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Giorno: 23 Novembre 2014

Quando la storia non è ancora Storia ma ‘vita che accade’

La storia con la ‘S’ maiuscola è quella scritta nei libri di scuola, nei saggi e nelle interpretazioni dei grandi storici, quella dei cosiddetti ‘fatti oggettivi’ e delle cosiddette ‘cesure storiche’: 476, caduta dell’Impero Romano e fine della storia antica; 1492, scoperta dell’America, fine del Medioevo e inizio dell’epoca moderna. Ma un impero può cadere in un anno? Può da un anno all’altro cambiare il modo di pensare se stessi e il mondo? Chi quegli anni li ha vissuti si è reso conto di vivere la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra? È qui che entra in gioco la storia con la ‘s’ minuscola, cioè le esperienze e i pensieri dei singoli che hanno vissuto in quei concitati e confusi periodi storici. Spesso queste tante ‘s’torie si ritrovano nei diari che per un motivo o per un altro sopravvivono ai loro autori e vengono conservati in archivi e musei, oppure vengono pubblicati.

Nei giorni scorsi al Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara è stata presentata proprio una di queste testimonianze, il libro dal titolo “Giulio Supino. Diario di una guerra che non ho combattuto. Un italiano ebreo tra persecuzioni e Resistenza”, curato da Michele Sarfatti (Firenze, Aska, 2014).
Figlio di Igino Benvenuto Supino, famoso pittore e studioso fiorentino di Storia dell’arte, Giulio sceglie le materie scientifiche e si laurea a Bologna prima in Ingegneria civile (1921) e poi in Matematica (1923). Sempre a Bologna, dopo aver servito come ufficiale di artiglieria nella I Guerra mondiale, inizia la sua carriera universitaria che deve però lasciare a causa delle sue origini ebraiche. Proprio dal 1938, anno delle leggi razziali, inizia a tenere questo diario che, in origine, non è destinato alla pubblicazione, ma “non è nemmeno un diario intimo”, dice Sarfatti: “è il diario della vita che accade, mentre lui stesso la vive”. Per questo nel diario leggiamo la storia nel suo farsi, prima dell’interpretazione storica, gli eventi e gli effetti sul vivere quotidiano, l’incertezza e le ipotesi per quello che potrà succedere. Ma a colpire è soprattutto il modo in cui tutto ciò viene narrato. Ad esempio, riportando ciò che viene a sapere degli arresti di ottobre a Ferrara e dell’eccidio del Castello di novembre 1943, scrive: “fucilati per modo di dire, perché sono stati assassinati per la strada”. Un altro passo sorprendente è quello riguardante il periodo successivo il 25 luglio quando, sottolinea Sarfatti, “si tenta di capire la natura del nuovo governo, che non è più fascista, ma non per questo si può dire che si antifascista”. Nel diario sono contenute alcune riflessioni sull’abolizione delle leggi razziali: per Supino è necessario che il governo italiano le abroghi autonomamente e non come condizione dell’armistizio perché “gli ebrei italiani non devono apparire protetti inglesi o americani, ma liberi italiani”, in altre parole è la comunità di appartenenza che deve garantire i diritti, se questi diventano una concessione fatta per intercessione di altri, in futuro sarà facile revocare di nuovo tale concessione. L’unico accenno alle difficili condizioni e ai pericoli costanti di una “clandestinità doppia”, come antifascista e come ebreo, è quello dell’11 agosto 1944: “Manuela (così chiamavano in famiglia la figlia Valentina, ndr) è salva!”.
Ascoltando la presentazione di Michele Sarfatti, mi sono tornate le parole di James Edward Young in “Writing and rewriting the Holocaust. Narrative and the consequences of interpretation”: analizzando i diari e delle memorie della Shoah l’autore sottolinea che chi scrive queste testimonianze, nella maggior parte dei casi, desidera preservare nella narrazione quella discontinuità che conferisce agli eventi narrati il loro carattere violento, quel senso di disorientamento che sta provando o ha provato ed il suo legame personale con gli eventi. Questa discontinuità è la stessa che esiste fra il titolo di questo scritto, “Diario di una guerra che non ho combattuto”, pensato da lui stesso in un momento successivo alla redazione, e le parole di introduzione: “voglio raccontare come ho visto una guerra che non si doveva fare”.

LA CURIOSITA’
E’ arrivata l’anti-Barbie: in carne, make up minimo e anche un po’ di cellulite

Lammily non è così perfetta, un sollievo per molte ragazze normali, come noi. Ha un’altezza media (l’equivalente, in proiezione, di non più di 160 cm e lontana dai 175 cm che le riviste indicano per le donne ‘perfette’) ed è leggermente sovrappeso (anche qui, oltre i 50 kg della ‘perfezione’ patinata), come molte ragazze americane e non solo.

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Il viso di Lammily

Ha, poi, i capelli lunghi, neri e setosi, la pelle bianca con qualche traccia di acne, accenni disegnati di cellulite, piccole smagliature. E’ insomma più vera e umana. Nulla di più lontano dalla solita e stereotipata Barbie, perfetta, bionda, sorridente, alta, proporzionata, magra e longilinea, alla quale eravamo abituate. Ma di che si tratta?

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Lammily ha le misure di una donna media

Parliamo di lei, la bambola in vendita online in America, creata dall’artista e designer di Pittsburgh, il venticinquenne Nickolay Lamm (dal quale deriva, evidentemente, il nome della bambola), che aveva annunciato di voler creare e produrre una bambola dalle proporzioni più ‘umane’ rispetto alla classica Barbie, che rispecchiasse, davvero, la donna statunitense media. Il progetto era partito con un crowdfunding di $95,000 sul website Kickstarter, per finanziare la creazione di 5000 bambole. Andato a buon fine, ben oltre le aspettative. Lamm, che ha confessato come molti genitori gli avessero chiesto di realizzare una ‘creatura’ simile, più vicina alla realtà, è stata appena stata lanciata sul mercato, e con lei una serie di accessori che rappresentano alcune imperfezioni della bellezza femminile: acne, cicatrici, smagliature, cellulite e tatuaggi.

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In costume

La missione è, pare, quella di restituire un’immagine positiva di sé stesse alle ‘imperfette’ teenager Usa e del resto del mondo e avere un giocattolo che assomigli un po’ di più alla ‘ragazza della porta accanto’. Oggi ne sono stati venduti 20000 esemplari. Lammily rappresenta, per il suo faber, l’idea che le proporzioni medie tipiche e reali sono belle. D’accordo, sul principio. Sulle modalità, de gustibus, si direbbe da noi.
Modo originale per alcuni e opinabile per altri (oltre che abilmente commerciale), di dimostrare questo concetto basilare, ma noi non possiamo che prenderne nota. Ai posteri l’ardua sentenza.

La bambola ha capelli lunghi bruni e make up minimo, le proporzioni di una diciannovenne, acne e tatuaggi. Promuove uno stile di vita salutare, con gambe e braccia movibili, ma può indossare tacchi e gonna.

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Tatuata
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Conduce una vita sana
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Con tacchi e tubino

LA RICORRENZA
Uscire dal silenzio per rompere la catena della violenza

Non ricordo che mese fosse, forse novembre, proprio come oggi. Comunque faceva freddo. Avevo vent’anni ed era finito il mio primo grande amore. In un momento di romantico struggimento ero andata a fare una passeggiata fuori stagione al Lido di Spina, là dove tante volte ero andata con lui.
Dopo un po’ che camminavo da sola sulla spiaggia, ho notato che poco più in là c’era un uomo che mi seguiva. Mi sono fermata per guardarlo perché mi stava dicendo qualcosa. Quando sono riuscita a capire che quel che mi stava urlando erano minacce e oscenità, si è abbassato i pantaloni. Non c’era nessuno attorno e io ho iniziato a correre per tornare all’auto. Quando l’ho raggiunta, ho fatto una brutta scoperta. Mi avevano tagliato due gomme. Nel frattempo l’uomo era arrivato, e assieme a lui ce n’erano altri due. Ho ricominciato a correre e ho raggiunto il primo stabilimento balneare, dove c’era il proprietario che stava facendo dei lavori. Gli ho chiesto aiuto. Mi ha fatta entrare, ed è uscito facendo scappare i tre. Poi mi ha aiutato a cambiare le ruote.
Ho percorso la superstrada fino a Ferrara piangendo, di rabbia e di paura per quel che mi era successo e per quel che sarebbe potuto succedermi.
Sono andata subito a esporre denuncia alle forze dell’ordine. Mi sono state chieste alcune cose e poi alla fine una domanda: ma lei cosa ci faceva in spiaggia da sola?
Ci sono storie ben più tragiche della mia, purtroppo. Se racconto pubblicamente questo aneddoto del mio passato, è per i seguenti motivi.

Le violenze subite, di qualunque genere, vanno condivise, sempre. E denunciate. Potrebbero salvare noi, ma anche altre donne. Parlarne fa bene, libera da un peso, fa sentire meno sole. E permette di trovare persone in grado di aiutarci. Va scardinato il retaggio del “te la sei cercata”.
Ogni donna dovrebbe poter camminare sola su una spiaggia fuori stagione, o dovunque abbia voglia o bisogno di andare, senza essere importunata e senza che nessuno le chieda perché lo fa. Deve essere libera di farlo e basta.
Sono passati tanti anni da quell’episodio e oggi la sensibilità e la preparazione al tema all’interno delle forze dell’ordine sono aumentate. Sono stati creati reparti speciali, e azioni mirate per tutelare le donne. Ma i casi di violenza sono tanti, e a volte si rischia di non dare loro la necessaria attenzione, come è accaduto lo scorso anno, in provincia di Siracusa, ad Antonella Russo, che aveva denunciato il marito per stalking, ed una settimana dopo lui le ha sparato, uccidendola. Poi si è suicidato. Una delle figlie, Desirée, vorrebbe entrare in polizia per difendere tutte le donne che non sono state credute. L’altra figlia, Nancy, ora studia Giurisprudenza a Ferrara perché vuole fare il magistrato. E ha deciso di fare causa allo Stato perché dice che tutto questo si poteva evitare.

Il 25 novembre è la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ferrara ha deciso celebrarla in anticipo, ieri. Un percorso fatto di scarpette rosse, simbolo della violenza, ha segnalato il cammino che, dallo scalone del municipio, bisognava percorrere per arrivare al mercato coperto, sede dell’incontro pubblico. Un ideale collegamento tra istituzioni e cittadinanza. Perché solo una rete di solidarietà può risolvere il problema. Di seguito il percorso per immagini.
Durante l’incontro è stato mostrato un video realizzato da Area Giovani, dove i capigruppo del Consiglio comunale, gli assessori e il sindaco ci mettono la faccia per dire no alla violenza di genere [vedi].

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Indicazioni del percorso
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Scalone municipale
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Via Garibaldi
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Portici del mercato coperto
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Mercato coperto
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L’incontro
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Le istituzioni
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Le associazioni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Le scarpe rosse

 

 

 

 

 

“In Italia secondo l’Eures, tra le donne c’è una vittima di femminicidio su tre, per questo siamo qui oggi, e nelle scuole, nelle associazioni, nei luoghi dello sport”, ha affermato l’assessore per le pari opportunità Annalisa Felletti.

“Non è sufficiente una trasformazione individuale, ma è necessaria una trasformazione collettiva”, ha detto il sindaco Tiziano Tagliani.

“Quelli che arrivano da noi non sono mostri, sono uomini normali, come quelli che incontri al bar o con cui esci a cena. Noi li aiutiamo a imparare a rispettare sé stessi e di conseguenza le donne che hanno accanto”, ha spiegato Michele Poli del Centro di ascolto uomini maltrattanti.

“L’unica cosa per rompere la catena, è rendere pubblico il fenomeno della violenza, noi siamo un centro pronto ad accogliere ogni richiesta di aiuto che arrivi da una donna”, ha esortato Paola Castagnotto del Centro Donna Giustizia.

In caso di violenza, subita o vista, si può chiedere aiuto e denunciare. Per sé, per le persone che ci stanno attorno, ed anche per quelle che non conosciamo.

Centro Donna Giustizia, via Terranuova n°12/b, Ferrara centro@donnagiustizia.it 0532 247 440 Numero telefonico unico “antiviolenza donna”: 1522. Numero verde contro la tratta: 800 290 290. Il servizio offre informazioni e consulenza a persone che si prostituiscono e alle vittime della tratta , agli operatori pubblici e privati e alla popolazione in generale.

Centro di ascolto uomini maltrattanti, viale Cavour 195 339 892 6550 ferraracam@gmail.com martedì 17 – 19,30 venerdì 10,30 – 13

Polizia di Stato: numero d’emergenza 113, Corso Ercole I d’Este 26, Ferrara 0532 294 311 urp.quest.fe@pecps.poliziadistato.it

Carabinieri: numero d’emergenza 112, via Del Campo 40, Ferrara 0532 6891 stfe522180@carabinieri.it

 

 

 

L’INTERVISTA
Il rapimento Moro: Gotor ‘E’ il momento di cedere il passo alla ricerca storica’

Dal rapimento e dalla morte di Aldo Moro sono trascorsi ormai 36 anni. In questo arco di tempo si sono svolte ben otto inchieste giudiziarie, con un non processo ancora in corso, e hanno lavorato due Commissioni di inchiesta parlamentare, dotate di poteri inquirenti, che hanno raccolto una gran mole di testimonianze e di documenti. Miguel Gotor, docente di Storia moderna all’Università degli studi di Torino, è il curatore di “Lettere dalla prigionia”, l’edizione critica delle missive scritte dal segretario della Dc durante il suo rapimento, e autore di “Memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano”, entrambi editi Einaudi. Nella veste di senatore Pd è stato poi il relatore della legge che a maggio ha istituito una nuova commissione d’inchiesta sul caso Moro.

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Miguel Gotor

Nonostante ciò nel suo intervento al terzo appuntamento del ciclo “Passato Prossimo” [vedi] ha affermato che ormai è finito il tempo della giustizia e della politica, è arrivato il momento di cedere il passo alla ricerca storica. Abbiamo colto l’occasione per fargli alcune domande proprio sui temi della storia e della memoria sul caso Moro: “storia e memoria non devono essere identificati, sono due concetti diversi.
Se abbiamo coniato due termini così impegnativi, significa che come comunità umana siamo consapevoli che sono come i binari di un treno: corrono insieme, ma sono destinati a non incrociarsi mai, perché quando si incrociano il treno deraglia”.

Senatore, riguardo le prime ricostruzioni di quei 55 giorni cruciali per la storia italiana, lei ha parlato di una “dittatura della testimonianza” e di un Moro “prigioniero della memorialistica dei suoi carcerieri”…

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Lettera a Zaccagnini scritta da Aldo Moro durante la prigionia

È un doppio paradosso che mi ha spinto alla ricerca. Come cittadino ho notato che Moro continuava a essere prigioniero di due attitudini. La prima era quella della dietrologia, cioè un racconto sempre più fantastico, irrazionale, dove si mescolavano spesso anche in modo sapiente, cioè con finalità di depistaggio, il vero, il falso e il verosimile. Questo impediva e continua a impedire una ‘comprensione pacata’ di quella tragica vicenda e la ricostruzione di una verità storica credibile. La seconda era relativa appunto alla memorialistica: negli anni ’90 una serie di brigatisti protagonisti diretti del sequestro Moro iniziano a scrivere libri-interviste o libri di memorie, a me è sembrato che fosse come se giocassero al gatto con il topo. Essendo morto il testimone integrale di questa tragedia, cioè Moro, toccava in sorte ai suoi carnefici continuare a tenerlo prigioniero attraverso l’elaborazione di una memoria scivolosa, ambigua, reticente, in alcune parti anche falsa. Perciò mi sono detto che valeva la pena che la storia provasse a dire la sua.
C’è poi un altro tipo di prigionia: come spesso accade in Italia, si schiaccia la complessità del personaggio storico e politico sul racconto della “eccezionalità della sua morte”, come dimostra il fatto che gli studi sulla vita di Moro prima di quei terribili 55 giorni sono ancora in una fase embrionale.

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Aldo Moro

Sì, la conseguenza è stata una straordinaria rimozione del Moro che vive 62 anni da uomo libero e gli ultimi 55 giorni da prigioniero, perché non bisogna mai dimenticare la differenza di queste condizioni. Quei 55 giorni è come se continuassero a schiacciare la storia di uno dei più grandi protagonisti dell’Italia repubblicana, non solo sul piano politico, ma anche su quello della riflessione intellettuale e su quello della capacità di tenere insieme riflessione intellettuale e culturale e impegno politico, con una straordinaria attenzione a tutto ciò che di nuovo fermenta in una società tumultuosa come quella dell’Italia di quegli anni.

Giovanni De Luna nel suo volume “La Repubblica del dolore” ha parlato di ‘paradigma vittimario’, Lei condivide questa interpretazione della costruzione della narrazione memoriale in Italia, soprattutto per gli eventi del Secondo Dopoguerra?
Sì, è una riflessione molto interessante sul tema delle vittime che producono dei nuclei di pensiero che rischiano rendere più difficoltosa la conoscenza storica, ad esempio sui processi che le hanno rese tali. Il paradigma vittimario è come un gigantesco scoglio che si frappone fra la vita e la conoscenza, ma il navigatore lo deve saper affrontare perché è inevitabile: lo deve osservare con straordinaria attenzione per poi riuscire a circumnavigarlo. Nessuna vittima vive la sua vita pensando di essere tale, bisogna impegnarsi a ricostruire e comprendere il processo che le rende tali. C’è poi anche la questione che riguarda l’uso pubblico della storia: il paradigma vittimario in questo senso serve per forgiare una memoria condivisa e questa interessa moltissimo alla politica, ma riguarda la politica non la storia. Anzi il fascino della ricerca storica è proprio il riconoscimento dell’esistenza e della legittimità di memorie diverse e divise, per poi riuscire a formulare un giudizio storico unitario. È questo che fa crescere sul piano civile una comunità, non la melassa di una memoria condivisa pedagogicamente imposta.

Pochi eventi hanno potuto godere di una mobilitazione giudiziaria e politica come la vicenda Moro, lei oggi ha parlato della ricerca storica come unica strada ormai percorribile. Esiste un problema di fonti?
In questi 36 anni c’è stata una grande attenzione sia da parte della magistratura, si sta ancora svolgendo il nono processo, sia da parte della politica con diverse commissioni d’inchiesta. Secondo me la quantità della documentazione raccolta anche grazie a questo impegno è rilevante, se consideriamo che ci troviamo di fronte a un sequestro e un omicidio politico che è avvenuto mi verrebbe da dire ‘appena’ 36 anni fa, diverso è il discorso sul tema della qualità. Le carte, sul piano quantitativo, secondo me sono sufficienti per dare dignità storiografica a questa vicenda.

Con l’ultima domanda torniamo finalmente al presente. Lei ha descritto il progetto di cambiamento e di riformismo di Aldo Moro come il rafforzamento della democrazia “allargandola”. Il suo partito e il suo segretario secondo lei sono su questa linea?
Il cambiamento per il cambiamento in Italia rischia di essere una forma di gattopardismo. A me piacerebbe che quando parliamo di riforme e di cambiamento qualificassimo la direzione, la qualità, l’orientamento di quest’azione: ad esempio i diritti possono essere ristretti o allargati, è comunque un cambiamento, il punto è cosa dovrebbe fare una forza democratica, progressista, di centro-sinistra come il Partito Democratico. Mi piacerebbe che si uscisse da un’idea di Pd come grande contenitore indifferenziato, crocevia di tutte le correnti, perché il rischio è diventare due cose: luogo del consociativismo o luogo del trasformismo. Se il Pd si trasforma in un ricettore di queste due consolidate attitudini italiane, da fattore di cambiamento rischia di trasformarsi in un fattore di conservazione.

SETTIMO GIORNO
Viva il Po, il Colesterolo buono e il saluto a Max-media

IL COLESTEROLO BUONO – A volte mi capita di pensare anche guardando la televisione e questo non è bene, non pensare è la condizione ideale per accogliere le miriadi di immagini e di notizie che appaiono sul piccolo schermo, ma io sono un pessimo teledipendente e così, sfidando le orribili pene che vengono comminate a chi tenta di stravolgere le regole ferree della televisione-madre, penso. E stavo pensando due giorni fa quando improvvisamente in uno dei tanti sbrodolamenti politici mi appare, chi mi appare?, la Santanchè. Nooo, la Santanchè?, si la Santanchè, con la sua bocca larga da cui escono parole incontrollate ma, evidentemente, molto gradite ai capi, suoi e nostri, e dalla bocca larga sono uscite dichiarazioni degne non so di che cosa, ma, visto come l’ascoltavano i presenti alla trasmissione, dovevano essere degne di grande considerazione. Sintetizzando, ha detto che praticamente tutto quello che accade di male nel nostro Paese è causato dalle ideologie. Naturalmente dalle ideologie degli altri, dei suoi nemici. E allora no alla giustizia sociale, no a considerare tutti gli uomini uguali, no a trovare inammissibile che tutto l’oro del mondo sia nelle mani di uno sparuto gruppetto di ricchi assatanati. Queste sono le ideologie da eliminare, ma sono da corroborare quelle secondo le quali i ricchi devono essere ricchi, i poveri poveri, giusto che diventi ricco e potente chi è più forte, i deboli al massimo possono chiedere l’elemosina, queste sono le ideologie da santificare, sono, come direbbe un medico, il colesterolo buono della società. E vai, Santanchè!
VIVA IL PO – Viva il Po che non ha fatto come I suoi piccoli colleghi parmensi, genovasi, toscani, i quali presi da incontenibile boria e mania di grandezza sono usciti dagli argini, inondando case, fabbriche, distruggendo culture agricole. No, il Po si è comportato da grande fiume, è rimasto a braccia conserte nei suoi baluardi, smontando le ansiose attese dei colleghi tele-giornalisti, i quali erano lì, microfono in mano, a contare i centimetri che mancavano all’esondazione. Che scoop poter urlare in diretta che il grande fiume sta uscendo dagli argini, mancava soltanto che gli inviati litigassero apertamente tra loro e urlassero “il mio rischio è più grande del tuo!”, “la mia è vera esondazione” (inondazione è parola ormai arcaica) e, poi, con voce strozzata, riciclata dai telecronisti sportivo, “è gol, è gol, stupendo gol del Po!”. Niente, il fiume li ha fregati tutti, ha fatto passare, buono buono, le ondate di piena, incurante delle grida giornalistiche “ma ce n’è un’altra in arrivo, il rischio cresce!”.
MAX-MEDIA – E’ morto un mio vecchio compagno (mi si lasci usare ancora una volta questa parola prima che mi si secchi la gola). E’ morto in silenzio, era vissuto in silenzio, facendo traboccare soltanto la sua grande bontà. Il compagno Lino, Lino Malagutti, era stato un grande socialista, quand’era nella Cgil era stato mandato anche in Sicilia per tentare di aiutare le lotte degli operai, erano i tempi in cui i nobili e i signori di varia specie sovvenzionavano il banditismo (vedi Portella delle Ginestre) contro i lavoratori, con la benedizione di una Dc a cui Dio aveva già tolto il saluto. Con Lino, quando la sinistra italiana aveva cominciato a dar segni di scompenso intellettuale, avevamo gettato le fondamenta ferraresi di Rifondazione comunista. La follia ci colse una sera di freddo autunno in un locale del borgo San Luca, eravamo in quattro, Cavazza, Lino, io e un altro che non vorrei citare, eravamo colmi di vane speranze: una notte vera, mi dicevo. Ancora una volta sbagliavo. Ma con Lino continuammo nelle nostre sventurate lotte, poi, lentamente, ognuno ha preso la propria strada, forse non era la migliore. Ridevo con Lino quando diceva “tu che fai parte dei max-media…” e io “mass-media” e lui “no, Max era un nostro bravissimo compagno e quelli lì io li chiamo Max-media”. Grande Lino, hai finito di fare politica, ma, davvero, devi convincerti che non c’è più bisogno di bravi compagni. Ti saluto col pugno chiuso.

Tutta la luce che si può

Il suo nemico è Ulisse Ruiz, astuto, imbroglione seriale pronto a tutto. Lui di cognome fa Quondam che, in latino, significa un tempo indefinito. Stefano Quondam si trova a fare i conti con il suo tempo a disposizione destinato a finire troppo in fretta perché suo figlio Marco, adolescente, è affetto da progeria, una malattia che il tempo lo divora. Marco invecchia fisicamente di otto anni ogni anno. Una velocità contro natura e fin troppo misurabile, un tempo che ti si schiaccia addosso con tutta la sua pesantezza e non vola più leggero come dovrebbe essere a quell’età.
Che senso hanno avuto le corse e i traguardi di Quondam di fronte a un destino che mostra la fine poco più in là?
Il tempo per Marco si sta riducendo al lumicino, Quondam deve provare a espandere questa luce e farla diventare fiamma, bellezza e risposta alla paura di tutti e due. Quondam è un docente di letteratura greca e cerca questa risposta, assieme a Marco, in quel mondo, nei poeti lirici, in Omero e negli autori tragici che hanno saputo mettere l’uomo al centro di tutto: sentimenti umani, dolori, fughe, morte, paura, compassione. L’uomo di allora trovava se stesso in quelle liriche e vedeva se stesso rappresentato su quelle scene. Quondam sa che è ancora così, la natura umana è sempre la stessa, si vive ancora di umanità e ipocrisia, vendetta e disperazione, dolcezza e passione. Vuole lasciare un dono a Marco, “l’orgoglio di essere uomini e di vivere in questa rivelazione; perché non importa quanto si vive, ma con quanta luce dentro, senza rimpiangere e senza piangere”. Quondam legge al figlio Saffo, Alceo, Archiloco, Euripide e Omero e gli parla di Aiace, l’eroe che con coraggio percorse la sua strada di valore e con libertà si uccise.
Ma Marco chiede vita, non letteratura, chiede di non finire così presto. Quondam risponde che non può dargli cose, può solo insegnargli “la bellezza di vedere e di amare”, l’attenzione alla luce percependo il tempo attraverso le emozioni che lo possono dilatare e non nell’angoscia di uno scorrere troppo lento o troppo veloce che sia.
Dopo la morte di Marco, Quondam Aiace perderà la sua battaglia professionale con il collega Ulisse a cui è affidato un ruolo prestigioso, e come Aiace compirà la sua follia, il suo atto di coraggio e di rabbia contro tutti, preda di fantasmi, scambiando sogno e realtà.
E come è stato per Marco che, prima di morire, non ha avuto più paura, per Quondam arriva il momento di non avere più paura di vivere.

“Il mercante di luce”, Roberto Vecchioni, Einaudi, 2014

La sconcertante attualità di ‘Filumena Marturano’

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
Filumena Marturano, regia di Cristina Pezzoli, Teatro Comunale di Ferrara, dal 6 al 10 dicembre 2000

Filumena Marturano è uno dei personaggi più straordinari di tutto il teatro italiano. Nata dalla penna del grande Eduardo De Filippo nell’aprile del 1945, Filumena rappresenta in qualche modo la donna-prototipo dell’emancipazione: quella autentica. E al femminile è la regia di questa nuova messa in scena allestita in occasione del centenario eduardiano: Cristina Pezzoli. La quale così commenta la propria rilettura: “Penso in primo luogo alla recitazione, ma anche allo spazio scenico e alla possibilità di sottrarlo ad un certo realismo, di provare a simbolizzare nella scenografia, con ‘leggerezza’, certi nuclei tematici profondi di scrittura: il ‘ring’ su cui si battono Filumena e Domenico assistiti dai loro ‘secondi’ Rosalia e Alfredo, nel primo atto; il ‘trasloco’ in cui incessantemente vagano tutti i personaggi del secondo atto, come se la casa perdesse la sua rassicurante identità per trasformarsi in un labirinto in cui nessun posto appartiene più per davvero a nessuno e dove non è possibile per nessuno fermarsi; l’happy end del terzo atto in cui si ricompongono, con pudore, i conflitti senza enfasi ma con struggente tenerezza e Filumena che corona con il matrimonio il suo sogno di “dignità”, come una buffa Cenerentola che arriva al ballo del principe con le scarpe nuove troppo strette”.
A distanza di molti decenni dal debutto, con l’indimenticabile Titina De Filippo nel ruolo della protagonista, la compagnia “Gli Ipocriti” ripropone il celebre dramma con l’interpretazione di Isa Danieli e Antonio Casagrande, attorniati da uno stuolo di comprimari di riguardo e assistiti per le scene e i costumi da Bruno Buonincontri, dalle luci di Cesare Accetta e con le musiche di Pasquale Scialò. Cristina Pezzoli ha il coraggio di allestirne una versione in qualche modo ‘tradizionale’, sebbene priva di vacue imitazioni e curandone quasi maniacalmente i particolari. “C’è ancora tanto da raccontare di questo testo, se si supera la “sindrome da confronto” che può originare solo il fantasma sterile e deleterio del tentativo di variazione virtuosistica”: afferma la regista di questa edizione del Centenario (della nascita di Eduardo De Filippo) di “Filumena Marturano”. Infatti, è impensabile porre termini di paragone.
Macchinose ma al contempo ingegnose ed efficaci le scene di Bruno Buonincontri, originali nel loro arrangiamento ‘contemporaneo’ le musiche di Pasquale Scialò, adeguate le luci di Cesare Accetta. Ma alla fine a spuntarla su tutto è lo strepitoso copione del grande Eduardo, un testo ancora di un’attualità sconcertante, denso di valori umani che oggigiorno, purtroppo, si ritrovano quasi solo a teatro.

GERMOGLI
Fobie alimentate.
L’aforisma di oggi…

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

BaumanIl vento della fobia armato per un fittizio bene comune.

“Non occorre essere diplomati in arte della navigazione per gonfiare le vele del “bene comune” con il vento, alimentato dalla paura, della fobia verso gli stranieri”. (Zygmunt Bauman)

IMMAGINARIO
Festival vintage.
La foto di oggi…

Un tuffo tra dischi in vinile, jeans a zampa di elefante, selezioni di moda e oggetti del secolo scorso. A offrirci questo piccolo viaggio nel tempo è il festival “Officina del vintage”, organizzato all’interno degli imbarcaderi del castello estense. Tra le iniziative di oggi il set fotografico di Giacomo Brini e Rita Bertoncini per un ritratto d’epoca (ore 15-17) e l’incontro con la doppiatrice Laura Boccanera (ore 17), che ha dato la voce a Candy Candy e Maria Antonietta nei cartoni animati di “Lady Oscar”. Ingresso a pagamento, largo Castello 1, ore 10-19,30.

OGGI – IMMAGINARIO EVENTI

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Anche un set fotografico con macchine d’epoca per il festival “Officina del vintage” a Ferrara dal 21 al 23 novembre 2014

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]