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Giorno: 22 Novembre 2014

L’EVENTO
Frost/Nixon: lo storico duello in scena al Teatro Comunale

di Michele Montanari

Da ieri sera a Ferrara Frost/Nixon, della compagnia Teatro dell’Elfo che celebra quest’anno i quarant’anni di attività. Nelle serate di oggi e domani è in replica al Teatro Comunale la trasposizione teatrale di uno dei più grandi eventi televisivi della storia contemporanea, segnato al suo acme, dall’ammissione di colpevolezza del dimissionario presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon.

Abbiamo intervistato Ferdinando Bruni, uno dei due registi, all’indomani del debutto ferrarese.

Quali sono state le spinte verso la produzione di un lavoro tanto rischioso in termini di grande pubblico?
Siamo stati colpiti e convinti dalla forza di questo testo teatrale di Peter Morgan. Un testo formidabile scritto da un uomo di cinema e televisione alla prima prova teatrale. Come è risaputo, da quel testo è scaturito il film di Ron Howard “Il duello” del 2008, con la sceneggiatura dello stesso Morgan. Abbiamo fatto diverse riflessioni sull’attualità e le analogie del lavoro dello sceneggiatore, rispetto al presente italiano, ferme restando, ovviamente, anche le inevitabili divergenze. Il testo originale comunque non è stato modificato in alcun modo, a parte sfumature di traduzione.

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Una scena

Siamo a metà degli anni ’70, quando il giornalista britannico James Frost decide di riscattare il proprio successo negli Stati Uniti, dopo essersi fatto conoscere nella sua Gran Bretagna e in Australia come brillante e spregiudicato anchor-man. Questo l’incipit della sua caccia a Nixon.
Frost, più incline alla satira che all’approfondimento, distante quindi dal mondo della politica, cerca indefessamente il grande scoop sulla testa di Richard Nixon, fiuta il colpo di scena, e alla fine riesce nell’intento, portando oltre 45milioni di persone davanti alle sue telecamere (ancora niente a confronto dei 400milioni di spettatori americani incollati allo schermo nel 1974 davanti alle dimissioni dello stesso Nixon). Frost aveva intuito bene che la televisione e il giornalismo d’inchiesta teletrasmesso in quegli anni di scandali e rivelazioni di intrighi presidenziali avrebbero assieme creato una miscela potentissima, capace di far sobbalzare l’intera opinione pubblica degli Stati Uniti.

A questo proposito, domandiamo a Bruni se si possa parlare di un lavoro che punta a sottolineare il potere della televisione sulla politica e se questo non abbia spaventato i due registi rispetto al senso di estraneità popolare nei confronti della politica.

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Ferdinando Bruni e Elio De Capitani

Sapevamo bene di indagare sul potere mediatico della televisione in un tempo come il nostro in cui si parla di colonizzazione dell’immaginario da parte della tv stessa, e allo stesso tempo di crescente disaffezione politica di tanti ormai pronti solo a seguire gli show personalistici di politici in passerella eccetera… Ma allo stesso tempo volevamo portare una tv lontana dentro un teatro contemporaneo, volevamo seguire un testo brillante e avvincente scritto da un uomo capace di mettere il cinema dentro al teatro, e soprattutto volevamo (e ci siamo riusciti) bucare la quarta parete convertendo il palco in uno studio televisivo allegorico, rivolto con le sue voci e i suoi sguardi alla “grande telecamera” rappresentata dal pubblico di fronte. Questa è stata la nostra sfida.
Il lavoro dell’Elfo aderisce fedelmente al fortunato testo di Morgan, ed è stato altrettanto efficace nel trasporre le famose interviste tra i due mattatori. Attraverso un forsennato montaggio di dialoghi e quadri teatrali, si ricompongono viaggi, traffici di denaro, telefonate, interviste, riuscendo a rendere in poco meno di due ore la densa serie di accadimenti che anticipano il momento clou della confessione.

Se Frost aveva scommesso tutto sul volano moltiplicatore del mezzo televisivo, non avete temuto che lo sguardo del pubblico a teatro non riuscisse a restituirgli la forza di quei lunghi round televisivi?
No, eravamo convinti ripeto della forza e dell’efficacia del testo su cui si lavorava. Con otto attori in scena, otto poltrone da ufficio semoventi, diversi monitor sparsi sul palco, siamo riusciti a restituire al pubblico un concentrato vivace e a tratti furioso di una vicenda umana e mediatica durata circa due anni di ricerche, spostamenti, studi televisivi e salotti privati.

Il risultato per lo spettacolo di Morgan fu un successo acclamato da Londra fino a Broadway con ben 137 rappresentazioni: anche l’Elfo ha raggiunto un simile traguardo?
Beh, quasi. Nelle due programmazioni siamo finora riusciti a superare le 100 repliche di Frost/Nixon e ne siamo molto contenti. Ieri sera, la prima qui a Ferrara è stata una riconferma della buona risposta del pubblico ad un lavoro comunque di matrice storico-sociale, per quanto il mestiere di chi fa teatro sia di umanizzare tutto, renderlo il più possibile immaginabile e fantastico assieme.

L’Elfo mette in scena un dramma incalzante e strepitoso, un congegno perfetto alla stregua di un thriller, disseminato da una serie di dettagli, di riferimenti storici spesso simboli e allegorie, per raccontare il potere e la sua farsesca manipolazione, la politica e la sua simbiosi con i mass-media. Non crede che oggi, la sovraesposizione mediatica dei politici sia l’ultimo baluardo della loro stessa credibilità, che la cura maniacale della loro immagine e della loro retorica (pensiamo al ruolo attuale degli spin doctor) sostituiscano ormai la loro credibilità morale o quantomeno politica in senso stretto?
Sì, credo sia così e lo vediamo ogni giorno proprio attraverso la tv e i suoi derivati. Ma questo era già vero negli anni ’60 e ’70, quando un Nixon meno esteticamente credibile di Kennedy, si trovò ad ammettere che la sua sconfitta alle presidenziali fosse stata in buona parte una questione di immagine, facendo anche riferimento (nello spettacolo, ndr) alle sue sopracciglia sudate.

Qualche passo indietro. L’evento mediatico messo in scena è datato 1977; una decina di anni prima il cineasta filosofo Guy Debord aveva coniato l’espressione “società dello spettacolo”, preannunciando la mistificazione di cui la televisione è stata padrona nei confronti dei rapporti sociali ed economici almeno sui nostri paralleli. Oggi si parla di società della comunicazione digitale, di sovraesposizione mediatica da parte dei politici in brillante agonia davanti alla fine della sovranità statale, ridotti a personaggi, continuamente parlanti, onnipresenti sui social, artefici di sempre nuovi e tecnologici storytelling (compresi i tweet, le perfomance ai talk show), insomma il potere politico pare declinarsi sempre più a potere della comunicazione, della narrazione.

Crede che questo passaggio sia stato preso in considerazione nella vostra messa in scena, forse attraverso l’allegorica schiera di monitor o l’implacabile e precisa retorica dei due protagonisti?
Certamente. Abbiamo cercato di attualizzare il più possibile l’incontro tra Nixon e Frost, comprimendo i tempi delle conversazioni, mantenendo un ritmo alto e quindi volutamente televisivo (per come lo intendiamo oggi… pensi che quelle interviste duravano in realtà oltre un’ora ciascuna).

Durante lo spettacolo convergono sul palcoscenico la forza ipnotica di quelle famose interviste e la cura del dettaglio espressivo-drammaturgico, dimostrando forse che i due luoghi dell’espressione e della narrazione (tv e teatro) non sono sempre così antitetici, ma anzi, il secondo può decontestualizzare il primo, riesumarne un episodio memorabile, drammatico e spettacolare ad un tempo. E’ così?
Sì, in questo lavoro si può dire che la televisione sia in scena con gli attori o meglio, la loro telegenia sia il più possibile e al meglio drammatizzata, quindi recepita per il suo effetto scenico più che per il suo originario (e sempre discutibile) compito informativo.

Si nota un grande lavoro di finitura su due protagonisti: Elio De Capitani nel ruolo di un Nixon, tratteggiato come caimano americano, divo di gomma tronfio ed egolalico, e Ferdinando Bruni, nei panni dell’ambiguo performer da talk-show, patinato, ex comico mondano e vanitoso, interessato forse più all’audience e al jet set che all’inchiesta vera e propria. Si ha quasi l’impressione che dei due a confronto, il teatro metta in maggior risalto il lato più mostruoso, l’abbietto.

E’ vero allora che a teatro i cattivi vincono sempre?
Forse è così fino a un certo punto. Il nostro Nixon è volutamente attualizzato e quindi enfatizzato, vince per un lungo lasso di tempo, conquista pubblico e stampa, ma alla fine perde e perde tutto.

Avete arricchito e deformato i due personaggi per attualizzarli ai nostri protagonisti della politica?
Abbiamo cercato di delineare il loro carattere sulla falsariga dei biechi potenti di casa nostra, forse più seducenti e smargiassi, ma anche più pacchiani rispetto al mondo anglosassone.

Durante la pièce sono molte le risate che risuonano in platea. Come ve lo spiegate rispetto a un’ipotesi di sconcerto o disgusto davanti allo spettacolo di una disfatta morale di un presidente?
Si sa, si ride sempre del dolore altrui e comunque, ripeto, questo è un testo che sa essere esilarante ed allo stesso tempo grottesco… sono spesso risate amare generate dai lunghi giri di parole di Nixon, le funamboliche digressioni, la sua infaticabile ars retorica (le viene in mente qualcuno?) che in ultimo lo rivela appunto ridicolo.

Si è parlato di effetto farsa dello spettacolo. E’ un effetto voluto?
La trama di questa storia si basa su situazioni e personaggi stravaganti, si mostrano eventi, storie e atmosfere di quei lontani anni ’70 declinate in modo certamente grottesco e irrazionale. Anche se la farsa è prevalentemente comica e il nostro lavoro non ha l’obiettivo della comicità, si può parlare di un dramma che si conclude in farsa.

Un’ultima domanda, in questa lunga tournée italiana avete notato differenti pubblici nelle diverse città italiane?
Solo a Roma, al teatro Argentina, ci siamo trovati davanti a un pubblico con molti rappresentanti politici… lì forse, qualche silenzio in più, lo abbiamo avvertito.

“Frost/Nixon”, prodotto da Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile dell’Umbira, con Elio De Capitani/Ferdinando Bruni, regia di Elio De Capitani/Ferdinando Bruni.

Il caso Moro secondo Gotor

Miguel Gotor, protagonista del terzo appuntamento del ciclo “Passato Prossimo”, dedicato ai 55 giorni del rapimento di Aldo Moro, nella doppia veste di storico che ha dedicato alla vicenda due volumi, “Lettere dalla prigionia” e “Il memoriale della Repubblica” (entrambi editi Einaudi), e relatore al Senato della legge che ha istituito la terza Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro.

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La copertina de ‘Il memoria della Repubblica”

E’ in qualità di storico che risponde alla domanda del costituzionalista ferrarese Andrea Pugiotto sulle motivazioni che lo hanno spinto, lui storico moderno avvezzo alle storie di Papi, Santi ed eretici, a questa incursione nella storia contemporanea. Gotor si è definito “esperto degli anni ’70 del ‘500 e degli anni ’70 del ‘900”, spiegando poi che secondo lui esistono due tipi di storici “gli storici che credono al tempo e gli storici che credono ai problemi”: “Io appartengo a questa seconda genia” affezionata a “una problematicità che prescinde dal tempo cronologico”. Ad accomunare martiri ed eretici del ‘500 e la vicenda di Moro è, per Gotor, l’essere “morti carismatici, che con la propria morte violenta hanno testimoniato la moralità della propria vita”: “a me interessa studiare non tanto come gli uomini vivono ma come muoiono e come le comunità riflettono su queste morti, indagare la morte di un uomo e le sue ragioni per comprendere l’essenza della sua vita”. L’altro tema è quello del “come un potere controlla i testi”: il potere di censura dell’Inquisizione era un condizionamento paragonabile a quello che le Br esercitavano su Moro prigioniero. “Mi sono posto il problema della libertà di un autore” che è sempre condizionata “dai contesti, dalle situazioni, dai ruoli”.

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Copertina del libro “Lettere dalla prigionia”

Ed è ancora lo storico a illustrare le due principali chiavi interpretative della vicenda Moro: una è la “connotazione spionistico-informativa” del rapimento che porta a pensare che durante quei 55 giorni possano essere stati a rischio non solo la sicurezza nazionale, ma gli equilibri internazionali; l’altra è la sua peculiare natura non di “regicidio classico”, ma di vera e propria operazione di delegittimazione “della moralità del progetto di Moro”. Secondo Gotor il segretario della Dc aveva compreso sia che il sistema di governo era ormai in crisi, sia che il paese non era ancora pronto per l’alternanza, perciò “voleva provare a consolidare la democrazia italiana allargandola e facendo con i comunisti ciò che aveva già fatto con i socialisti negli anni ‘60”. Tale delegittimazione avviene, per Gotor, attraverso una “oculatissima operazione di comunicazione” volta a creare “un vero e proprio trauma: ‘non ci provate più!’ è il messaggio”.

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Miguel Gotor

È, invece, il senatore del Pd che risponde “imbarazzato” alla domanda sul perché dare vita a una nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. L’imbarazzo deriva sia dalla “evidente distonia di carattere politico fra mezzi e fini”, dato che la commissione dovrebbe lavorare con un budget di circa 14.000 euro l’anno per tre anni, ma anche dall’idea di fondo con cui ha scritto i due volumi: “dopo più di 30 anni è finito il tempo della magistratura e della politica, deve iniziare il tempo della storia”. È diventato “parte attiva di questa surrealtà” solo per modificare la proposta legislativa di alcuni deputati che avrebbero voluto “una commissione monocamerale” senza i senatori, “non perché credo che 36 anni dopo la qualità della nostra conoscenza possa aumentare grazie alla commissione”.
Non saprei dire se sia lo storico o il senatore o entrambi a lanciare l’ultimo lapidario giudizio sulla “patologia tutta italiana” che affligge i “rapporti fra cittadini, istituzioni, memoria e politica” e che sembra “far sparire dalla riflessione sul caso Moro le Br e il ‘partito armato’ per concentrarci su Dc e istituzioni. È come nella vicenda della trattativa, dove a scomparire totalmente dal radar pubblico civile sono i mafiosi”. A questo punto Gotor domanda: “a che interesse risponde ciò?”

LA RIFLESSIONE
L’aiuto: cercare il giusto incastro fra bisogni e disponibilità

Proseguirei l’analisi dei bisogni salienti della nostra comunità proponendo qualche altra occasione di volontariato nel vasto tema dei servizi alla Comunità a livello sociale, informativo, culturale, oltre a altri progetti. Bisogna allora aumentare l’area della responsabilità e sviluppare progettualità.
Mi sembra possa aiutare nella comprensione questo schema pensato dal grande storico ed economista professor Carlo Maria Cipolla di cui è famosa la frase “lo stupido è più pericoloso del bandito” e da me implementato posizionando una area della responsabilità in cui mi pare si possa individuare quella grande quantità di persone che sentono il bisogno di aiutare il prossimo anche quando questo significa sacrificio per sé stessi; non tutti per fortuna infatti agiscono solo quando ne possono avere dei vantaggi personali.
Ecco allora qualche altra possibilità di contributi volontari. In particolare nei servizi culturali e in quelli ambientali, aree che in questi ultimi anni hanno prodotto un ampio processo di trasformazione e che richiedono crescente attenzione e sensibilità collettiva.

Qualche esempio:
Educazione ambientale
Percorsi didattici e di approfondimento di tematiche ambientali da proporre a supporto della programmazione scolastica (I e II livello) ma anche presso strutture varie di cultura e di apprendimento. Possibilità di riunioni ed incontri di coinvolgimento presso circoscrizioni e altre istituzioni territoriali (aree protette, parchi, etc) per sensibilizzazione nei diversi temi della sostenibilità (ambiente, salute, mobilità, partecipazione e alimentazione).

Raccolte differenziate
Informazione e coinvolgimento dei consumatori per adeguarne il comportamento e gli atteggiamenti alle esigenze di prevenzione della produzione di rifiuti da imballaggio e partecipazione alle iniziative di recupero e riciclaggio. Lo sviluppo delle raccolte differenziate è uno dei principali temi per dare una reale svolta al difficile tema dei rifiuti, ma è anche uno degli elementi di maggiore criticità. E’ sicuramente cresciuto il livello di sensibilizzazione e di informazione, ma non basta. Bisogna migliorare i criteri di trasparenza e di corretta informazione ai cittadini nello sviluppo del riciclo, rafforzando utili sistemi di raccolta porta a porta, magari sostenendo il controllo della qualità del materiale raccolto, legandolo a verifiche di impurità e scarto, effettuando analisi di andamento nel tempo e miglioramento in continuo, analisi variabilità dei risultati tra territori, etc. Si tratta di attività a supporto del sistema di gestione, ma anche di una collaborazione più stretta tra gestore e cittadini.

Mercato last minute
Promozione di servizi sociali (soprattutto per derrate alimentari) ed iniziative di Last minute market per solidarietà e “spreco utile”. Un tema molto importante è quello relativo agli alimenti non più commercializzabili ma ancora commestibili che possono essere recuperati. Es. i pasti non consumati nelle mense (scolastiche e aziendali), le derrate alimentari non più vendibili negli ipermercati, gli scarti derivanti dalla ristorazione, gli scarti di produzione dell’industria agroalimentare. Si tratta di valorizzare il “banco alimentare” che recupera da supermercati cibi prossimi alla scadenza o non commercializzabili per altre ragioni, ma ancora perfettamente utilizzabili perchè perfettamente commestibili e dunque utili ad una distribuzione per meno abbienti.

Vigilanza sui servizi ambientali
Organizzare una rete di rilevatori per controllo territoriale. Funzioni di prevenzione e di accertamento delle violazioni, ruolo ispettivo a supporto. Si tratta di dare risposte qualificate a richieste specifiche delle Istituzioni. Deve essere garantito un codice etico che risponda a criteri, vincoli e principi predefiniti e concordati.

Affido di territori e quartieri
Crescono le esigenze dei territori nelle città (quartieri, contrade, strade commerciali, centri, etc) e aumentano le giuste esigenze dei cittadini nei confronti delle aree e dei territori che frequentano. Serve dunque garantire un livello di qualità sistematica e di un costante e continuativo strumento di vigilanza per rilevare le carenze e supportare i programmi di salvaguardia delle aree. Si pensa in generale alla pulizia del suolo, alla igienicità dei cassonetti, ai cestini, alla fruibilità di parchi e giardini, alla illuminazione pubblica, alle perdite d’acqua, alle infrastrutture presenti, alla segnaletica, ai cartelloni pubblicitari. Tale servizio di vigilanza può essere attuato per mezzo di un “affido” convenzionato con uno specifico gruppo di persone selezionate che svolgono il presidio costante e comunicano, autorizzati, tutte le segnalazioni. Nella recente riforma dei decreti del governo sono anche previsti possibili sgravi sulla tassa dei servizi a corrispettivo di servizi ambientali erogati.

Manutenzioni di “cose”
La cura di un anziano, la sua esperienza nel riparare, il rispetto delle cose, etc sono valori che nella società dell’usa e getta si stanno purtroppo perdendo. Ritrovare il valore delle cose e dunque la filosofia del recuperare può trovare valide soluzioni in questo contesto. Quanti oggetti rotti vorremmo recuperare per ricordo, per utilità, per valore e non sappiamo a chi rivolgerci. Pensiamo ad un orologio, magari a pendolo, ad un vaso di ceramica rotto, ad un utensile, ad un attrezzo domestico, etc. L’idea è di creare una officina di aggiustaggio dove recuperare le “cose”.

Infine vorrei ricordare un servizio che viene con grande impegno svolto dalla Auser di Ferrara e che mi chiedo senza il suo contributo cosa ne sarebbe delle nostre tante e belle strutture culturali:

Custodia mostre e musei
Assistenza nella fruizione dei patrimoni museali, garantendo la vigilanza e la custodia delle opere all’interno degli spazi espositivi, gestendo i flussi di accesso, fornire informazioni e assistenza alla visita. Inoltre si potrebbe offrire un sistema integrato di servizi: dalla gestione della biglietteria e bookshop alla guardiania e custodia diurna, dalle visite guidate alla realizzazione di laboratori didattici, al supporto logistico per trasporti e allestimenti.

Gestione biblioteche
Supporto al Sistema Bibliotecario delle Istituzioni per favorire il coordinamento delle attività di gestione e di archiviazione in un sistema a rete d’offerta culturale. Tale servizio potrebbe anche essere ampliato per operare meglio nella organizzazione con competenze relative alla biblioteconomia, bibliografia, archivistica, documentazione e materie correlate. Chi lavora a supporto volontario in biblioteca, a mio avviso, potrebbe essere un prezioso supporto se ha competenze in materia di organizzazione e gestione dei servizi, catalogazione, utilizzo degli applicativi specifici, gestione dell’informazione cartacea ed elettronica. Sarebbe utile collaborare nel pianificare le diverse attività, conoscere le sezioni della biblioteca, conoscere i documenti ed i sistemi di catalogazione, saper inserire i dati e gestire i servizi attraverso il software, essere in grado di promuovere i servizi.

Sono certo che molte persone possono, meglio di me, offrire contributi e soluzioni di merito. Nel vastissimo tema della cultura in generale io penso si possa arricchire la voglia di apprendere, conoscere. Si tratta di una esigenza crescente di molte persone che non ne hanno avuto il tempo e che desiderano ora imparare. Si possono sviluppare infatti interessi al di fuori della scuola, per scelta personale e senza arrivare agli impegni della università della terza età. Tenere attiva la voglia di sapere è un importante stimolo intellettuale. Alcune aree di interesse possono essere le seguenti:
a. Lezioni Arte, letteratura, storia, filosofia, etc
b. Corsi Culinari, giardinaggio, faidate, fotografia, pittura, etc
c. Ai mestieri artigiani (salvaguardia dei vecchi mestirei)
d. Laboratori lingua italiana (agli stranieri, ai turisti)
e. Supporti informatici di base (per anziani)

E molto altro ancora.

La libreria IBS.it ha ospitato ieri il terzo appuntamento del ciclo “Passato Prossimo. Pagine recenti di storia costituzionale”

da: Responsabile Eventi Libreria IBS.it Ferrara

Tema dell’incontro: gli anni di piombo, riletti alla luce del rapimento e dell’uccisione del leader democristiano Aldo Moro.
Ad aprire l’incontro è stato l’attore Marcello Brondi, con un’interpretazione scenica – di grande impatto emotivo –dell’ultima lettera dalla prigione brigatista scritta da Moro all’allora segretario DC Benigno Zaccagnini. E’ toccato poi ad Andrea Baravelli, storico dell’Ateneo estense, ricostruire le matrici del fenomeno terroristico in Italia, e le sue conseguenze sulla vita politica del Paese.
Dal dialogo tra lo storico torinese Miguel Gotor e il costituzionalista ferrarese Andrea Pugiotto, invece, sono emerse le contraddizioni tra quanto accadde allora e quanto, oggi, sappiamo con certezza su quei tragici 55 giorni. A fungere da bussola della discussione sono stati l’edizione critica e filologica delle lettere scritte dal Moro prigioniero (curata dal Gotor per Einaudi), e il ruolo dello stesso Gotor di relatore al Senato della legge che ha istituito la terza Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro.
In una sala stracolma, davanti a un pubblico attentissimo, sono state così rilette le tappe più controverse di quella cruciale vicenda. L’autenticità delle lettere di Moro, oggi certa ma allora contestata. Le trattative con le BR, allora negate in nome della fermezza dello Stato, in realtà tentate con l’avallo del governo e della sua maggioranza. Le omissioni e le negligenze degli apparati statali di allora e le ingerenze straniere che hanno caratterizzato quel drammatico fazzoletto di tempo.
Il caso Moro ha avuto una dinamica tipica della tragedia, e la tragedia – fin dall’antica Grecia – è una dimensione propria del teatro. Ecco perché, in ideale continuità con l’incontro di ieri, sarà messo in scena dall’attore Mauro Monni il monologo La solitudine del Re. i 55 giorni di Aldo Moro nella Prigione del Popolo. Lo spettacolo, a ingresso libero, si terrà in Sala Estense, martedì 25 novembre, con inizi alle ore 21.00.

Un altro naturalista ci ha lasciato

da: Marco Bondesan

È morto qualche giorno fa a Ferrara il prof. Remigio Urro. La notizia è stata data dalla famiglia con un annuncio funebre pubblicato sui giornali a esequie avvenute.
Nato a Trieste, Urro era venuto a Ferrara da ragazzo e nel nostro Ateneo si era laureato in Scienze Naturali. Come ottimo insegnante, aveva poi trasmesso la sua passione a tanti giovani ferraresi. Era anche un eccezionale fotografo ed ha coniugato le due passioni diventando un bravo fotografo naturalista.
Sempre da ragazzo si era anche innamorato del Po, cosa che ha poi attestato in un libro che ci ha presentato anni fa: Orme sul Po.
Remigio si era avvicinato all’Associazione Naturalisti Ferraresi fin dalla sua fondazione, per molti anni era stato iscritto ed era anche entrato nel Consiglio Direttivo. Ha lavorato per documentare le dune di Massenzatica, per salvarle dalla distruzione, e in tante altre azioni volte a tutelare il paesaggio ferrarese. La sua vita era poi stata sconvolta dalla perdita di uno dei due figli, già ragazzo, avvenuta per un incidente stradale. Da allora Remigio si era un po’ allontanato dalla militanza naturalista, ma era sempre disponibile a presentarci le sue foto. Nelle sue conferenze ci mostrava sullo schermo la bellezza della natura e intanto ci faceva dei discorsi filosofici, o ci parlava di storia; ma senza mai annoiarci, anche perché il suo pensiero era sempre tenuto in carreggiata da un formidabile senso dell’humor. Era un uomo di grande cultura.
Un’altra sua opera, che ci ha presentato, è stata quella sulle “Mura di Ferrara, la poesia del tempo”, e ne ha anche pubblicato altre (Nicholaus e l’arte del suo tempo ecc.). Di lui ora ci resta il ricordo, il rimpianto ed i suoi libri, a testimoniare un entusiasmo per la bellezza e per la vita che in questi ultimi tempi, nel nostro mondo, sembra essere impallidita.

Bella e misteriosa Betty, fotografie di un’anima persa

Abbiamo recentemente recensito la Betty di Simenon [vedi], prima dell’omonimo romanzo di Roberto Cotroneo. Avevo acquistato il libricino dell’autore francese all’aeroporto romano Leonardo da Vinci. Conoscendo già l’origine credevo, dunque,di essere pronta al nuovo libro di un autore che ho sempre seguito e ammirato. Mi piace come scrive Roberto (anche se lui non vuole mai che si dica che un libro “è bello”…), la forza e l’energia che getta fulmineo alle pagine accarezzate dal vento e dalla voglia di svelare un mondo interiore complesso ma ricco ed estremamente sensibile. Una vera e propria calamita per me, per il mio modo di essere, di leggere, di scrivere e di vivere in completa empatia con i personaggi di un romanzo che, di solito, fatico a salutare alla fine di ogni storia. Se mi sono piaciuti, mi congedo da loro con estrema difficoltà, li tengo per mano fino all’ultima riga, magari rileggo le ultime pagine per salutarli ancora. E quando chiudo il libro sono sempre un po’ triste. Prima che uscisse in libreria, avevo aspettato trepidante il libro di Cotroneo.
Sinceramente, la Betty di Simenon mi aveva lasciato un po’ di amaro in bocca, questa volta mi ero congedata quasi volentieri da un personaggio difficile, criptico, scomodo e per certi versi tetro e un po’ angosciante. Volevo, allora, vedere cosa sarebbe rimasto di lei nel nuovo romanzo di questo noto scrittore piemontese. Direi, oltre al nome, molte caratteristiche principali della protagonista simenoniana, nella sua personale e infinita tragedia di vita, nelle sue profonde cicatrici e nel suo destino ciecamente ferito. Ma qui c’è molto di più. Quella giovane e bella donna misteriosa che scompare improvvisamente a Porquerolles, l’isola dove il vecchio e malato Simenon passa qualche settimana di vacanza, ci fa entrare, ancora una volta, nel mondo dei perdenti, delle esistenze segnate, sofferenti e buie, nell’abisso dell’animo umano, nella disperazione e quasi nella follia, ma lo fa come se fossimo in un quadro monocromatico o in una fotografia. Mi colpiscono, infatti, i frequenti richiami alla fotografia, che ci proiettano nel suo mondo. Immagini in bianco e nero di Betty scattate dal fotografo del paese, Marc, perché Simenon vuole il racconto di un’anima, e le anime non sono a colori, ma sono fatte di sfumature su una sola tonalità, bianca, nera o grigia. Perché Simenon ricorda che la gente pensa che le fotografie aggiungano qualcosa a ciò che vediamo, perché le prime foto scattate sono quelle prese sulla piazza dell’isola, dove le rughe in bianco e nero di uomini anziani, uomini seduti, sembrano le linee di carte geografiche, ove le tonalità di grigio sono sfumature di vita. Qui scrittore e scrittura sono soci, uno di minoranza e uno di maggioranza, uno scrittore anziano che ritrova l’intensità. L’escamotage iniziale del manoscritto ritrovato fa immedesimare ancora di più lettore, scrittore, protagonisti, tutto si mescola, tutti sono tutti, nessuno salva nessuno, tutto si confonde. Perché lo scrittore-personaggio-protagonista, alla fine, non ha “più la forza di aggiungere una sola parola a questo scritto”… come se si portasse “addosso le ferite di tutte le donne non comprese”. Perché, alla fine, “quella che chiamiamo vita non è altro che un collage di ricordi di qualcun altro. Con la morte, quel collage si disfa e ci ritroviamo con frammenti slegati, casuali, cocci o, se si vuole, istantanee”. Quelle fotografie di Marc che l’improvvisato Maigret, trovatosi suo malgrado coinvolto nella scomparsa della bella Betty, non vuole più vedere, perché “tutto è là, nel dolore degli occhi grigi di quella donna. E, conclude… nelle ferite di tutte le donne che non sono stato capace di capire e di sentire. Tutto è in quegli occhi grigi di un mondo indifeso che non sono riuscito a salvare”. La fotografia, il bianco e nero, il grigio, ossia la tonalità delle anime perse.

Roberto Cotroneo, “Betty”, Bompiani, 2013, pp. 188

IL FATTO
Notizie recenti dell’occupazione tedesca nel ferrarese

La conferenza tenuta ieri mattina nell’aula didattica Alfonso I del Castello Estense dagli storici Davide Guarnieri e Andrea Rossi per gli studenti delle classi quarte e quinte del Liceo Sociale Carducci è la dimostrazione di quanto ci sia ancora da scoprire e da studiare negli archivi italiani e non solo. Guarnieri, che da molto tempo ormai si occupa delle vicende del ferrarese durante la Seconda guerra mondiale, e Rossi, che è uno storico militare, hanno illustrato ai ragazzi e a tutti i presenti il periodo dell’occupazione tedesca nel territorio ferrarese e le sue caratteristiche, sottolineando come per molti versi si tratti di acquisizioni e di notizie abbastanza recenti: fino a pochi anni fa “non avremmo potuto dirvi molte delle cose che state sentendo”, ha specificato Rossi.
Per esempio è stata a lungo un’opinione diffusa che fra ’43 e ’45 nelle zone occupate le violenze sommarie e gli arresti venissero compiuti dalle truppe occupanti tedeschi e in molti casi è stato così: come dimenticare i tanti episodi sull’Appenino tosco-emiliano, da Sant’Anna a Montesole, o ancora la strage di Meina sul versante piemontese del Lago Maggiore. Non è stato così nel ferrarese, qui si contano solo due episodi in cui a operare furono direttamente le truppe occupanti: l’eccidio del Caffè del Doro, il 17 novembre 1944, e la precedente ritorsione di Filo di Argenta, l’8 di settembre, per vendicare la morte di un soldato tedesco. Tutte le altre azioni nel nostro territorio furono condotte da italiani contro italiani, spesso ferraresi da entrambe le parti, e anche tutti i cittadini ferraresi di origine ebraica furono arrestati da italiani. Tanto che “una percentuale così alta di azioni italiane rispetto a quelle tedesche credo non ci sia in nessuna altra provincia”, ha ipotizzato Davide Guarnieri. Per citare un episodio concreto: nel dicembre 1944, come ritorsione per un’azione di un gruppo di partigiani, a Codigoro e nelle zone circostanti furono arrestate fra le 250 e le 280, tutti i fermi furono fatti da fascisti appartenenti alle brigate nere o alla milizia repubblichina.
È curioso anche come molti ignorino che il Castello di Mesola fu “il perno per controllare l’area dall’Adige fino alla Linea Gotica”: attraversato dal Po e con accesso diretto al mare, il ferrarese era una posizione strategica fondamentale e doveva essere difesa da possibili sbarchi alleati. Il Castello di Mesola, sede del 676° battaglione al comando del Maggiore Saggau, fu anche il luogo dove i militi repubblichini veneti e ferraresi si scambiarono i prigionieri e spesso li torturarono, come avvenne a Walter Teggi. Anche la Caserma di via Bevilacqua o il Carcere di Piangipane, i principali luoghi di tortura e di violenza nella città di Ferrara, erano strutture italiane. Dunque se, come ha affermato Andrea Rossi, “quello che i tedeschi volevano per questa zona era la tranquillità” per poter svolgere “in maniera organizzata lo sfruttamento economico” del territorio, è anche vero che non importava come questa tranquillità venisse raggiunta.
La cosa forse più sorprendente, però, riguarda l’ultima fase dell’occupazione tedesca, quando alla fine del 1944 la linea del fronte passava sul Sennio, e quindi Ferrara e il suo territorio si trovavano nell’immediata retrovia. Oltre ad essere il momento di maggiore presenza dei tedeschi nel ferrarese, Rossi e Guarnieri, analizzando le carte del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo, hanno scoperto una cartina militare che mostra come, dall’autunno 1944 alla primavera 1945, il comando di tutte le truppe della decima armata e del territorio compreso fra Comacchio e Bologna si trovava a Sabbioncello San Vittore. “È incredibile come di questo non sia rimasta praticamente traccia nella memoria della popolazione”, hanno sottolineato i due storici.

LA STORIA
Quella casetta fra i fiordi

“Puoi arrivare da qualsiasi parte, nello spazio e nel tempo, dovunque tu desideri.” Il gabbiano Jonathan Livingston, Richard Bach

Ero arrivata in Norvegia in un ancor freddo mese di giugno. La luce non diminuiva mai, i raggi del sole scaldavano ogni ora del giorno e della notte. Difficile dormire. Non restava, dunque, che aggirarsi, quatti quatti, per la cittadina assonnata ma sveglia, per osservare il paesaggio, la natura, le casette degne di una fiaba. Silenziosi come gatti.
Ecco, allora, apparirmi un tetto, due camini possenti, un’antenna televisiva, mura di legno colorate di rosso arancio intenso, folti alberi intorno. Dalle finestre si vede sicuramente il mare. Da dietro le tendine si percepisce il rumore delle onde, si sente il garrito dei gabbiani reali, si vedono le loro ali imponenti volteggiare nell’aria. All’orizzonte s’intravvedono le nubi, alba e crepuscolo non si differenziano, anzi si confondono e si baciano.

casetta-fiordiUna musica dolce, a basso volume, aleggia nell’aria intirizzita. Inge e Erik danzano, sfiorandosi appena. Su quelle note si sussurrano dolci pensieri, delicate parole e sogni di una giovinezza perduta. Sono sposati da trent’anni, uniti, come due rose colorate teneramente abbracciate, inseparabili, legate, incollate, intrecciate, sempre insieme, vicine vicine. Come due amici gentili affiatati, inseparabili dai giorni dei primi banchi di scuola. Si amano da sempre, senza condizioni, senza dubbi, senza esitazioni, senza paura, senza remore, senza tregua, senza fine.

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Fiordi, cielo, mare e case

Non hanno mai lasciato quel paesino avvolto nel fiordo, o forse sì, sono andati solo un paio di giorni, qualche anno fa, nella vicina Russia, attraversando un confine labile, e solo per la curiosità di sapere cosa c’era dall’altra parte. Sempre insieme, solo loro, Inge e Erik, Erik e Inge. Senza figli, perché mai arrivati, nonostante i numerosi tentativi.
Per anni hanno vissuto di una copiosa pesca, delle notti passate a cercare di sopravvivere di merluzzi, halibut e salmoni. Erik partiva, Inge attendeva. La fioca e romantica candela era sempre presente, accesa sulla finestra, perché la luce guidasse il loro amore unico e indistruttibile, perché la speranza di giorni migliori illuminasse le loro anime comunque serene, candide e felici. Una coppia come poche.

casetta-fiordiHanno sempre contato solo su sé stessi, pochi amici, pochi svaghi, poche frivolezze. Solo lavoro, casa, fatica, impegno, dedizione, serietà. E poi giardino, alberi, orto. Sentivo quella musica, vedevo quella danza, toccavo quegli abbracci, sfioravo quei pensieri, percepivo quell’energia, attraversavo quel vortice di amore. Felice.
L’amore abitava in quella casa, lo sentivo, lo vedevo, lo immaginavo, lo sapevo. Ne ero avvolta, inebriata, confusa, stordita. Bastava, e basta, davvero poco, nella vita.
C’è casa quando c’è amore. La casa può essere anche solo fatta delle braccia della persona amata che ti accoglie. C’è casa ovunque tu lo voglia… basta saperla riconoscere. E, passeggiando per quelle stradine, con il vento fra i capelli, l’avevo riconosciuta. Improvvisamente, in un attimo fuggente che sarebbe diventato per sempre.

Fotografie di Simonetta Sandri: Kirkenes, Norvegia e Mosca, Orto botanico

LA SEGNALAZIONE
Io sto con la sposa, “la nuova estetica della frontiera”

“Scusate potreste indicarmi il binario per la Svezia?”. Questo è l’incontro alla stazione Porta Garibaldi di Milano fra Gabriele Del Grande, giornalista e scrittore, Khaled Soliman Al Nassiry, poeta ed editore, Tareq Al Jabr, poeta e traduttore, e Abdallah Sallam, studente universitario di lingua e letteratura inglese, superstite del naufragio dell’11 ottobre 2013 a Lampedusa, che li ha avvicinati sentendoli parlare in arabo.

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Al Festival del cinema di Venezia

Così inizia il viaggio di “Io sto con la sposa”, un film senza dialoghi né personaggi, un documentario che parla di un sogno, un progetto politico di disobbedienza civile. Presentato nella sezione Orizzonti – Fuori concorso alla 71° Mostra del Cinema di Venezia, si è aggiudicato tre dei premi collaterali: il Premio Fedic (Federazione italiana dei cineclub), il premio Hrns (Human rights nights award) per il Cinema dei diritti umani e il Premio di critica sociale Sorriso diverso Venezia 2014. È stato proiettato al cinema Boldini nell’ambito della rassegna “Oltre la frontiera”, ideata in occasione del 18 Ottobre, Giornata europea contro la tratta di persone, e del 25 Novembre, Giornata internazionale contro la violenza alle donne.

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Un fotogramma del film

Come aiutare un gruppo di profughi siriani e palestinesi in fuga dalla guerra a raggiungere la Svezia? Ecco l’idea: un corteo nuziale, quale poliziotto di frontiera chiederebbe i documenti a una sposa e al suo corteo nuziale? Abdallah sarà lo sposo, Tasnim, un’amica siriana con passaporto tedesco anche lei appena fuggita lasciando parenti e amici, la sposa. Nel corteo nuziale Ahmad Abed e Mona Al Ghabra, marito e moglie, Alaa Al-Din Bjermi e il figlio Manar, alcuni amici fidati dei registi che accettano di aiutarli nell’impresa e i componenti della troupe che riprenderà il viaggio per farne un film.
Il ritrovo è all’alba del 14 novembre 2013, davanti alla stazione centrale di Milano, sono tutti vestiti eleganti come se stessero davvero andando a un matrimonio. In quattro giorni attraverseranno l’Europa a piedi, in auto e in treno, per arrivare a Stoccolma esausti ma felici e pieni di speranze il 18 novembre. Il percorso non è quello solitamente seguito da chi tenta questo viaggio perché le tappe sono scelte in base ad una rete di contatti e amici disposti a ospitare l’insolita carovana: da Milano a Marsiglia, passando a piedi il confine con la Francia a Grimaldi Superiore lungo il sentiero usato quando i migranti eravamo noi italiani, poi a Bochum in Germania, Copenaghen e infine l’ultima frontiera verso Malmo e Stoccolma. Perché la Svezia? Lo spiega Valeria Verdolini, una delle invitate del corteo nuziale, sociologa del diritto, presente ieri sera in sala: “è il paese europeo dove l’iter per ottenere lo status di rifugiato politico è più veloce e, una volta ottenuto, si ha diritto a un alloggio e a un corso di svedese nonché al ricongiungimento con tutti i famigliari”. Il problema è che secondo la legislazione europea si può chiedere asilo in un solo stato dell’Unione, il primo in cui si viene identificati, per questo molti migranti sono costretti a rimanere clandestini fino al loro arrivo in Svezia, rimanendo così in balia dei contrabbandieri: “Può un uomo pagare il prezzo della propria morte?” sì chiede Ahmad.

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Una degli spostamenti in treno

“Quello che ci interessava raccontare era un viaggio condiviso, in cui non ci fosse un Altro da noi. Volevamo raccontare un’Europa diversa, dell’accoglienza”, afferma Veronica. Per cambiare le cose c’è bisogno di “un’assunzione di responsabilità”, proprio come quella di Khaled che il giorno della partenza, dopo cinque anni in Italia, riceve finalmente la nazionalità, o come quella dei 2617 produttori dal basso che attraverso la piattaforma Indiegogo hanno finanziato la produzione del film, ringraziati uno per uno nei titoli di coda. Il film centra pienamente l’obiettivo di trasformare i numeri in nomi propri, in esperienze di vita in carne e ossa, e raccontare “una nuova estetica della frontiera”: “nessuno può dirmi questo mare lui lo può attraversare, lui invece per attraversarlo deve morire”, il mare, il cielo, il sole, la luna sono unici “per tutta l’umanità”.

Il film è stato recensito da ferraraitalia in occasione della presentazione al Festival del cinema di Venezia [vedi]

La parola visiva di Federica Manfredini

A partire dagli anni Sessanta del secolo XX, tra l’ondata delle neoavanguardie (Sanguineti, Eco, Spatola, Zanzotto, il Gruppo 63, ecc.) e l’infanzia dell’era spaziale (Sputnik, Jurij Gagarin, John Glenn, la Nasa), la scrittura poetica sperimenta nuovi scenari sperimentali, in certo senso postfuturista.
Scrittura verbo-visiva l’ha definita il critico ed artista Lamberto Pinotti, oppure “Poesia Totale” (Spatola), più specificatamente si narra di poesia sonora, poesia tecnologica e poesia visiva (Perfetti, il Gruppo 70 ed altri).
La cosiddetta poesia visiva sostituisce il medium libro cartaceo con il medium quadro più parola, a volte eliminando persino le parole… Ferrara è stata una delle capitali internazionali di tale nuova poetica d’avanguardia; i vari Michele Perfetti, Federica Manfredini, Romolina Trentini, Luciana Arbizzani ed altri, lo stesso poeta sonoro Enzo Minarelli hanno operato ed operano in tale percorso, spesso mixato in modulazioni anche sonore, finanche nei bordi liminari della stessa pittura e letteratura sperimentale
Significativa fu ad esempio, in tempo reale – all’epoca – oltre alla Sala polivalente cult con diverse iniziative una rassegna Visual, a Ferrara presso la Stanza di San Giorgio, succinta ma indicativa panoramica dedicata alla poesia visiva da parte degli autori succitati, curata da Sergio Altafini: la Manfredini, in particolare, in tale mix presentò esperimenti di rara comunicazione, parole libere, riflesso della migliore neoavanguardia filtrata da un lirismo visivo-orale squisitamente femminile… e corrosivo.
Protagonista la poetessa anche in numerose pubblicazioni, come ad esempio per la rivista trimestrale Edigraf, 1985, 1989, 1995, ecc. diretta da Carla Bertola e Alberto Vitacchio.
Eloquentemente d’alta performatività, la poetessa nei suoi costanti, a suo tempo, live set, parola declamatoria e provocatoria anche, una anti-rima divertentissima.
Tra le varie pubblicazioni in tal senso, sonoro-totale, assolutamente memorabile e da ricordare, l’antologico Baobab n.21 del 1992, rivista fondata dallo stesso Spatola e Ivano Burani, su tape cassette (inclusi anche diversi altri protagonisti della scena ferrarese di cui prima).
Tutt’oggi, la compianta poetessa, scomparsa tragicamente nel 1997, splendidamente celebrata nel 2007 per la Biennale donna di Ferrara curata da Lola Bonora e Anna Maria Fioravanti dell’Udi, resta al vertice del fare poesia sperimentale, a Ferrara e non solo, postlineare, visiva e anche sonora.

Per ulteriori informazioni su mostre, cd, eventi nazionali e internazionali riguardanti Federica Manfredini, visita il sito di Ulu late 67 [vedi] e dell’Udi Biennale donna [vedi]

da “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, eBook a cura di Roby Guerra (Este Edition-La Carmelina, 2012)

IMMAGINARIO
Alfonso, ultimo duca.
La foto di oggi…

Compleanno di Alfonso II d’Este. Il 22 novembre 1533 nasce l’ultimo duca, al governo di Ferrara dal 1559 al 1597. La sua morte senza riconoscimento di eredi legittimi porta, infatti, alla devoluzione: il passaggio del territorio ferrarese al dominio dello Stato della Chiesa, di cui Ferrara era antico feudo. L’abito scuro, la barba e l’espressione seria di un figurante del Palio – Contrada di San Paolo – possono rievocare un’immagine giovanile del signore estense, che regnò in un’epoca dominata da grandi scosse, anche di terremoto. (Giorgia Mazzotti)

OGGI – IMMAGINARIO DUCALE

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Rievoca la figura di Alfonso II d’Este un figurante della Contrada di San Paolo al Carnevale rinascimentale del Palio di Ferrara (foto di WERTHER ROMANINI)
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Ritratto di Alfonso II d’Este di Cesare Aretusi

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]

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GERMOGLI
Ammonimenti.
L’aforisma di oggi…

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

eliotmdPapa Francesco ammonisce le sue parrocchie perchè eliminino la lista dei prezzi dei sacramenti.

“È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?”. (Thomas Stearns Eliot)