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Giorno: 2 Novembre 2014

Un giovane favoloso e gli altri giovani

Ritornando su “Il giovane favoloso” [vedi], il bellissimo film di Martone, ho molto apprezzato il commento di Valerio Magrelli su “La Repubblica”. Lo scrittore propone un inusitato paragone tra Leopardi e l’Uomo ragno, due super eroi solitari che si realizzano nel mito e nel simbolo del sacrificio e della salvezza. Non voglio commentare questo curioso ma non poi così bizzarro paragone. Ciò che invece riempie il cuore di speranza e d’emozione sta nel fatto di constatare l’enorme successo di questa opera presso un pubblico giovanile normalmente più attratto dalle situazioni dell’horror o dei vampiri innamorati o dei lucchetti sul ponte segno d’eterno amore.

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La locandina del film

La protesta di Leopardi (e uso questa bella definizione coniata dai più innovativi studiosi del poeta, Binni e Luporini, che ancora regge dopo decenni della sua formulazione) sembra scuotere la presunta indifferenza dei giovani e avvicinarli a un personaggio-poeta direbbe il grande Contini reale e nello stesso tempo simbolico visto e commentato attraverso due arti che in sé contengono il massimo di verità: la poesia e il cinema. Credo che la qualità dell’opera di Martone consista non solo nell’interpretazione critica del poeta di Recanati ma nella sua resa simbolica e filmica. Giacomo ovvero della scoperta della necessità della vita e dell’impegno (e non mi vergogno ad usare un termine che produrrà qualche brivido d’insofferenza presso i ‘colleghi’ accademici) nella social catena umana che spazza via ogni sentimentalismo e sospiro verso il destino dell’”infelice” per eccellenza, qui visto secondo il suggerimento di Magrelli. Come il supereroe che sconfigge i mostri provocati dal sonno della ragione. Tutto questo con un uso raffinatissimo dell’immagine giocata con riferimenti straordinari alle arti visive del neoclassicismo e del primo romanticismo. Come mi attestano due cari amici tra i massimi studiosi di quel periodo storico, Fernando Mazzocca e Carlo Sisi, che hanno offerto al regista e alla moglie, storica dell’arte, indicazioni figurative straordinarie. Dal riferimento palese a ambientazioni ‘Empire’ nelle strepitose immagini della Firenze qui descritta, tra le citazioni palesi a opere di Canova e di Foscolo o di Roma vista con gli occhi dei viaggiatori del “Grand Tour” o dei pittori della scuola di Posillipo per l’eruzione dell’Etna o della Napoli infernale, dove però il punto di debolezza del film sta nell’episodio di Giacomo al bordello con quel gioco del ‘s’agapò’ assai discutibile. Ma ciò che tiene è la robustezza del linguaggio filmico, anzi come si diceva una volta dello “specifico filmico”. Un’operazione che ricorda certe scelte di Antonioni per “Deserto rosso” o per “Blow Up” con le costruzioni del paesaggio non reale ma derivato dalla sua cultura artistica. Più delle sontuose messe in scena di Visconti a cui sembra talvolta ispirarsi Martone (e penso a “Morte a Venezia”).

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Il regista, Mario Martone

Insomma sempre più innamorato di quelle scelte e di quella dichiarazione artistica del film di Martone, sottolineo di nuovo la grande importanza e la scommessa vinta non solo dal regista ma di tutta l’équipe: dal grandissimo Elio Germano (e ai ‘supercilious’ che trovano grottesco il suo cambiamento fisico dovuto al progredire della malattia consiglio una maggiore informazione specifica ‘de visu’) ai comprimari (esclusa forse la troppo popputa Silvia), che hanno provocato e che provocano tanto entusiasmo nei giovani.

E a ragione un’insegnante protesta in una lettera aperta contro la discriminazione sociologico-culturale che intenderebbe separare la visione del film, adatta ai liceali e non invece a tutti i giovani studenti, qualsiasi scuola essi frequentino.
Da parte nostra non vogliamo essere di nuovo portatori, come purtroppo i tempi della contemporaneità politica inducono a sospettare, di una nuova e ben più pericolosa distinzione mediatica tra le diverse forme d’insegnamento. Ma per fortuna i giovani questo infido suggerimento lo snobbano e lo disprezzano.

di Mario Martone, con Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Anna Mouglalis, Valerio Binasco, biografico, 137 min., Italia, 2014

Pubblico in scena e Shakespeare si recita a soggetto

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
Romeo and Juliet, Delirio organizzato. Teatro Comunale di Ferrara, 22 e 23 febbraio 2000

Alcuni anni fa Paolo Rossi raccontò durante un suo spettacolo che un giorno, fermato da una pattuglia della polizia stradale per un semplice controllo, l’agente incaricato gli chiese le generalità e lui rispose: «Sono Paolo Rossi». E l’agente a sua volta replicò tendendogli la mano: «Piacere, Marco Tardelli». Ecco, forse il problema dell’artista comico Paolo Rossi è stato per un certo tempo quello di riuscire a farsi prendere sul serio. Ci ha provato anche con la satira politica, però ha continuato “solo” a divertire. Poi, dopo una malattia che lo ha tenuto lontano dalle scene e costretto alla degenza in ospedale per settimane, si è detto: «Ho cominciato col non riconoscermi in quello che facevo e a non vederne l’importanza. E di questo ho sofferto abbastanza. Perché è un lavoro che mi piace: sono un privilegiato, quindi devo sentirmi responsabile. E rischiare».

E così è nato “Romeo and Juliet”. Un progetto teatrale coraggioso e atipico, uno spettacolo dove pirandellianamente si recita a soggetto, con la differenza però che gli “attori” arruolati ogni sera fra il pubblico non solo non conoscono i ruoli che in qualche modo devono interpretare ma sanno di diventare personaggi solo nel momento stesso in cui vengono coinvolti. Sicché la dissacrazione della più famosa fra le tragedie di Shakespeare si trasforma in pretesto per un teatro di “rianimazione”, nel doppio senso di animazione spettacolare e di ri-animazione dallo stato catalettico in cui versa certa arte del palcoscenico. Dunque alla base di tutto c’è la tanto osannata e al contempo denigrata tradizione della commedia dell’arte o, com’è stata definita in Italia dal Cinquecento fino a Goldoni, commedia “all’improvviso”: senza un copione ma con un semplice canovaccio o soggetto sul quale improvvisare. Di suo, Paolo Rossi aggiunge la fantasia sardonica dell’istrione che chiama il pubblico a contribuire alla realizzazione dell’evento.
In una scena teatrale predisposta al “delirio organizzato” annunciato nel sottotitolo, con due televisori accesi sul palcoscenico ad uso di «quelli che si annoiano», per circa due ore succede di tutto: dalla riscoperta di certi intrinseci significati del testo alla generale demifisticazione, dai momenti di rispettosa recitazione del copione al caos del “dietro alle quinte” nelle le prove più impegnative. L’insieme condito con la parodia, mutatis mutandis, di una sorta di pirandelliano teatro nel teatro. L’ostilità fra i Montecchi e i Capuleti viene espressa da un generale scambio di insulti di una metà degli spettatori contro l’altra metà, la casa di Giulietta è trasformata in una discoteca e il suicidio di Romeo in uno spot di pasticche alla menta.

Inno alla libera ricerca del sè

Ci vuole coraggio per diventare liberi. Liberi da, liberi per. Filippo Cantirami è un giovane studente bocconiano, brillante, di ottima famiglia e col futuro spalancato. Non ha nemmeno troppo da desiderare, tutto davanti a lui è strutturato, terso e solido. Il meglio (il meglio per chi poi?) c’è già: un master a Londra dopo la laurea e una specializzazione negli Stati Uniti. Invidiabile. Del resto, Filippo, sin da piccolo, con i genitori si è sempre comportato con compiacenza, cioè con quella forma di obbedienza col sorriso per rendere felici gli altri e, di riflesso, anche un po’ se stessi.

Filippo potrebbe andare avanti così, i suoi genitori se lo aspettano, anzi, non potrebbero pensare a nulla di diverso da parte sua che ha sempre fatto tutto così bene su quel sentiero già tracciato.
Ma, un giorno, complice la lontananza da casa, Filippo si sfila da quella vita che non è la sua, e non lo è mai stata, perchè non la vuole e se ne costruisce a poco a poco un’altra libera e scelta.
Filippo finalmente vuole qualcosa e la fa. Ed è felice perchè “è esattamente dove vuole essere e fa esattamente quel che vuole fare”. Una felicità intima, privatissima, che non vive dell’approvazione degli altri né di un’aspettativa soddisfatta verso il padre e la madre. Filippo è quello che è, ama sentirsi dentro qualcosa di vago e indefinito, ancora da scoprire.
I genitori Guido e Nisina, per una serie di casualità, vengono a sapere che il loro Filippo non è quel Filippo che pensavano che fosse o come loro lo conoscevano. Guido e Nisina non sanno più nulla di lui perchè non sanno chi sia quel ragazzo che fa cose così diverse, si porta addirittura dietro delle pecore, ma perchè lo fa?
Saltano gli schemi di riconoscibilità, Filippo non combacia più con quel modello che loro avevano creato e, soprattutto, in cui avevano tanto creduto. I filtri con i quali lo avevano guardato si appannano perchè tutto è diverso da prima.
Filippo è altro ed è lontano, chissà dove, a vivere una nuova libertà che nutre la sua identità. Filippo rivuole il tempo che gli è stato sottratto quando gli sembrava che non ci fosse tempo per nulla o per tutto ciò che non fosse la sua volontà. Vuole sentire scorrere le ore, accorgersi del mentre e cogliere il fluire della vita.
Filippo è ora capace di riscattare il tempo e riannodarlo: sono passati anni da quella notte nella quale, studente, aveva conosciuto una ragazza di cui aveva perso le tracce. Poche ore assieme a lei e poi più nulla. Il tempo adesso ce l’ha, ha tutto il tempo che vuole, bello disteso davanti. E ha la libertà di andarla a cercare.

Paola Mastrocola, “Non so niente di te”, Einaudi, 2013

LA STORIA
Il podestà ebreo di Ferrara

di Hans Woller

Quella di Renzo Ravenna è una vicenda senza precedenti. Egli fu il primo e l’unico ebreo a diventare podestà dopo la marcia su Roma dell’ottobre 1922. Tra il 1926 e il 1938, rivestì questa carica di spicco più precisamente a Ferrara, una delle prime roccaforti del fascismo, dove fino agli inoltrati anni Trenta esercitava un potere quasi incontrastato il vero numero due del regime, nonché più importante antagonista di Mussolini, Italo Balbo.
Si tratta forse di un’eccezione dalla natura straordinaria che non richiede particolari spiegazioni per la storia del fascismo e degli ebrei in Italia? Al contrario. Ilaria Pavan, giovane storica e docente a Pisa, riesce infatti trovare un legame tra la biografia di un podestà ebreo, raccontata con grande partecipazione emotiva, e uno schizzo della storia di Ferrara in epoca fascista, un’analisi della comunità ebraica locale e la rappresentazione di una famiglia antica e ben ramificata, smembrata dopo il 1943 e quasi completamente cancellata nei campi di sterminio tedeschi. Chi ne vuole sapere di più, può leggere le opere di Giorgio Bassani “Il giardino dei Finzi-Contini” e “Le storie ferraresi”, oppure, appunto, “Il podestà ebreo” di Ilaria Pavan, figura che ritroviamo tra l’altro nella grande opera di Bassani insieme ad altri ferraresi legati a Ravenna, di cui Pavan racconta, i quali, per un motivo o per l’altro, avevano fatto parlare di sé.
Renzo Ravenna proveniva da una famiglia ebrea benestante e ben integrata, difficile da eguagliare nell’orgoglio che provava nei confronti della madrepatria italiana e della propria città, Ferrara. Come accadde a molti dei suoi coetanei delle diverse comunità ebraiche, nel 1914 e 1915 fu anche lui preso dalla febbre nazionalista: si fece fautore dell’entrata in guerra dell’Italia, fu chiamato alle armi e tornò a casa dalla guerra solo nel 1919, insignito di molte medaglie, per concludere i suoi studi di giurisprudenza e iniziare la sua attività di avvocato e politico comunale di Ferrara. Un ruolo decisivo giocò qui la sua lunga amicizia con Italo Balbo, il “principe elettore” fascista di Ferrara e dintorni che prese Ravenna sotto la propria ala per proteggerlo con tutte le sue forze. Eppure l’ebreo di buona famiglia non era un fascista della prima ora né tantomeno uno squadrista convinto. Balbo stimava e aveva bisogno dell’avveduto giurista, che ne capiva di amministrazione e denaro e che, aspetto ancora più importante, godeva di un’ottima reputazione, mentre lui, al contrario, combatteva da tempo contro problemi di immagine legati alla sua fama di uomo spiccio e facinoroso.
Ravenna conferì una certa serietà al potere esercitato da Balbo a livello locale e regionale e fece per tale motivo una brillante carriera: divenne consigliere comunale, poi capo dell’organizzazione di partito della città e infine, nel 1926, fu chiamato a rivestire la carica di podestà, alla quale si dedicò pressoché completamente, raggiungendo importantissimi risultati. Durante la sua carica, Ferrara visse un vero e proprio rinascimento culturale. Si dedicò poi soprattutto al potenziamento delle infrastrutture e all’industrializzazione della città. Secondo un necrologio del 1961, Ravenna avrebbe addirittura “concepito la Ferrara moderna”.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, se il podestà ebreo godesse di grande popolarità; addirittura il Vescovo fu un suo stretto amico. Tra il 1934 e il 1935, l’atmosfera cominciò tuttavia a cambiare, e non solo a Ferrara, ma in tutta Italia, dove si cominciò a prendere di mira gli ebrei che occupavano posizioni di spicco nello Stato e nella società per allontanarli. La pressione arrivava dal Ministero dell’interno di Roma, che si serviva naturalmente di numerosi uomini in loco, i quali a loro volta rafforzavano la pressione esercitata dall’alto e le conferivano una sorta di legittimazione plebiscitaria. Ravenna riuscì a resistere solo grazie alla protezione garantita da Balbo, ma dovette cominciare a guardarsi da numerose ostilità, dichiarate o nascoste.
Nella primavera del 1938, quando la campagna contro gli ebrei stava per raggiungere il suo apice, il Ministero dell’interno attaccò nuovamente Ravenna. Esigeva la sue dimissioni, adducendo come unico motivo le sue origini ebraiche e riuscendo alla fine a imporsi anche contro la volontà di Balbo. Nel Marzo 1938, Ravenna lasciò la sua carica per motivi di salute.
Il varo delle leggi razziali nell’autunno del 1938 ebbe conseguenze tragiche per le comunità ebraiche italiane. Anche a Ferrara, dove a quel tempo vivevano ancora tra i 700 e gli 800 ebrei, i correligionari di Ravenna furono oggetto di continue vessazioni. Settantasette studenti e dieci insegnanti e docenti ebrei furono per esempio costretti a lasciare le scuole pubbliche. Furono colpiti anche i figli di Ravenna, il quale fu poi escluso dalla Milizia, cacciato dall’elegante club cittadino e congedato dalle Forze armate. Poté tuttavia continuare a esercitare la professione di avvocato e gli riuscì anche di mantenere i contatti con la sua vecchia rete di conoscenze e amicizie, alla quale appartenevano anche cattolici dichiarati e fascisti convinti. Colpì soprattutto il comportamento di Italo Balbo, che non esitava a trascorrere le vacanze al mare con Ravenna e a farsi vedere con lui nel centro di Ferrara quando questi tornava a far visita alla città natale.
Anche per questo Ravenna non pensò mai alla fuga o all’emigrazione. Ma la situazione cambiò nell’autunno del 1943, quando tutto il Nord Italia occupato dai tedeschi divenne teatro di arresti e retate. E Ferrara ne fu colpita in modo particolarmente drastico. “Le deportazioni”, come racconta Pavan, “furono messe in atto dalle autorità della Repubblica di Salò con estrema efficienza burocratica” (traduzione di Paola Baglione). Ravenna riuscì a sottrarsi a questo progetto di morte fuggendo in Svizzera, dove si salvò assieme alla moglie e ai figli, mentre otto dei suoi parenti più stretti trovavano la morte nei campi di sterminio dell’Est Europa.
Tutto sembra suggerire che Ravenna, dopo il 1938, cominciò ad allontanarsi dal fascismo, per arrivare alla rottura definitiva nel 1943. Questo non portò tuttavia ad un allentamento del legame di natura nazionalista con la madrepatria o a una rivalutazione critica del suo ruolo nel regime fascista. Si definiva un leale servitore della propria città, il cui sacrificio non era stato sufficientemente premiato. Si considerava una vittima e non rese mai conto a nessuno del suo essere stato anche “reo” e servitore di un regime criminale. Non sorprende in questo contesto che Ravenna, fino alla sua morte nel 1961, fece tutto il possibile per riabilitare la figura di Italo Balbo, che ai suoi occhi rimase l’amico ammirato di sempre, ignorando con leggerezza il fatto che fosse stato anche un fascista senza scrupoli.
Tale ristrettezza di vedute fu una delle strategie di sopravvivenza di Ravenna e probabilmente rese possibile anche la sua reintegrazione a Ferrara, la quale dopo il 1945, dietro la facciata del potere della sinistra, rimase per molti aspetti quella di prima. Ilaria Pavan rivisita la storia di quest’uomo con grande sensibilità, eseguendo un’accurata analisi delle fonti e servendosi delle più moderne tecniche di ricerca, che alla fine non lasciano più alcun dubbio sulle origini autoctone e profonde delle leggi razziali e sul ruolo giocato da molti fascisti nel genocidio nazionalsocialista perpetrato contro gli ebrei. Ne nasce un piccolo capolavoro che, illustrando una vicenda unica, racconta ciò che poteva accadere agli ebrei durante il periodo fascista. Speriamo che venga tradotto presto in tedesco.

Ilaria Pavan, “Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali”, Laterza, Roma/Bari, 2006

Hans Woller è ricercatore presso l’Institut für Zeitgeschichte di Monaco. Le sue ricerche riguardano in generale la storia sociale e politica del XX secolo in Italia e in Germania, e in particolare i decenni del fascismo, del nazionalsocialismo e del dopoguerra.

Traduzione dal Tedesco a cura di Paola Baglione

IMMAGINARIO
Giardino di memorie.
La foto di oggi

Nel giorno in cui si rende omaggio ai defunti, le immagini del cimitero ebraico di Ferrara. Un luogo dove la natura resta intatta accanto alla sobrietà delle sepolture, tra le quali tante portano nomi così illustri. Tra queste è pure quella dello scrittore Giorgio Bassani, non lontano da quella dei Finzi-Magrini che ispirarono la sua fantasia romanzesca per il “Giardino dei Finzi-Contini”. (Giorgia Mazzotti)

OGGI – IMMAGINARIO LETTERATURA

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Cimitero ebraico di Ferrara con vista sulle Mura (foto di Aldo Gessi)

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]

ACCORDI
Nessun colpevole.
Il brano musicale di oggi

Stefano Cucchi arrestato il 15 ottobre 2009 muore una settimana dopo nella condizione che questa terribile immagine documenta in modo inequivocabile. Già al secondo giorno di detenzione gli erano state riscontrate ecchimosi e fratture. Ma per la “giustizia” non c’è alcun colpevole.

legge-uguale-per-tuttiPaolo Pietrangeli, Uguaglianza

(per ascoltarlo cliccare sul titolo)

 

Ogni giorno un brano intonato a ciò che la giornata prospetta…

GERMOGLI
Sete di giustizia.
L’aforisma di oggi

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati (Piergiorgio Bellocchio, Dalla parte del torto, 1989)

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Piergiorgio Bellocchio

Lo sconforto per i quotidiani soprusi impuniti induce al sarcasmo come antidoto alla disperazione. Ma non sarà sempre la domenica delle salme…

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…