick Trio

da: ufficio stampa Jazz Club Ferrara

Lunedì 24 marzo (ore 21.30), per un nuovo appuntamento firmato Happy Go Lucky Local, a calcare il palcoscenico del Jazz Club Ferrara è il trio di un amico di lunga data del Torrione, il trombettista Tom Kirkpatrick. Completano la formazione Nico Menci al pianoforte e Mirko Scarcia al contrabbasso.
È un jazz cosmopolita quello che scorre nelle vene di Kirkpatrick. Nato in Ohio nel 1954 Tom assorbe la passione per il jazz dai genitori musicisti. Dal pianoforte passa successivamente alla tromba compiendo gli studi presso la Julliard School of Music.
Il primo giro di boa risale alla fine degli anni ’70, quanto il giovane trombettista, incoraggiato da Chet Baker, si trasferisce nella Grande Mela per tentare la fortuna. Il talento, unito a perizia tecnica e bellezza del suono, non passa inosservato tanto da innescare una reazione a catena tale per cui prestigiose collaborazioni si susseguono vorticosamente a fianco di Max Roach, Lou Donaldson, Harold Mabern, George Coleman, Clifford Jordan, Billie Higgins e molti altri.
Dopo aver esplorato in tour Stati Uniti, Europa e Giappone, Kirkpatrick trascorre un paio d’anni tra Danimarca e Olanda per poi eleggere l’Italia suo paese d’adozione. Oggi Tom oltre a svolgere un’intensa attività musicale è anche apprezzato docente. Vive tra Ferrara e Bologna e all’epoca del trasferimento in terra emiliano-romagnola ha contribuito fortemente alla crescita del Jazz Club Ferrara.
Ad impreziosire l’appuntamento di lunedì 24 marzo è il ricco aperitivo a buffet (a partire dalle ore 20.00) accompagnato dalla selezione Nu Jazz di Andreino Dj. Scoppiettanti jam session seguiranno, come di consueto, il concerto. Il tutto a ingresso a offerta libera per i soci Endas.

Lunedì 24 marzo – Jazz Club Ferrara, Torrione San Giovanni – Ore 21.30
Happy Go Lucky Local
Tom Kirkpatrick Trio + Jam session
Tom Kirkpatrick, tromba;
Nico Menci, pianoforte;
Mirko Scarcia, contrabbasso

DOVE
Tutti i concerti si svolgono presso il Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Se si riscontrano difficoltà con dispositivi GPS impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

INFORMAZIONI
Infoline: 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena: 333 5077059 (dalle 15:30)
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com

Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso a offerta libera è riservato ai soci.

COSTI E ORARI
Ingresso a offerta libera riservato ai soci Endas.
Tessera Endas € 15

Non si accettano pagamenti POS

Apertura biglietteria: 19.30
Aperitivo a buffet con dj set a cura di Andreino Dj a partire dalle ore 20.00
Concerto: 21.30
Jam Session: 23.00

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L’altra faccia di Birmingham: tra crochi, papaveri di carta, arte e studenti soddisfatti

Da BIRMINGHAM – Improvvisamente uscita dall’uniformante grigiore invernale, la città si è risvegliata con una leggera brezza primaverile. Anche la stazione dei treni è meno cupa, nonostante rimanga avvolta in pareti e soffitti color pece. Prendendo il treno verso sud-ovest, ci si avvicina alla University of Birmingham, individuabile in mezzo alle verdi colline grazie all’Old Joe Clock Tower, che si staglia per 100 metri nel cielo limpido.

Questa torre, difatti, è il simbolo per eccellenza dell’Università: ispirata alla Torre del Mangia di Siena, leggenda vuole che lo stesso Tolkien fosse rimasto talmente colpito dalla sua imponenza da prenderne spunto per creare Orthanc, la celebre torre oscura di Isengard del Signore degli Anelli. Posto nel cuore del campus, l’Old Joe scandisce i ritmi di studenti e professori nella loro frenetica routine accademica grazie ai suoi possenti rintocchi.

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L’altra faccio di Birmingham: tra crochi, papaveri di carta, arte e studenti soddisfatti

Questa settimana, però, è stata diversa: i prati tra i sentieri dei vari edifici sono stati colonizzati da fiori tipici inglesi, i crochi, nelle vivide tonalità del viola e del giallo, sommersi a loro volta da papaveri di cartone, striscioni e palloncini. Uno sguardo poco attento avrebbe scambiato lo scenario per il prato di un asilo, quando, in realtà, dietro a questo apparente parco del divertimento, si cela una vera e propria campagna elettorale, combattuta a colpi di caramelle e pancake gratuiti, distribuiti per convincere lo svogliato studente medio a votare per i rappresentanti degli studenti del prossimo anno. Cinque giorni per vincere, ma soprattutto per sensibilizzare i giovani, perché l’anno scorso solo il 25% di loro ha espresso le proprie preferenze. In un certo senso, ciò è confortante: non è arduo, quindi, solo per gran parte degli universitari ferraresi curarsi di chi li rappresenta. È risaputo, infatti che, purtroppo, in alcuni dipartimenti, la giornata di elezioni si basa sul nobile metodo dei candidati, di fermare noncuranti studenti nei corridoi ed accompagnarli al seggio… machiavellici a tal punto, per cui il fine giustifica i mezzi, anche in questo caso?
In attesa di scoprire se queste elezioni inglesi hanno portato significativi miglioramenti nelle performance, Giulia, studentessa italiana in Erasmus, trae le proprie conclusioni di mid-term: «le ore di lezione frontale sono meno che in Italia e ciò è dovuto al diverso metodo di studio, perché qui gli insegnanti assegnano tante letture da svolgere a casa. Inoltre, il voto finale è comprensivo non solo dell’esame, ma anche di saggi che scriviamo durante il semestre: ciò richiede più impegno durante il periodo di lezione. La vita sociale ne risente un po’, ma il quartiere di Selly Oak adiacente all’università è abitato quasi esclusivamente da studenti, la maggior parte dei quali sono internazionali e la sera i pub sono sempre pieni. L’università offre tantissimi servizi, le infrastrutture sono ottime e il collegamento con il mondo del lavoro è molto stretto: queste sono le cose che preferisco. Anche gli spazi di ritrovo e le aree dedicate allo sport all’interno del campus sono una caratteristica molto apprezzata, aiutano a sviluppare i propri interessi e a socializzare». Tra gli studenti partiti per l’Erasmus oltremanica c’è anche un ragazzo ferrarese, Umberto, che non vedeva l’ora di tornare a Birmingham dopo le vacanze natalizie: «Sono molto soddisfatto della mia esperienza finora, sebbene ambientarsi sia stato un po’ difficoltoso, anche per la lingua. Ora percepisco, però, di essere migliorato e trovo anche più facile seguire le lezioni. I professori si aspettano che ci creiamo una nostra idea degli argomenti trattati e che argomentiamo a nostra volta; con i saggi, non solo ho preso più confidenza con l’inglese, ma ho imparato pure a ragionare meglio. Mi piace particolarmente la cultura dello sport che è parte integrante della vita universitaria: gli studenti sfoggiano quotidianamente la divisa di appartenenza; da amante dello sport, è una cosa che mi piacerebbe ci fosse anche in Italia. Nonostante mi trovi molto bene e il cibo italiano sia un vero e proprio culto, non sono ancora riuscito a mangiare una buona pizza». Neanche gli inglesi sono infallibili.

Faraday di Eppure, l’Italia non rappresenta un modello solo per il cibo, ma anche per la cultura: nel Barber Institute of Fine Arts, galleria d’arte e sala concerti del campus, i nomi italiani appesi sono innumerevoli, da Canaletto a Botticelli, passando per altri pittori, in particolare del Rinascimento. L’arte italiana è forse la più presente. Di origini italiane anche Eduardo Paolozzi, artista scozzese precursore della Pop Art, che per il centenario dell’Università nel 2000 ha donato una sua maestosa scultura di 5 metri, Faraday, in omaggio allo stesso scienziato. Un’iscrizione del poeta T. S. Eliot accompagna l’opera alla sua base e riassume i motivi che dovrebbero spingere gli studenti ad andare all’università: “Per viaggiare, ascoltare, pensare e cambiare”. Un augurio sensibile, per ricordarci ciò che troppo spesso dimentichiamo, oppressi dai rintocchi, dalle scadenze e dalle inezie abitudinarie.

Inaugurata a Palazzo Bellini la mostra “Frammenti di realtà” di Lello Cestari e Guglielmo Darbo

da: ufficio stampa Comune di Comacchio

Inaugurando a Palazzo Bellini la mostra “Frammenti di realtà” di Lello Cestari e Guglielmo Darbo, questa mattina il Sindaco Marco Fabbri, dopo aver ringraziato “gli artisti e l’Ascom, che ha creduto nel percorso con cui si apre una primavera non stop di iniziative per tutti”, ha congiuntamente elogiato i tanti volontari comacchiesi, impegnati come ciceroni, nelle giornate del FAI di Primavera. L’Assessore alla Cultura Alice Carli ha esteso i ringraziamenti a Massimo Cestari per aver condiviso con l’Amministrazione Comunale gli intensi lavori preparatori di allestimento della mostra, visitabile con ingresso gratuito sino al 27 aprile prossimo. “Sono felicissima di ospitare Lello e Guglielmo, due artisti del territorio del delta, – ha commentato l’assessore Carli – e auspico che il percorso intrapreso possa durare e consolidarsi nel tempo.” Presenti all’inaugurazione anche il Vice Sindaco Denis Fantinuoli, l’Assessore al turismo Sergio Provasi, l’Assessore provinciale Davide Bellotti, il Comandante della Compagnia Carabinieri di Comacchio Luca Nozza, il Comandante del N.O.R.M. di Comacchio, Tenente Andrea Coppi, il funzionario ed il presidente dell’Ascom Dario Rondina e Gianfranco Vitali, oltre ad un pubblico numeroso. Laura Ruffoni, funzionaria del Servizio Cultura ha descritto il percorso espositivo, sottolineando che “ l’attenzione verso i particolari, i frammenti della realtà e l’atmosfera lirica sono gli aspetti che accomunano due artisti profondamente diversi tra loro.” La mostra persegue anche l’obiettivo di allacciare “un dialogo piacevolissimo ed inedito tra pittori dallo stile opposto – come ha precisato Ruffoni – l’uno, Darbo, informale, capace di creare geografie interiori e parziali della realtà rielaborata e l’altro, Lello, iper realista virtuoso, un fiammingo moderno, che attraverso la luce mette a fuoco un particolare, dando forma alla realtà circostante.” All’inaugurazione erano presenti anche gli artisti, che hanno ringraziato l’Amministrazione Comunale per gli spazi espositivi e per l’opportunità loro concessa.

Prima tappa de “Una Voce per Sanremo in tour 2014”

da: Relazioni esterne Associazione Merkaba Eventi

Vivace serata per la prima selezione ferrarese all’Antica Osteria delle Volte, del concorso nazionale “Una Voce per Sanremo in tour 2014” sezione edito coincisa con il debutto della nuova gestione di Sanja e Ivan. Il 17enne ferrarese Gregorio Pambianchi, al suo primo concorso, con la canzone: “Non ho mai smesso” di Laura Pausini ha conquistato il premio del pubblico. Il riconoscimento della giuria tecnica formata da: Nicholas Menegatti e Isabella dall’Olio (cantanti), Federico Felloni (event manager) e Sergio Finessi (musicista) è andato a Dajana Moretti 22enne di Bondeno, col brano “In equilibrio” di Ilaria Porceddu. Due ore di spettacolo che ha messo in risalto le qualità delle giovani promesse canore nostrane, tra cui si è distinta la ferrarese Daniela Pucci classificatasi al secondo posto. Ora via libera al voto online che nel corso della settimana potrebbe modificare la classifica.

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Volgari equivoci. Le rovesciate verbali di Vittorio Sgarbi

Il noto critico d’arte Vittorio Sgarbi, in qualità di candidato per i Verdi a sindaco di Urbino, qualche giorno fa ha concesso un’intervista al giornale dell’Istituto per la formazione al giornalismo “Il Ducato online”. Esprimendo il proprio pensiero a proposito della proposta di rendere il centro storico accessibile attraverso l’uso di scale mobili e di ascensori gratuiti, il nostro ha dichiarato: “Mi fa schifo solo la parola. Una città civile non ha né ascensori né scale mobili. Solo quelle abitate da nani, zoppi e handicappati hanno le scale mobili. Se le devono mettere nel culo”.
Ora, non intendo entrare qui nel merito del tema “accessibilità”, ma soltanto fermarmi al giudizio su alcune espressioni usate nell’intervista, perché non penso che le parole volino, anzi, al contrario, credo che esse aprano delle strade, disegnino orizzonti, traccino futuri, abbiano una loro vita.
Da un’analisi sintetica del pensiero del critico ferrarese si può dedurre che se “nani, zoppi e handicappati” non possono vivere nella città civile ideale di Vittorio Sgarbi, dovrebbero stare in una città separata. Per questo la frase pronunciata da Sgarbi si può considerare offensiva perché il vocabolario della lingua italiana definisce l’insulto una “grave offesa ai sentimenti e alla dignità, all’onore di una persona, arrecata con parole ingiuriose, con atti di spregio volgare o anche con un contegno intenzionalmente offensivo e umiliante.” E’ inoltre una frase indiscutibilmente razzista perché il razzismo è “ideologia, teoria o prassi politica che, fondandosi sulla presunta superiorità di una razza sulle altre e sulla necessità di mantenere la purezza, favorisca o determini discriminazioni sociali”. Infine, la frase risulta essere decisamente volgare poiché sempre secondo il nostro vocabolario, volgarità è “mancanza di cultura, di educazione, di finezza e di signorilità, di elevatezza e di nobiltà spirituale. Modo di comportarsi o di esprimersi grossolano e offensivo del buon gusto e della decenza”.

Proprio ieri l’ufficio stampa del critico d’arte, in seguito alle polemiche suscitate dalla sua uscita verbale, ha diffuso una nota in cui, fra l’altro, è scritto: «Ogni mio riferimento agli “handicappati” e agli “zoppi”, ovviamente, non ha niente a che fare con la realtà fisica, e solo pensare che io volessi umiliare i disabili, mi offende. Le mie parole sono state volgarmente equivocate. E a offendere i disabili è chi li utilizza come argomento per imbastire una polemica inutile contro di me. Io alludevo all’infermità mentale di certi amministratori, mentalmente handicappati e zoppi, oltre che nani mentali, perché non hanno consapevolezza del patrimonio storico, artistico e architettonico di Urbino“.
Già! Con la più classica rovesciata, ecco che la frittata è rivoltata. Siamo noi che abbiamo volgarmente equivocato, e non lui che ha invitato qualcuno “ad infilarsi le scale mobili nel culo”. Siamo noi che abbiamo sbagliato e non chi ha invitato “nani, zoppi e handicappati” ad andarsene fuori dalle città civili o a restarsene in un angolino. Ormai viviamo in una situazione talmente paradossale, che le persone volgari riescono a dare del “volgare” a chi si indigna per la loro volgarità senza nemmeno vergognarsene. Del resto cosa potevamo aspettarci? Non è forse questo il Paese degli Equivoci e delle Smentite, dove la Volgarità diventa lo Stile dominante? Non è forse il nostro il Paese dove si offrono candidature politiche di importanza direttamente proporzionale alla volgarità del candidato? Non è forse l’Italia il Paese che offende la sua grande bellezza, accettando di farsi rappresentare da persone volgari che invece la trascurano.
Scriveva Vittorio Foa: “Il degrado del linguaggio non è un problema di parole, ma deriva da un comportamento pratico, cioè dall’esempio”. Colpisce sempre anche me constatare che non esiste l’esempio come categoria di giudizio del proprio e dell’altrui comportamento. Eppure, dovrebbe essere così emotivamente naturale e razionalmente umano trarre le proprie conseguenze dopo aver osservato, nelle persone, lo spazio che c’è tra il dire e l’essere, la distanza che esiste tra l’apparenza e l’essenza. Non mi aspetto certo che proprio chi ha messo questo Paese alla rovescia si impegni per raddrizzarlo, spero invece che tutti coloro che sentono forte l’odore pesante della volgarità, decidano di deodorarlo offrendo un esempio limpido di un bel modo di essere, di fare e di far politica.

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Spira aria da guerra fredda e torna “Il sole a mezzanotte”

Se state canticchiando Say you Say me [ascolta] e siete di buonumore, forse avete appena finito di vedere (o rivedere) lo splendido film Il sole a mezzanotte (titolo originale White Nights). Se siete rimasti impressionati dalla coreografia da sogno della prima scena del film, Le Jeune Homme et la Mort [guarda], eseguita da Michail Nikolaevič Baryšnikov, anche se non amate troppo i passi sulle punte, non potete essere rimasti indifferenti all’armonia con cui questo ballerino si regge su braccia e gambe in esercizi al limite dello sconvolgente, all’abilità indescrivibile con cui gioca con sedie e tavoli, in prove di forza e armonia uniche per l’esecuzione.

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Il sole a mezzanotte, locandina del film

Quasi sicuramente, allora, vi siete persi fra le ali di Barysnikov che, nel ruolo di Nicolai “Kolya” Rodchenko, sembra volare per davvero [vedi]. Certamente avete pure tremato un pochino con lui, quando l’aereo su cui viaggiava, in volo da Londra a Tokyo, era stato costretto ad atterrare sulla pista di un aeroporto siberiano, al suono di strappi nervosi e decisi delle pagine del suo passaporto. Perché Nikolai, ferito e ricoverato in un ospedale dell’Urss (il film è del 1985), non poteva permettersi quel lusso, lui che, divenuto americano, era scappato dal paese dieci anni prima, approfittando di una tournée in occidente del balletto Kirov, di cui era il primo ballerino, e trovando la libertà negli Stati Uniti (parte di quasi certa autobiografia). Riconosciuto dal colonnello del Kgb, il cattivo stereotipato Chaiko, l’ex-sovietico viene messo in un lussuoso appartamento, perennemente seguito da Raymond, un afroamericano che, a suo tempo, aveva fatto la scelta contraria, convinto di poter realizzare i propri ideali nel Paese che lo aveva ospitato, dove aveva anche sposato Darya, una gentile e bellissima moscovita, interpretata da una giovane Isabella Rossellini. Poiché Raymond è un asso del tip tap, i due uomini sono obbligati a convivere e ad addestrarsi duramente in una sala-prove del teatro Kirov di Leningrado (oggi teatro Mariinskij di San Pietroburgo), spiati da microfoni e fotocellule. Qui la scena della danza di un Baryšnikov quasi allo specchio è magistrale, come meravigliosa e forte è quella in cui il ballerino sfoggia tutta la sua abilità e potenza, sulle note di Fastidious Horses di Vladimir Semënovič Vysockij, davanti all’affascinante e bionda Galina Ivanova, suo grande antico amore che, nonostante il rancore per l’abbandono passato, lo aiuterà in una rocambolesca fuga verso l’ambasciata americana. Non vi sveleremo il finale di un film del più degno clima da guerra fredda, oggi di triste e inquietante attualità. Basti dire che la musica, le acrobazie, la rabbia costruttiva, la voglia di libertà, la dolcezza dell’amore, la forza che può infondere l’arrivo inaspettato di un figlio, la passione, la bellezza di strade e teatri di Leningrado, oltre che la melodia del trionfo dei buoni, meritano davvero una visione. Per potersi perdere, di nuovo, almeno un po’.

Il sole a mezzanotte – Diretto da Taylor Hackford. Interpreti: Mikhail Baryshnikov, Gregory Hines, Jerzy Skolimowski, Helen Mirren, Geraldine Page, Isabella Rossellini, John Glover, William Hootkins, Daniel Benzali, Hilary Drake, Florence Faure, Stefan Gryff, Shane Rimmer, Ian Liston, Megumi Shimanuki, David Savile, Maria Werlander, Benny Young. Usa, 1985. Drammatico, durata 135′ min.

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Vent’anni fa l’omicidio di Ilaria Alpi. La madre: “Sono rimasta sola ma combatto per lei”

di Silvia De Santis

Il 20 marzo 1994 morivano in Somalia, in circostanze ancora oscure, i due giornalisti del tg3 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Dopo vent’anni di muro di gomma, il governo toglie il segreto agli atti. La mamma di Ilaria: “La battaglia per la verità su mia figlia è la mia ragione di vita”.

Correva l’anno 1994. Correva in un’Italia sedotta e strangolata da Tangentopoli, mentre i contorni della Seconda Repubblica si profilavano nell’ombra. Correva a Mogadiscio, in Somalia, trascinata da tre anni nel caos di una guerra civile di fronte cui l’Onu alza bandiera bianca. “Restore hope”, la missione di polizia internazionale avviata nel 1992 per “ridare speranza” a questo Paese sconvolto da una “Cernobyl” politica, ha fallito e disertato il campo già da un anno. I cronisti, invece, non vanno via. Restano a documentare le stimmate del Corno D’Africa dilaniato dallo scontro tra fazioni, scivolato inesorabilmente nell’anarchia.
Ma due di loro, due giornalisti del Tg3, sbirciano dietro un sipario pericoloso. E per questo perderanno la vita: il 20 marzo di vent’anni fa Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vengono freddati da un commando somalo a Nord di Mogadiscio, in circostanze ancora poco chiare.

Un agguato o un’esecuzione? Il pendolo della giustizia finora non ha mai smesso di oscillare, anche se la decisione odierna del governo di desecretare i documenti del caso Alpi potrebbe determinare, finalmente, una svolta. Dopo vent’anni di indugi giudiziari, di silenzi colpevoli, di indagini mai effettivamente decollate, la verità latita ancora. Mancano i tasselli fondamentali di una nebulosa vicenda che incrocia signori della guerra con colletti bianchi ed imprenditori. Che lascia intravedere Italia e Somalia stretti in un abbraccio velenoso, mortifero. Triangolazioni d’armi in viaggio dall’Est europeo verso l’Italia attraverso la Somalia. Malattie strane, mai viste prima, che aggrediscono il continente nero. Scampoli di territorio che marciscono, terre di contadini e pastori consumate dal veleno. È la terra dei Fuochi africana e Ilaria l’ha intuito, ha studiato e ne ha le prove. In cambio di munizioni, la Somalia bisognosa di alleanze offre non solo denaro ai Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, ma anche la possibilità di nascondere sotto il tappeto di casa propria le scorie dei loro cortili. “Il mio regno per un Kalashnikof”. E così, a bordo di navi, giungono sulle coste africane carichi di rifiuti tossici e nocivi.

Il giorno prima di morire Ilaria era stata a Bosaso, nel nord della Somalia, a parlare con il sultano per avere conferme su quanto aveva saputo. “Devi fare delle ricerche – le aveva risposto lui, rifiutandosi di fare nomi importanti – Devi guadagnarti il pane”. E Ilaria il pane se lo guadagnava: si documentava molto prima di ogni servizio, studiava. Lo faceva sin da bambina. “Era una ragazza come tante. Le piaceva studiare, era brava a scuola, leggeva di tutto. Amava molto i libri di storia e i romanzi”. Nelle parole di sua madre Luciana, nessun lirismo altera il ricordo di Ilaria. “Ha studiato arabo all’Università e ha passato al Cairo tre anni e mezzo per imparare bene la lingua. Era molto curiosa e amava viaggiare. A un certo punto ha fatto un concorso ed è entrata in Rai”.

“Era una persona seria che faceva seriamente il suo mestiere. Era una che andava sui luoghi, incontrava la gente, conosceva le situazioni, cercava riscontri. Forse è per questo che ha perso la vita”. Francesco Cavalli, direttore del premio Ilaria Alpi istituito nel 1995, ha appena scritto un libro, “La strada di Ilaria”, in cui riporta alla luce le trame di questo caso insabbiato dalla giustizia italiana. “Là dove i fatti non sono comprovati, ma restano nondimeno ragionevolmente possibili, è lecito tendere dei fili per cercare di colmare i vuoti” scrive Pietro Veronese nella premessa al libro. E i fili di Ilaria si perdono in Somalia, perciò è lì che Francesco ha deciso di andare. “Negli anni è maturato in me il desiderio di approfondire le motivazioni che stanno dietro a questo duplice omicidio. Sono stato tre volte in Somalia proprio per cercare di indagare sulle stesse piste su cui Ilaria stava indagando”. Ilaria l’ha conosciuta solo nei ricordi e nei racconti dei genitori di lei, Giorgio e Luciana, ma questo non è un buon motivo per indulgere a glorificazioni postume: “Non credo che debba essere raccontata come un santino o un eroe. Non so dire se avesse una marcia in più o una marcia in meno. Sicuramente era una brava giornalista”.

Il giornalismo è una passione che fa capolino nella vita di Ilaria a dodici anni. “Frequentava una scuola sperimentale a tempo pieno e il pomeriggio c’erano dei corsi extrascolastici. Lei aveva scelto giornalismo e se ne andava in giro per il quartiere a fare domande – racconta Luciana -. Chiedeva alle persone che giornali leggevano e perché. Domande da bambina, insomma. Così le è rimasta questa voglia di fare la giornalista”.

Dopo Bosaso, Ilaria torna a Mogadiscio. Il contingente italiano sta facendo le valigie e i giornalisti sono già partiti, ma lei e Miran vogliono restare qualche giorno in più per vedere come evolve la situazione nel Paese subito dopo la partenza dei caschi blu. Lo comunica alla madre Luciana. Non sa che quella sarà la sua ultima telefonata. Poche ore dopo, di fronte all’hotel Amana, dall’altra parte della città, oltre i posti di blocco e la linea verde supervisionata dall’Onu, verrà uccisa brutalmente. Qualcuno le aveva passato un’informazione sbagliata: le aveva riferito che lì c’era il collega dell’Ansa ad attenderla. Ma non era vero. Luciana non ha dubbi, è stata una trappola.
A corroborare l’idea che non si tratti di un incidente, ma che dietro il duplice omicidio sia in atto un piano preordinato lo conferma una serie di misteriose sparizioni: tre taccuini, cinque cassette di materiale girato di Ilaria non saranno più ritrovati. Sparisce anche il suo certificato di morte, ritrovato, prima di perdersi un’altra volta, nel corso di una perquisizione tra le carte di un ingegnere italiano, autore di un progetto per sparare rifiuti sul fondale marino spinti da missili.

Due commissioni parlamentari di inchiesta e una governativa non riescono a dipanare la matassa. Fino ad oggi, per l’omicidio di Ilaria e Miran c’è solo un colpevole, Hashi Omar Hassan, che si è sempre professato innocente. Luciana gli crede. “Ha pagato con 26 anni di carcere perché qualcuno lo ha indicato come membro del commando che aggredì e uccise mia figlia e Miran. Circostanza che lui continua a negare con forza. Io so perché Ilaria e Miran sono stati uccisi. Dopo 20 anni di indagini inutili e faticose, di menzogne, depistaggi, sparizioni, altre morti sospette, ho bisogno solo di conoscere i nomi dei mandanti di quel duplice omicidio. Non li voglio vedere dietro le sbarre. Mi basta guardarli in faccia”. Basterebbe scalfirlo questo muro di gomma, per dare tregua a una battaglia che è diventata una ragione di vita. “Sono quasi quattro anni che mio marito non c’è più. Sento moltissimo la sua mancanza perché andavamo molto d’accordo, e poi perché in quella triste vicenda ci davamo una mano molto affettuosa, molto forte – confessa Luciana, emozionata. – Purtroppo sono sola ora, e devo andare avanti. Ogni tanto passo qualche momento di scoramento, ancora oggi. Però poi mi riprendo, e mi dico che Ilaria, in fondo, è morta. Io, invece, alla mia età sono ancora viva. Se non facessi questo non saprei che cosa farmene della mia vita, alla mia età”.

[© www.lastefani.it]

GERMOGLI
l’aforisma
di oggi…

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

“L’incertezza della conoscenza non è diversa dalla sicurezza dell’ignoranza” (Charles Bukowski)