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Giorno: 19 Marzo 2015

Emilio Bulfon
l’uomo che sussura agli acini
alla scoperta dei vini perduti

“Antichi vitigni che sembravano scomparsi, fagocitati dai rovi e dall’incuria degli uomini, in un territorio storicamente vocato alla viticoltura, ma che la passione di Emilio Bulfon ha fatto rinascere a nuova vita”. Questo si legge sul raffinato sito che presenta i vini coltivati con passione e cura appunto dall’azienda del signor Bulfon. La piccola didascalia che introduce al suo regno è introdotta dal marchio di casata – un logo dipinto dallo stesso viticoltore – che riproduce una sorta di cenacolo, con Cristo e gli apostoli intenti nella mescita del vino. “Mi diletto di pittura e ho stilizzato un affresco medievale di una chiesa qua vicino, quella di Santa Maria dei Battuti. Ho scelto un particolare dell’Ultima cena di Cristo e l’ho riproposto in varie tonalità cromatiche per le nostre etichette”.

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Il logo della cantina Bulfon

Emilio Buffon è un eclettico, ma la sua vera passione è per l’uva. “Già mio nonno e poi mio padre coltivavano la vite e facevano il vino. Praticamente si può dire che sono nato e cresciuto in cantina”. Da quasi mezzo secolo produce vino nella sua azienda, a Valeriano, in provincia di Pordenone fra la medievale Spilimbergo e San Daniele del Friuli, celebre per l’omonimo prosciutto. “E’ una vita ormai, ho cominciato nel ’64, da Cividale mi sono spostato in questa zona per vinificare per altri produttori. Guardandomi in giro mi sono incuriosito di ceppi secolari coltivati da persone anziane. Lo facevano per autoconsumo, in tempi di miseria il vino è una risorsa importante. Quei vitigni erano mi erano sconosciuti e quegli uomini mi hanno permesso di prenderne le gemme. Il professor Costacurta mi ha aiutato a scegliere i cloni. Da lì è incominciato tutto”.
E poi com’è andata? “Molti si incuriosirono alla nostra ricerca, fra questi Luigi Veronelli e Bruno Pizzul. Ma i produttori non erano interessati. Così nel ’72 ho preso questo appezzamento e ho incominciato a produrre da me, con amore. L’ho fatto per il nostro territorio, per salvaguardare una delle sue tipicità, che sono nel vino, nella gastronomia e nell’arte”. E con grande saggezza aggiunge: “Ho capito una cosa in tutti questi anni: quando credi di sapere in realtà non sai niente”.

La particolarità di questa cantina sta proprio nella ricerca e nella riscoperta di antiche qualità, considerate a lungo perdute, che oggi invece si possono apprezzare ancora, grazie al lavoro del fondatore, unico a coltivarle dopo averle pazientemente recuperate.
I suoi vini hanno nomi inconsueti, derivazione diretta del dialetto friulano: in totale sono otto i vitigni autoctoni coltivati: i rossi Piculìt neri, Forgiarìn, Cjanoria, Cordenossa; i bianchi Ucelùt, Sciaglìn, Cividìn; e il Moscato rosa. Undici le varietà vinificate, fra cui cinque rossi, quattro bianchi (inclusi un frizzante e uno spumante) e un rosato. La produzione si arricchisce ulteriormente di tre grappe monovitigno. Le etichette sono tutte impreziosite dai disegni di Bulfon. “I clienti si aspettano che il vino sia sempre uguale. Ma non può essere così, il vino è vivo e cambia. Solo la chimica lo fa tutto uguale. Ma questo per molti è difficile da capire”.

I rari vini dell’azienda Bulfon sono stati presentati a Ferrara la scorsa settimana al ristorante ‘Le querce’ durante una cena-degustazione dell’Onav, l’Organizzazione degli assaggiatori che in provincia è rappresentata dal delegato Lino Bellini e dal segretario Ruggero Ciammarughi, con la collaborazione di Renzo Cervi di Anag (assaggiatori grappa). Grande in sala era la curiosità fra i convenuti, tutti appassionati di vini, che hanno potuto apprezzare sei differenti qualità, con pieno gradimento in particolare per Sciaglin frizzante, Cividin e Piculìt neri. Sono figli di quegli antichi vitigni coltivati per secoli sulle colline del Friuli occidentale, che fino a una trentina d’anni fa sembravano scomparsi.

onav5Emilio Bulfon, sorretto da tenacia e passione, con l’aiuto della moglie Noemi e dei figli Lorenzo e Alberta, ha il merito di avere ridato vita a ciò che si credeva perduto per sempre. E con la collaborazione degli esperti dell’Istituto sperimentale di Conegliano, con cura ha selezionato, reimpiantato, coltivato e vinificato quei tesori della sua terra. Un lavoro importante, il suo, sotto il profilo della cultura enologica e della tutela della memoria locale. Nel tempo sono giunti numerosissimi, autorevoli e prestigiosi riconoscimenti. Nel 1987 la provincia di Pordenone, riconoscendone il valore, gli ha conferito una medaglia d’oro, cui ha fatto seguito la benemerenza ricevuta nel 2010 nell’ambito di Vinitaly. Traccia di questa paziente e preziosa opera e dei ventiquattro vitigni autoctoni recuperati è conservata in un volume a carattere storico-scientifico intitolato “Dalle colline spilimberghesi nuove viti e nuovi vini”, curato dallo stesso Bulfon con Ruggero Forti e Gianni Zuliani.

L’azienda, immersa nel verde di Valeriano (frazione di Pinzano al Tagliamento), si compone della cantina, di un punto vendita con sala degustazioni e offre anche possibilità di alloggio agrituristico. I visitatori hanno l’opportunità di compiere visite guidate fra i vigneti e di fare escursioni in collina con la bicicletta. I dintorni sono suggestivi e conservano importanti tesori d’arte: il castello dei conti Savorgnan, un sacrario austroungarico, il ponte di Pinzano sul Tagliamento e un ambiente naturale sostanzialmente incontaminato. Alberta, la figlia di Emilio, storica dell’arte, è pronta ad accompagnarli in visita.
“Abbiamo grandi spazi – spiega il figlio Lorenzo -, l’estensione è di quasi sedici ettari, di cui nove coltivati a vigneto esclusivamente di varietà autoctone friulane recuperate. Il nostro tentativo è coniugare l’innovazione tecnologica in campo enologico con la valorizzazione del territorio”. La modernità, che sposa la tradizione nel rispetto dell’ambiente e della storia.

Il potere è donna: top ten
delle più creative di Russia

da MOSCA – Ci sono tante donne interessanti nel mondo, ci sono tante creative, anime fantasiose, ricche, curiose, capaci di contribuire alla vivacità culturale di città e nazioni. Ci sono musiciste di talento, bravissime artiste, belle modelle, competenti direttrici di musei, abili registe, ottime sceneggiatrici, fantasiose costumiste, decise produttrici televisive e cinematografiche.
Ce ne sono tante, tutte da scoprire. Le donne russe non fanno eccezione, negli ultimi anni hanno occupato sempre di più la scena culturale di un paese che alle donne lascia molto spazio. Abbiamo percorso la storia e la strada di alcune di esse (dieci), donne che stanno dando forma a un nuovo futuro creativo della Russia, con forza, energia e grande determinazione.

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Olga Sviblova

Prima tra tutte incontriamo Olga Sviblova, definita la gran dama del mondo delle gallerie moscovite (o la zarina della cultura russa), direttrice del Multimedia Art Museum Moscow. Riconosciuta da Vogue come nuova icona russa dello stile e guru della fotografia, Olga è cresciuta a Mosca al tempo di Breznev. Dopo un dottorato in Psicologia dell’Arte, dal 1987 al 1995, è stata autrice e regista di documentari, fra cui i premiati “Krivoarbatski Pereulok, 12”, sull’architetto russo Konstantin Stepanovič Mel’nikov, “The Black Square” sull’arte dell’Avanguardia russa (1953-1988). Dal 1996 al 2009 ha curato oltre 500 mostre di artisti russi in Russia e all’estero. Dal 1997 al 2008, è stata direttrice artistica di vari festival di fotografia. Nel 2007 e nel 2009 è stata responsabile del Padiglione russo all’Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia. Una donna che non si ferma mai.

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Marina Loshak

Per restare nel mondo dei grandi musei, Marina Loshak, nel mese di giugno 2013, è stata nominata direttrice di uno dei maggiori musei russi, il Museo statale Pushkin delle Belle arti, al posto della già nota e tenace Irina Antonova. Marina, che è anche membro del comitato di esperti del famoso premio Kandinsky, ha guadagnato grandi consensi per l’organizzazione dello spazio espositivo del prestigioso Maneggio, al centro di Mosca. Decisa.

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Alina Saprykina

Alina Saprykina è la direttrice del Museo di Mosca, un progetto che, dal 2008, ha riunito sei dei maggiori musei della capitale, con una grande varietà di mostre storiche. Arrivata in questa importante posizione grazie alla campagna del Ministero della cultura volta a portare nuovi talenti innovativi nelle iniziative pubbliche, Alina si era distinta come fondatrice di Artplay, il centro di design della capitale, considerato un’autentica fucina di talenti. Creatrice di ‘art cluster’.

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Varvara Melnikova

Varvara Melnikova dirige l’Istituto Strelka per i media, l’architettura e il design ed è membro del consiglio per lo sviluppo dello spazio pubblico della città di Mosca e del World economic forum in Russia. Nel 2013, ha partecipato al lancio del CB Strelka, una divisione dell’Istituto Strelka per la programmazione strategica dell’architettura e degli spazi urbani oltre che degli spazi culturali. Nel 2014, ha creato il team di curatori del padiglione russo dell’Istituto alla XIV Biennale d’architettura di Venezia, ricevendo anche un premio in tale sede. Creativa.

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Daria Belova

La filmmaker Daria Belova, rappresenta, invece, il talento emergente del paese. Nata nel 1982 a San Pietroburgo, dove ha studiato lingue e letteratura e lavorato come giornalista, Daria, trasferitasi a Berlino per i suoi studi di cinema, ha ricevuto il premio rivelazione 2013 del Festival del cinema di Cannes, mentre era ancora studentessa. Ha, poi, ricevuto numerosi altri premi (fra i quali il riconoscimento come miglior cortometraggio al Düsseldorf Student film festival, all’Ankara film festival o al Magma film festival, tutti nel 2013). Astro nascente.

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Alina Ibragimova

La violinista Alina Ibragimova, nata a Polevskoy da una famiglia di musicisti, è un talento fin dalla giovane età (ha iniziato a suonare il violino a 4 anni). A 5 anni ha iniziato a frequentare il Gnessin state musical college in Moscow e a 6 anni ha iniziato la sua carriera suonando in varie orchestre, fra le quali quella del Bolshoi. Trasferitasi a Londra con il padre direttore d’orchestra, ha iniziato i suoi studi alla Yehudi Menuhin School. Nel 1988, ha suonato con Nicola Benedetti alla cerimonia d’apertura del 50 anniversario della Dichiarazione dei diritti umani all’Unesco a Parigi; ha frequentato il Royal College of Music, vinto numerosi premi (come la London Symphony Orchestra Music scholarship, nel 2002, o il Royal Philharmonic Society Young Artist Award, nel 2010), suonato concerti con la London Symphony Orchestra, la Deutsche Kammerphilharmonie Bremen, sempre con il suo Anselmo Bellosio del 1775. Stellare.

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Nina Kraviz

Nina Kraviz è nata a Irkutsk, in Siberia ed è ormai una famosa dj e produttrice musicale affermata. Dopo gli studi da dentista in un’accademia militare, Nina ha lavorato come giornalista freelance fino a quando è stata notata dai produttori della Red Bull Music Academy, nel 2006. Recentemente ha prodotto nuovi dischi ed è impegnata in un tour mondiale. Poliedrica.

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Natalia Osipova

Natalia Petrovna Osipova, nata nel 1986, è oggi la prima ballerina del Royal Ballet di Londra. Ha iniziato a ballare a 8 anni alla Mikhail Lavrovsky Ballet School e ha completato i suoi studi, fra il 1996 e il 2004, alla Moscow State Academy of Choreography. A 18 anni è diventata membro del corpo di ballo del Balletto del Bolshoi. Dopo di esso, è approdata al prestigioso American Ballet Theatre, come ospite della stagione del Metropolitan. Nel 2011, approda al Mikhailovsky Ballet, ma, ad Aprile 2013, arriva l’annuncio che Natalia è l’étoile del Royal Ballet, dove debutta, a Novembre, in Romeo e Giulietta. Eterea.

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Natalia Sindeeva

Natalia Sindeeva è l’amministratore delegato della Rain TV, l’unico canale indipendente in Russia. Il canale si è guadagnato la reputazione di poter e saper scrivere su temi sensibili che altri media non hanno il coraggio di trattare. Dalle proteste di strada a Mosca nel 2011 e 2012 fino ai recenti avvenimenti dell’Ucraina, la Rain TV ha sempre mantenuto il suo impegno a garantire un giornalismo libero, preciso, dettagliato, impegnato e forte. Coraggiosa.

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Natalia Vodianova

Natalia Mikhailovna Vodianova, classe 1982, soprannominata Supernova, è una splendida modella russa, nota anche per la sua filantropia. Nata in un distretto povero di Gorky (oggi Nizhny Novgorod), a 15 anni inizia la sua carriera, trasferendosi a Parigi, due anni dopo. Apparsa sulle riviste di moda più famose (Vanity Fair, American Vogue, British Vogue, Vogue Paris, Vogue Italia, Vogue China, Vogue Russia, Vogue Australia, Vogue Germany, Vogue Turkey, Marie Claire, Elle Magazine, Allure, Glamour magazine, Cosmopolitan, Harper’s Bazaar, L’Officiel, Grazia), nel 2009 è stata anche designata ambasciatrice dei giochi invernali di Sochi 2014. Ha fondato la Naked Heart Foundation, un’organizzazione filantropica a supporto dei bambini disabili, ispirata dalla tragedia di Beslan. Bella e caritatevole.

Viaggio nel mondo del Palio.
Drago a sette teste simbolo che rinsalda la contrada di San Giorgio

La Chiesa di San Giorgio si erge su una piazza semideserta, illuminata dalla luce delle stelle e dai fari delle poche macchine che passano, disturbandone la quiete. In un tempo ormai lontano, la città di Ferrara venne fondata partendo da questo borgo, estendendosi nel tempo oltre il Volano, e la chiesa di San Giorgio ne era il centro, la Cattedrale.

contrada-san-giorgiocontrada-san-giorgioLa contrada, dislocata nell’edificio alle spalle della Chiesa, è in fermento: i musici sono alle prese con le prove nella sala dei Pali, dedicata a Pippo Govoni, primo presidente della contrada, mentre i ragazzi del gruppo armata provano sul retro. Ma molti sono anche i contradaioli riuniti al bar, dove la televisione fa da sottofondo alle chiacchiere e agli ultimi ritocchi prima del Palio. Marcello e Vainer mi guidano tra le stanze a tinte rosse e gialle, raccontandomi le particolarità della loro contrada.

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Vainer racconta i vari premi e riconoscimenti ottenuti dalla contrada negli anni

“Il nostro stemma raffigura un drago a sette teste, l’idra, che si contorce tra le fiamme. Ci sono molte storie riguardo questa creatura – ci spiega Vainer, guardando l’animale mitologico rappresentato tra il rosso e il giallo – e quella ufficiale narra che ogni testa rappresenti uno dei rami del Po, un grande pericolo per gli abitanti della zona, che rischiavano di perdere tutto durante le piene”.
Un’altra interpretazione vede l’idra come la rappresentazione dei sette peccati capitali, uno per testa, che vengono purificati attraverso le fiamme che la circondano. Che sia un fiume o un vizio, fu il Duca Borso D’Este, ultimo marchese di Ferrara e primo duca di Modena, a scegliere come simbolo l’Idra. I contradaioli sono molto legati al loro stemma, simbolo del forte legame d’appartenenza, tanto che Marcello, che è in contrada da sempre, se l’è anche fatto tatuare sul petto: “Qui non accettiamo i cambiamenti di contrada per principio.

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Lo stendardo della contrada di San Giorgio

E’ veramente come una famiglia e quella non la cambi mai. Se litighi magari ti allontani o non ci si parla per un po’, ma non abbandoni la contrada per un’altra. A me non verrebbe mai in mente di mettermi al collo i simboli di altre contrade, a volte durante gli eventi in cui siamo tutti insieme non tocchiamo neanche gli stemmi degli altri”. Esagerazioni a parte, l’attaccamento verso il loro gruppo è forte, forse può sembrare troppo rigido come atteggiamento, ma guardando questi ragazzi mentre ne parlano capisco quanto è importante per loro quella seconda casa e tutto ciò che rappresenta.

 

contrada-san-giorgiocontrada-san-giorgio“Essere contradaiolo – mi dice Vainer – vuol dire imparare tante cose, non è solo fare un’attività: noi siamo sbandieratori e abbiamo imparato tutto qui, ma cosa più bella è che impariamo a crescere e confrontarci. Qui abbiamo imparato a litigare e a discutere con altre persone che vivono la contrada a modo loro, mentre tu eri convinto che l’unico modo era il tuo. Ma anche nelle peggiori discussioni le amicizie non si rompono, si litiga e si fa pace. Io sono entrato in contrada più tardi rispetto ad altri, avevo 15 anni e ho imparato che qui ci si fa tanti amici ma non è necessario essere tutti amici per appartenere alla stessa contrada: è fondamentale il rispetto. Succede spesso che non ci si trova d’accordo su qualcosa, siamo in tanti ed è difficile che tante persone la pensino allo stesso modo su tutto, quindi capita che ci si insulti e si litighi, anche per gli esercizi da fare, ma quando finisce la riunione o la discussione siamo sempre tutti insieme”.

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Sala dei pali con il gruppo dei musici

La contrada è un via vai continuo e mentre parliamo arriva Martina, sorella di Marcello, che vinse per due anni di seguito il Palio delle asine, nel 2004 e nel 2005, e, nello stesso anno, il Palio dei Pali a Querceto, in Toscana. “Era una corsa molto lunga, 1800 metri la batteria e 2000 la finale, e ci era stata comunicata la nostra partecipazione all’ultimo minuto. Il mio asino, Piccione, non si era più allenato dopo la vittoria del Palio di maggio e, anche se era molto bravo, era a riposo da tanto. Alla batteria arrivammo in seconda ma durante la finale abbiamo volato e siamo arrivati primi. Anni dopo ci hanno richiamato per correre per una loro contrada e, durante la preparazione, ci furono dei problemi con gli altri concorrenti e siamo partiti con mezzo giro di ritardo. In quella gara dovevamo percorrere sei giri e, dopo i primi in testa, l’asino si è fermato in una di queste curve larghissime col cambio di terreno (da cemento a terra) e tutti lo incitavano. Quando è ripartito ha stracciato tutti”.
Approfitto di una pausa dei musici per entrare nella sala dei Pali, dove l’ultimo vinto, il Palio delle putte, spicca tra tutti: è, infatti, l’unico verde in sala. La contrada di San Giorgio era l’unica a non aver mai vinto neanche un Palio in una categoria ma lo scorso anno Polina Grossi è stata la prima a vincere quello delle putte.

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Sala dei pali
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Sala dei pali

Non solo eventi che riguardano le gare, la contrada è attiva anche nella valorizzazione del territorio e negli eventi culturali. Spesso vengono organizzate mostre che raccontano le trasformazioni del borgo nei secoli, ma anche serate totalmente distanti dalla contrada, come il concorso SanGio in Rock, che si tiene ad Aguscello in estate. Jessica è una delle organizzatrici e racconta come un evento del genere possa far conoscere la città di Ferrara e la vita delle contrade anche se non ne è collegato apertamente: “Sangio in Rock è un concorso musicale per rock band emergenti. Ormai è da qualche anno che lo organizziamo, in una frazione di Ferrara, ad Aguscello,un posto poco popolato e molto piccolo che merita di essere conosciuto e rivalutato. E’ un evento che negli anni sta diventando sempre più grande e si divide in quattro giornate a cavallo tra luglio e agosto: ogni sera si sfidano sei band, ad una serata è invitato un gruppo ospite e con la finale si proclamano due vincitori, uno scelto dal pubblico e l’altro da una giuria da professionisti. Anche questo serve per far conoscere le contrade ai cittadini che non le apprezzano e che magari vorrebbero che questa manifestazione storica non si ripetesse più”.

Tanti gli eventi in programma e quelli del passato, alcuni ricordati con divertimento, come quella volta in cui, durante il giuramento, gli sbandieratori decisero di provare un’articolata giocoleria di fuoco ma, calcolato male il tempo, rischiarono di dar fuoco al Castello. Chi, se non l’Idra infuocata, poteva infiammare l’evento? Este viva, San Giorgio viva!

Accanto al castello i fatiscenti voltini in attesa di restauro

I Voltini del castello, sporchi, bui e scalcinati sono ancora lì a far brutta mostra di sé. Eppure un anno e mezzo fa Davide Nardini, all’epoca assessore nonché vicepresidente della Provincia, aveva garantito che un intervento di riqualificazione era già stato programmato e sarebbe stato realizzato entro pochi mesi. Chissà: forse lo ha affermato con convinzione, o forse ha indicato con leggerezza quella scadenza, ben sapendo che da lì a poco sarebbe stato ex assessore di un ente ormai in fase di dissoluzione e quindi irresponsabile dell’eventuale inadempienza…

voltini31Fatto sta che l’intervento non è stato realizzato. Così il passaggio nodale nel cuore della città storica, fra piazza Savonarola e piazza Castello resta in condizioni indecorose e testimonia un’inaccettabile trascuratezza, aggravata dalla sempre numerosa presenza di auto in sosta. Serve urgentemente adeguata manutenzione.
Ma l’assessore ai Lavori pubblici, Aldo Modonesi, da noi interpellato, replica che la cura del monumento non è passata al Comune, chiamato viceversa a farsi carico di altre responsabilità prima ascritte alla Provincia. Così dopo una breve ricerca arriviamo a Massimo Mastella dirigente del settore Tecnico e infrastruttura. Cordiale e rassegnato ci spiega che soldi proprio non ce ne sono. “Mi rendo conto della situazione, ma non abbiamo la possibilità di fare nulla. Non ci sono interventi programmati e non è neppure realistico prevederne”.

A questo punto la palla passa a Tiziano Tagliani. L’hombre del partido è lui. Solo lui che indossa una doppia casacca (sindaco e presidente) infatti può risolvere l’impasse: in quanto capo dell’amministrazione provinciale può chiedere al primo cittadino un intervento straordinario. Forse non dovrà nemmeno fare anticamera per ottenere udienza. La città attende e confida in una positiva risoluzione.

Libraio, editore, scrittore: Graziano Gruppioni, “pagine della mia vita”

“La storia infinita”, classico della letteratura mondiale del tedesco Michael Ende, racconta di un bambino che, armato di fantasia, sensibilità e un pizzico di fortuna, vive non solo la storia di un lettore, ma anche di creatore di una nuova storia e di infiniti mondi in cui le storie vivono di vita propria. La storia di Graziano Gruppioni – libraio, editore e scrittore ferrarese – gli somiglia molto: vale la pena aprire la prima pagina della sua storia e scoprire le altre a cui ha dato inizio…

Capitolo 1
Alle pareti c’erano scaffali che arrivavano fino al soffitto, zeppi di libri d’ogni formato e dimensione. Sul pavimento stavano accatastati volumoni in-folio, su alcune tavole erano ammassate montagne di libri più piccoli, rilegati in pelle e dal brillante taglio dorato. Vetrate grandi oltre le quali i libri compaiono a mucchi, in pile ordinate come panni raccolti, in allegro disordine su scaffali allineati o disposti su bancarelle all’aperto mentre si godono il sole; a gruppi, come studenti finalmente liberi da scuola; semplicemente appoggiati a colonne dipinte di verde e di fucsia. Sono loro che adocchiano il curioso che entra per cercarsi una lettura, e non viceversa. E spesso sono loro a sceglierselo. Dietro un paio di occhiali e una piccola cassa, il libraio.

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L’interno del Mercatino del Libro

Il Mercatino del Libro, al numero 32 di via Saraceno, è l’ultimo approdo dopo una storia che inizia tra motori e pezzi di ricambio. “La nostra prima attività – comincia Graziano – era un’officina, in cui ci occupavano di allestimenti per veicoli industriali, principalmente carrozzerie per autovetture e altre componenti interne. Nel 1986 ci fu un momento di forte crisi economica, e cambiammo oggetto di scambio: ci si muoveva verso i giornalai per comprare le rimanenze. Non erano i giornali a interessarci, bensì i gadget, che destinavamo alle parrocchie per vendite di beneficenza. Si partiva con il retro del furgone carichi di cassoni, e si ritornava con giornali – periodici, quotidiani, riviste – e gadget.

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Graziano Gruppiono

Poi, percorrendo spesso la zona dei lidi ferraresi, soprattutto nei periodi primaverili e di bella stagione, ci accorgemmo che l’estate era il momento in cui il libro era oggetto dei desideri di molte persone: per trascorrere la giornata sotto l’ombrellone, per svago.” L’asse di interesse allora si sposta; chili e chili di libri spodestano ingranaggi, sedili di pelle e pezzi di ricambio; prima vagabondi, poi riempiendo uno spazio dopo l’altro e rimettendo a lustro libri, dandogli una seconda occasione – a volte terza o quarta, nel suo negozio o in altri; libri invenduti, pagine ancora da tagliare di un libro al momento solo piegato.

graziano-gruppionigraziano-gruppioniArriva il primo negozio di libri in via Carlo Mayr. “Vendevamo in negozio e sempre al mare, oltre che nelle fiere: a MadeInBo, che si faceva nell’area dedicata alla Festa dell’Unità di Bologna, si cominciava i primi di maggio per poi tirare dritto fino ad agosto. Da Carlo Mayr ci siamo poi spostati in via Mazzini. Era il 1989, e cominciammo a vedere e vivere il cambiamento economico che avrebbe caratterizzato i primi anni Novanta, il negozio andava molto bene. Dopo Mazzini è arrivata via Saraceno, attuale sede dell’attività di vendita di cui mi occupo insieme a mia moglie.”

Capitolo 2
“Le passioni umane sono una cosa molto misteriosa. […] Coloro che ne vengono colpiti non le sanno spiegare, e coloro che non hanno mai provato nulla di simile non le possono comprendere. […]” Per Bastiano Baldassarre Bucci la passione erano i libri.
“Da ragazzo lavoravo in officina, e avevo libero solo il sabato. A diciotto anni comprai la mia prima automobile: era una 600, l’avevo verniciata di verde pisello; ed era lei che ogni giorno di festa mi portava in Biblioteca Ariostea dove trascorrevo quei pomeriggi di festa a leggere; pomeriggi verdi, come l’assurdo colore della mia automobile”. Una festa, ecco cosa rappresentava il libro per il futuro libraio. C’è il caratteristico odore della polvere che lo ricopre, il fruscio delle sue pagine ingiallite ma non per questo meno affascinanti. C’è la macchia che distingue una pagina dalle altre quattrocento che compongono il libro; c’è il segno a matita per appuntarsi una riga speciale e c’è la cancellatura di uno scarabocchio, la dedica a penna di un amore ormai sbiadito. E c’è il profumo che un soffio di borotalco, soffiato su ogni pagina,

graziano-gruppioniDa aprile 2001 Graziano divulga libri attraverso il negozio e 2G, la sua casa editrice. Il catalogo spazia da proverbi ferraresi a ricette di cucina, da brevi racconti divertenti sino ad articoli di storia e libri di grandi scrittori. Sempre privilegiando autori ferraresi, e testi in cui investire con il cuore, oltre che con la testa. “Il primo libro che abbiamo stampato è “Una notte del ’43”; era il primo anniversario della morte di Giorgio Bassani, e volevamo rendergli onore in modo concreto. Alla presentazione del libro è successa una piccola magia: c’erano un sacco di persone che arrivavano con una copia autografata; dediche affettuose che l’autore dedicava al vicino di casa, all’amico, al medico che con lui ha condiviso il campo di prigionia durante la guerra. Il testo è poi stato seguito anche da “Città di pianura”, che Bassani scrisse sotto pseudonimo, con il cognome dello zio – Giacomo Marchi.” E poi ancora un magnifico dizionario di lingua ferrarese del 1857, stampato in copia anastatica. Sono libri fortunati, nati bene, con la camicia, come li definisce Graziano; libri che vengono richiesti, che nascono da un desiderio o da una necessità. “Un giorno stoccai libri di proverbi, che misi in mostra in una bancarella. Ce n’erano provenienti da ogni parte d’Italia, ma mancavano quelli ferraresi, e i passanti me lo facevano notare…”.

Capitolo 3
“Le acque ti domandano” – anunciò Fucur – “se tu hai portato a termine tutte le storie che hai cominciato in Fantàsia.” […] “Ma è un numero incredibile di storie” – gridò Bastiano, “e da ciascuna ne nascono sempre di nuove. Un compito simile nessuno se lo può assumere.” “Sì”, esclamò Atreiu, “io.”
Ed è successo che ho preso il coraggio a due mani, e ho cominciato a scrivere io: per riempire la mancanza di argomenti che erano richiesti, e di cui però non si trovavano tracce scritte. Per curiosità e per piacere: avevo 26 anni quando composi per la prima volta un testo vero e proprio: parlava di un parroco ucciso negli anni Venti. Tutto è cominciato con una amicizia nata nel campetto sportivo del prete di Sabbioncello, dove gioca a pallone e litiga con una bambino che di nome fa Valentino. Al suo amico, quel Valentino che nel frattempo è diventato direttore del quotidiano La Nuova Ferrara, un giorno di parecchi anni dopo lascia un suo scritto, senza avere nel momento immediato nessuna risposta. “Ne scrissi poi un secondo; ma fu quando scrissi il terzo che aprendo il giornale una mattina vidi stampato il mio primo.

graziano-gruppionigraziano-gruppioniDi lì è cominciata una collaborazione con il quotidiano durata sei anni in cui proponevo, giorno per giorno, un aneddoto che fosse accaduto nella stessa data di anni fa; a Ferrara come a Occhiobello, come in qualunque paesino che faceva parte del Ducato Estense. Ora quegli articoli sono pubblicati in due antologie, edite dalla stessa 2G, dal titolo “La nostra storia. Storie di storia ferrarese”. La collaborazione non è rimasta figlia unica. Durante corsi di giornalismo che organizza a Sabbioncello, conosce Corrado Piffanelli, direttore de Il Carlino, e scrissi un pezzo estemporaneo. Era un pezzo sulla donna, e l’8 marzo di quell’anno fu pubblicato, il primo di una serie che aveva come scadenza ogni tre domeniche, e che poi prese la direzione di storie cadenzate su argomenti storici e luoghi famosi, nascosti, curiosi di Ferrara: da Palazzo della Ragione all’acquedotto del montagnone; dalla Torre dell’orologio ai duellanti al crocifisso della chiesa di San Luca. Anche queste storie hanno ora una propria rilegatura materiale, nella raccolta “La Ferrara nascosta”, presentato martedì 10 marzo nella cornice della Sala Arengo di Palazzo Municipale, affrescata da omaggi ai più grandi artisti ferraresi, e omaggio ad altrettante storie estensi. Ma questa è un’altra storia…

Giorgio Cattani, dai Diamanti a Brera. “L’arte: curiosità e bellezza”

“Curiosità, fascino, bellezza” ecco l’essenza dell’arte secondo Giorgio Cattani. Artista, insegna all’Accademia di Brera e da molti anni vive a Milano ma con Ferrara, città in cui è nato nel 1948, mantiene frequentazione e solidi legami. La persona giusta, per esperienza e sensibilità, per sciogliere l’interrogativo sulla ragioni del successo di un artista: per dire se i presupposti stiano in un talento innato o siano il frutto di coincidenze e fortunati eventi. Per primo gli domando come è nata la sua passione e perché ha scelto di intraprendere una strada spesso tutta in salita.
“Ero un ragazzo in cerca di qualcosa di indefinito. Dentro di me sentivo vibrare corde, intriganti e curiose, ma l’ambiente esterno cercava di mettere a tacere questi miei fremiti. Ho seguito il fluire degli anni ’70, nel solco dei movimenti studenteschi e sono entrato in contatto con l’ambiente della scrittura. Certe immagini hanno iniziato a farmi sognare e ho incominciato ad appuntarmi parole, disegni e sensazioni”. Una passione innata quindi, un’amore per “qualcosa” inizialmente non ben definito, un trasporto verso tutto ciò che emoziona, incuriosisce, affascina. “Ho un rapporto magico con il gusto, con l’estetica, e ho sempre convissuto con note lievi, più che con le urla. Amo il bello, che non ho mai coniugato con il ricco. Per me la bellezza è contemplazione”.
Cattani è un’artista che ha scelto di votarsi alla “magia di un vivere inventato”, creando opere da osservare, studiare, rimirare, capire o interpretare. Spesso però, oggi come in passato, a chi sceglie la strada delle arti – pittura, poesia, scultura, danza, canto, teatro… – viene consigliato di imparare un “mestiere vero” e di dedicarsi alle proprie passioni solamente per passatempo. “Iniziare non è stato facile, non avevo l’appoggio della mia famiglia, i miei genitori avrebbero voluto vedermi proiettato nel mondo della ragioneria o dell’economia; ho dovuto combattere per poter seguire il mio istinto ma non serbo alcun rancore. Ho trovato moltissime porte chiuse, ma faceva parte del rischio connesso a una scelta di vita controcorrente; ci ho creduto e oggi vivo d’arte”.

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“Lungi da me”, opera di Giorgio Cattani

La determinazione è fondamentale per raggiungere i propri obiettivi, ma anche la frequentazione degli ambienti giusti e l’incontro di persone di spessore contribuiscono alla realizzazione dei propri sogni. “Il Palazzo dei Diamanti di Ferrara, con il direttore Franco Farina, è stato per me fondamentale in quegli anni ’70. Era uno dei luoghi più accreditati, non solo in Italia, per quel che riguarda le arti figurative. E’ stato lì che ho iniziato a coltivare un gusto staccato dalle mode e dalla vetrina; volevo andare oltre le convenzioni e oltre la parola”.
Se il ‘maestro’ Farina è stato molto importante per introdurre Cattani nell’ambiente artistico, l’incontro con Bonito Oliva gli ha dischiuso gli orizzonti internazionali: “L’incontro con Achille è stato fondamentale, mi ha catapultato nel mondo. Il decennio di collaborazione con lui è stato dinamico e fruttuoso, sfociato nella Biennale di Venezia nel 1993, nella mia prima esposizione a New York e in un lungo percorso legato alla terra siciliana”.
Oltre a Franco Farina e Achille Bonito Oliva, anche prestigiosi galleristi hanno condizionato positivamente la vita e la carriera di Cattani, ma il più potente slancio gliel’ha dato “la scommessa nei confronti della vita”. Un’artista dalle mille sfaccettature, aperto alle sfide con se stesso e con il mondo che lo circonda, che per realizzare le sue opere prende ispirazione dalla vita di tutti i giorni; un’artista a tratti provocatorio, che con le sue performance va contro i pregiudizi. Racconta di quando, diplomato al Dosso Dossi di Ferrara, calcolò la distanza tra la porta d’ingresso dell’istituto e l’ufficio di Collocamento di fronte, poi stampò un numero di diplomi uguale al numero di metri che separano i due edifici. Li incollò all’asfalto, uno dopo l’altro, come a voler descrivere un sentiero. Quando la polizia lo fermò lui rispose “quello che vedete verrà raccolto ed esposto in una galleria”.

“Un altro mio intervento che fece scalpore ci fu il giorno in cui il critico d’arte Giulio Carlo Argan teneva una conferenza alla Sala Polivalente. Passai di lì, tornai a casa, presi lo “strumento” su cui si appoggiano gli abiti quando ci si sveste e ritornai in quella sala. Mi spogliai e sulla mia biancheria scrissi “l’arte non la si racconta, la si fa”, poi mi rivestii e me ne andai. Feci questo perché la nostra è una realtà che vive di preconcetti”.
Stupita, ma soprattutto incuriosita, gli ho allora domandato che rapporto ha con la sua città natale e cosa pensa della società in cui viviamo. Mi ha raccontato che viaggia molto e che tende a definirsi “viandante”, ma che in questa nostra “città di attraversatori” torna sempre molto volentieri. “Ferrara è un ambiente molto compresso; manca completamente un’attenzione verso la cultura in generale da parte dell’Amministrazione comunale. La nostra è una realtà lasciata al deterioramento: sia quello naturale, sia quello frutto di un vandalismo che nasce dall’ignoranza”.

La conversazione scivola su un argomento più sereno, quello accademico, che rende l’artista fiero del suo lavoro. “Mi è stato chiesto di insegnare, non sono stato io inizialmente a desiderarlo. Quando mi venne proposto, Bonito Oliva mi consigliò di provare; presentai il mio curriculum e arrivai primo in una graduatoria interna. Insegnai a Sassari, poi partecipai ad un concorso nazionale, lo vinsi e andai a Brera, dove oggi ho una cattedra. Il lavoro accademico è per me una delle esperienze più costruttive; non l’ho cercato, è arrivato in maniera inaspettata e grazie ad esso sono riuscito ad appagare il desiderio dei miei genitori. E’ un mestiere che amo, che mi permette di continuare ad imparare ogni giorno, ma che vivo sempre come performance”.

Uomo poliedrico, che crea ed insegna, ci rivela quali sono le opere di cui più è orgoglioso. “Nel 1988, a Documenta 8, quella che io considero la più grande manifestazione d’arte del pianeta, è stato scelto un mio video girato in vhs dal titolo “Metropolitan Trace”; è un’opera che per me ha un grande valore affettivo e che mi ha reso appagato di vivere in una comunità visionaria. Anche i lavori presentati alla Biennale di Venezia sono per me fonte di grandi soddisfazioni”.

Giorgio Cattani, “animale cittadino” come egli stesso si definisce, 35 anni fa iniziò a mostrare al mondo le sue opere, esponendo per la prima volta nel 1980 alla Graphigro di Parigi. Per il 2015 ha già due tappe importanti segnate sul calendario: la prima si terrà a maggio presso la “Five Gallery” di Lugano, una mostra che avrà come terreno di proposta lo scrittore e poeta Hermann Hesse; la seconda avrà luogo presso “Villa Filiani” di Pineto e riporterà molti riferimenti a D’Annunzio.
Attraverso il racconto della sua vita e della sua carriera ho capito che Giorgio Cattani non è persona che viaggia molto, ma un vero e proprio viaggiatore, o meglio un viandante per usare le sue parole. “Sono stato tra Burkina Faso e Mali e devo dire che mi rispecchio molto nella cultura animista: credo che gli oggetti emanino energia e che alcuni portino positività, altri negatività. Io sono un magma grezzo, non ho mai seguito il “senso unico”; ho sempre cercato di cogliere le energie che sentivo intorno a me”.

Ho voluto concludere il nostro incontro tornando a parlare della sua arte, tanto in senso materiale quanto ideologico. “Credo che ogni epoca viva di proprie dimensioni. Quella in cui stiamo vivendo è caratterizzata da attraversamento di confini, intrecci, rotture di dogane.” Questo si rispecchia nelle tecniche adoperate dall’artista nella realizzazione delle sue opere. Mi ha raccontato di aver amato particolarmente il pittore Robert Rauschenberg, vicino alla pop art americana, che nei suoi dipinti sovrapponeva tra loro diversi materiali. “Ho un rapporto primario con la materia e non ho una tecnica precisa che prediligo in particolar modo. Ricerco il rapporto cromatico e questo posso trovarlo in un pezzo di giornale che vedo per strada, quanto in una pubblicità che mi colpisce su una rivista”.

Cattani è un artista versatile che ama sperimentare nuove forme d’arte. Mi spiega, contrariamente a quanto pensavo, che la pittura non è mai stata vera e propria protagonista del suo mondo; per lui ciò che conta è la performance, che cerca di realizzare e trasmettere anche attraverso le installazioni video. Infine ho voluto chiedere a quest’uomo curioso e affascinato dal mondo, se collocherebbe se stesso all’interno di una specifica corrente artistica, del presente o del passato. E con queste parole prende congedo: “Credo che nella storia rimarrà il mio lavoro nell’ambito della videoarte, della pittura propositiva e dell’avanguardia, ma spetta ai critici assegnarmi una collocazione. Io sono un animatore solitario, credo che l’arte sia la grande amante del tempo e l’unica corrente a cui sento di appartenere è quella del vivere”.

Il bello della santità:
Sebastiano a Pontelagoscuro

Muscoloso, giovane, virile, Sebastiano è – tra tutti i santi – uno dei più prestanti. Il bello della santità. Un modello di sofferto vigore ed estetico martirio. Santo particolare, tra i pochi a mostrare tutta la sua attraente nudità all’interno dei luoghi sacri, ma così amato dagli artisti da essere rappresentato, al di fuori della committenza religiosa, da maestri contemporanei come Renato Guttuso, Sandro Chia, Luigi Ontani. Un santo che è tradizionalmente invocato contro le epidemie di peste e che, per questo, ha anche un legame particolare con il territorio della riva padana di Ferrara, tanto colpito nel ‘600 dal morbo di manzoniana memoria.

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La locandina della mostra dedicata a San Sebastiano con l’opera di Giglio Zarattini

Tutti questi aspetti li mette ora insieme una mostra: “Sebastiano tra sacro e profano. 26 artisti per il mito del santo con le frecce” al via sabato 21 marzo, nella sala Orsatti di Pontelagoscuro, centro pubblico di proprietà comunale a pochi metri dalla rinnovata piazza Bruno Buozzi. A curare questa rassegna che unisce storia, arte e attualità è Lucio Scardino, storico dell’arte che già da anni attorno a questa figura di santo sviluppa mostre ed eventi.
“San Sebastiano – fa notare Scardino – è stato il soggetto di una pala di grande valore, attribuita a Carlo Bononi per l’antica chiesa parrocchiale di Pontelagoscuro, ahimè bombardata nella seconda guerra mondiale. L’immagine era stata commissionata per celebrare la fine della peste che aveva devastato l’antico borgo rivierasco. Questa comunità ha pagato un prezzo altissimo alla terribile epidemia, con trenta casate familiari che si sono estinte a causa di ciò, mentre la municipalità di Ferrara aveva messo un varco al suo confine, per evitare il contagio, che infatti si ferma qui”.
La fine del blocco, celebrata nel 1631, si ripete ora con una mostra, nata diversi anni fa da un’idea di Scardino, che poi si sviluppa fino a tornare, adesso, rinnovata. “Sono almeno otto anni – spiega l’esperto d’arte – che ho lanciato il progetto facendo dapprima una mostra a Renazzo di Cento, dove è la parrocchia intitolata proprio al santo con le frecce”. L’evento ha successo e molti artisti, da allora, iniziano a contattarlo per proporgli opere sul tema. “Alcuni – racconta lo storico – quei quadri o sculture li avevano già in studio; altre volte è stata invece questa sollecitazione a spingerli a realizzarli”.
Così la mostra è andata avanti un po’ per i fatti suoi. Un “work in progress” – come lo definisce il curatore – rilevando come il progetto abbia finito per acquisire quasi una vita e uno slancio autonomi. Un’idea che trova una strada sua, ma torna sempre a bussare alla porta di Scardino. “Il materiale che mi sono ritrovato a disposizione – dice – ha incrociato la richiesta della Pro loco di Pontelagoscuro, nella periferia industriale di Ferrara”. Dopo i lavori di rifacimento della piazza, la comunità aveva voglia di rilanciare i propri spazi con un evento culturale di rilievo. E qui entra in scena la mostra monografica con sculture, disegni, dipinti e opere a tecnica mista. Tutti pezzi unici che si potranno vedere tra poco in quel lembo di terra che ha immolato una parte di se stessa per la salvagurdia della città estense.

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Nanni MorettiI con il figlio Pietro in una scena del film “Aprile”

Tra gli autori delle opere – racconta Scardino – il più giovane è Pietro Moretti, figlio del regista Nanni Moretti; sì, proprio quel ex neonato attorno a cui poeticamente ruota la visione socio-politico-familiare del film “Aprile”. Il bambino ora è un giovane artista, che qui esordirà con una tecnica mista sul tema. Tra le opere con più anni c’è invece quella di Renzo Gentili, ferrarese, presente con una sua tempera su carta del 1980. Artista di fama e lunga carriera Maurizio Bonora, sempre di Ferrara, che proporrà il disegno preparatorio di una delle sue celebri sculture. Flavia Franceschini, sorella del ministro con un’intensa attività di scultrice e uno studio-laboratorio nel centro cittadino, sta ultimando un “light box”, sorta di scatola-teatrino appositamente realizzata mettendo in scena una figura colpita da freccia, che si ispira al particolare di un affresco di Schifanoia. Aurelio Bulzatti, originario di Argenta come Gianfranco Vanni, porterà un suo lavoro inedito, mentre reinterpreta la figura sacra con uno stile personale Lino Costa, artista nonché sacerdote di Gualdo. Giorgio Cattani, docente all’Accademia di Brera ed esponente della Transavanguardia molto legato ad Achille Bonito Oliva, porterà una tecnica mista su tela. Immagine-simbolo raffigurata sul volantino della mostra è quella di Giglio Zarattini, pittore ed ex sindaco di Comacchio prematuramente scomparso undici anni fa, presente con l’autoritratto scomposto del santo colpito dai dardi. “Una rappresentazione – spiega Scardino – del doppio aspetto, femminile e maschile, della sofferenza”. L’artista che arriva da più lontano è il sardo Oscar Solinas, scenografo al teatro comunale di Sassari, che porta il “Sebastiano mancato”, un giovane legato a un albero, il cui tronco viene trafitto dalle frecce al posto suo. Rappresenta, infine, un doppio martirio il fiorentino Carlo Bertocci con la colonna-cactus a cui il santo è legato. In chiave moderna e un po’ ironica il “Seba” di Denis Guerrato, pittore mantovano, che ne fa un ritratto autoironico con il protagonista che ha le sue sembianze e si presta a ricevere le frecce sotto a un paio di occhiali rayban specchiati, jeans e scarpe timberland. Ferraresi Alessandro Borghi, lo zio e il nipote Daniele e Gianni Cestari, la scultrice Mirella Guidetti Giacomelli, i professore di scultura del liceo artistico Lorenzo Montanari, la docente Gloria Pasquesi ed Enrico Pambianchi, originario di Portomaggiore. Stilemi e tecniche diverse, infine, per Sonia Andreani, Gianni Bellini, Carlo Bertocci, Sara Bolzani, il padovano Paolo Camporese, Nestor Donato, Pietro Lenzini, Vittorio Zanella.
Sebastiano tra sacro e profano” sarà visibile da sabato 21 marzo, alle 17, sala Nemesio Orsatti, via Risorgimento 4, a Pontelagoscuro (Ferrara). Apertura a ingresso libero dal lunedì al venerdì ore 14-19, sabato e domenica 10-12 e 16-19. Fino al 12 aprile.

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Scultura di San Sebastiano di Paolo Camporese
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“San Denis Sebastiano” di Denis Guerrato
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Particolare dell’ovale con il San Sebastiano di Gianni Cestari

 

Physis, arte e natura:
la mistica dell’albero
nell’opera di Amir Sharifpour

Elabora gli aspetti naturalistici e mistici dell’albero attraverso la creta, plasmandola con antica sensibilità. Scultore persiano, ma ferrarese d’adozione, Sharifpour ha studiato all’Accademia delle Belle Arti di Bologna. In qualità di scenografo collabora con il Teatro Comunale Abbado di Ferrara.
Sharifpour crea forme naturalistiche antiche che si aprono e si chiudono, si allungano e si torcono, accolgono ed escludono, facendo diventare lo spettatore protagonista di un’esperienza visiva unica che coniuga arte ed estetica, sensibilità e natura. Le opere di Sharifpour dialogano con la luce: le loro superfici ricoperte da segni arcaici sono per la luce, come le foglie di un albero.
Lo Sma (Sistema museale di Ateneo) dell’Università di Ferrara dal 20 marzo al 9 aprile ospita la mostra personale dello scultore Amir Sharifpour intitolata “Physis, Natura”.

Sharifpour scrive dell’Albero: “Nel più lontano passato, molto prima che l’uomo facesse la sua comparsa sulla terra, un albero gigantesco s’innalzava fino al cielo. Asse dell’universo, le sue radici affondavano fin negli abissi sotterranei, i suoi rami arrivavano all’empireo. L’acqua attinta dalla terra diventava la sua linfa, dai raggi del sole nascevano le sue foglie, i suoi fiori e i suoi frutti.
Attraverso di lui, la sua cima, raccogliendo le nuvole, faceva cadere le piogge fecondatrici. In lui il cosmo si rigenerava in perpetuo. Fonte di ogni vita, l’albero dava riparo e nutrimento a migliaia di esseri. Tra le sue radici strisciavano i serpenti, gli uccelli si posavano sui suoi rami. Anche gli dei lo sceglievano per soggiornarvi.
Ritroviamo quest’albero cosmico in quasi tutte le tradizioni ed è lecito supporre che sia esistito dappertutto, anche là dove la sua immagine si è cancellata. L’Albero, simbolo di vita in continua evoluzione, in ascensione verso il cielo, evoca con grande forza il simbolismo della verticalità. Esso riunisce tutti gli elementi: l’acqua circola con la linfa, la terra si integra al suo corpo attraverso le radici, l’aria nutre le sue foglie, il fuoco si sprigiona dal legno se strofinato.
L’albero è simbolo della perpetua rigenerazione e perciò della vita nel suo senso dinamico. È carico di forze sacre perché è verticale, fiorisce, perde e ritrova le sue foglie, e perciò si rigenera: muore e rinasce innumerevoli volte. L’albero è anche considerato un simbolo dell’unione fra il continuo e il discontinuo: rami, ramoscelli, foglie sono legati e l’albero è la loro unità”.

Oggi abbiamo dimenticato come leggere quei segni, che ci appaiono arcaici, che dialogano con la materia e celano verità occulte. Qualcuno ha scritto il segreto degli alberi, ma ora non riusciamo più a comprenderlo. Come fare? Forse tentando una passeggiata in un bosco, in un giardino? E quando dovremmo farla? Forse oggi, il primo giorno di primavera, un giorno nuovo. L’inaugurazione della mostra di Sharifpour è venerdi 20 Marzo alle 18.

Amir, quale è la tua esperienza con la Natura?
Tutti noi abbiamo ricordi che riguardano la Natura e soprattutto gli alberi. Sono nato e cresciuto in montagna. Questa mia esperienza di vita era ed è stata affascinante, mi ha dato l’opportunità di lavorare e modellare la creta e creare le forme proprie del mondo vegetale.

Cosa cerchi nella scultura?
Nel lavoro dello scultore il tatto è importante. I miei studi e la formazione nella scenografia teatrale mi portano alla curiosità per la ricerca di nuovi materiali. I miei preferiti sono il legno e la creta. Scolpire il legno per me è come un viaggio per cercare e trovare la forma dentro lo stesso materiale. Plasmare la creta è più in particolare un viaggio di ritorno alla mia infanzia, a quello che è il luogo in cui sono nato. Un’alta montagna con la sua natura stupefacente, alberi giganti che con i loro rami e le foglie toccano il cielo.

Siamo quindi tutti alberi?
Uomo e albero sono due elementi simili. Due elementi verticali che uniscono la terra e il cielo. L’albero cresce ad anelli concentrici, scavando e seguendo un cerchio di crescita si trova la sua forma a una determinata età. Si riscopre una parte della sua esistenza, del suo vissuto.

Perché hai scelto di inaugurare la tua mostra il 20 Marzo?
Il 20 Marzo è il capodanno persiano che cade il primo giorno del mese di Farvardin, in una data corrispondente al 21 Marzo del calendario cristiano, ovvero con l’inizio della primavera (in alcune località lo si festeggia il 20 o il 22 Marzo). Il termine NowRuz (Norooz) deriva dall’unione di due parole del persiano antico: Now, nuovo, e Ruz, giorno. Un “nuovo giorno”.

Arte, ambiente e ingegneria: mix perfetto per far rivivere i rifiuti

Arte, ambiente e ingegneria, è questa la miscela perfetta per la gestione dei rifiuti che ci propone, dopo averla sperimentata nella sua vita, l’eclettica Linda Schipani.
Linda nasce a Messina dove vive e lavora. Laureata a Roma in Ingegneria per l’ambiente e il Territorio, è stata docente di topografia e ingegneria sanitaria ambientale, responsabile qualità nella ditta d’impianti elettrici e speciali di famiglia, e si dedica tutt’ora  all’attività di consulente ambientale. Dalla sinergia tra professione e passione per  l’arte dà forma ad una “start up innovativa” attraverso la quale promuove l’Arte del riciclo come strategia di gestione dei rifiuti.

Linda Schipani02L’arte è un linguaggio universale che può esprimere ogni concetto e raccontare la storia dell’umanità attraverso le opere dei grandi maestri e di piccoli artigiani.
Il binomio arte e ambiente è vincente! L’arte è uno strumento in grado di trasformare i rifiuti in occasioni, e parlo di tutto, dagli scarti domestici a quelli industriali fino ad arrivare a quei tanti ecomostri che attraverso l’arte possono diventare nuove opportunità invece che creare cumuli di macerie da smaltire.
Quindi sì, arte e ambiente binomio possibile che diventa un trinomio perfetto con l’ingegneria, perché  più sicuro e consapevole.

Qual è il filo conduttore della tua attività? Tu sei un ingegnere ambientale, quanto peso ha la formazione scientifica nel tuo lavoro artistico?
Il filo conduttore sono “i rifiuti ” intesi come tutti quei materiali che nell’immaginario comune non servono più, destinati ad essere sprecati e a divenire nocivi per noi e per l’ambiente, l’obiettivo è dar loro nuova vita.
La laurea in ingegneria per l’ambiente e il territorio mi ha dato una formazione tecnica per la progettazione di sistemi convenzionali di gestione, recupero e smaltimento dei rifiuti. L’arte mi ha aperto una nuova prospettiva in grado di innescare attraverso gli oggetti recuperati processi creativi che oltre a formare nuovi oggetti dagli interessanti contenuti estetici e funzionali, innescano comportamenti virtuosi attraverso un linguaggio semplice e diretto ad ogni  individuo, di qualsiasi età ed estrazione sociale.

Quali sono i tuoi progetti principali ad oggi?
Ho avuto modo di portare l’arte del riciclo in vari luoghi in Italia e all’estero, partecipando ad eventi culturali e scientifici, attraverso tante mostre d’arte, tra cui la Biennale di Firenze nel 2009 o di Venezia nel 2011, le fiere di settore come Ecomondo di Rimini e diverse altre. Altrettanto importante per me è stato sperimentare la reazione a questa forma d’arte in luoghi non convenzionali, da una discarica in Senegal ad una gioielleria  di St.Moritz, dalle scuole al carcere campano. Per parlare infine della collezione di arte del riciclo che, ospitata all’EcoLab, spazio espositivo e creativo realizzato nello stabilimento di costruzioni elettromeccaniche della mia famiglia, conta centinaia di opere realizzate da altrettanti artisti con i materiali di scarto legati all’industria elettrica e alla pubblica illuminazione, che annualmente individuo e propongo loro attraverso la partecipazione a mostre collettive a tema.

Quali le tue prospettive per il futuro? Intravvedi delle criticità?
In prospettiva spero di continuare a implementare progetti di arte del riciclo  non solo per gli scarti domestici e industriali ma anche per i grandi manufatti, come l’ex inceneritore di San Raineri a Messina, oggi purtroppo, nonostante i miei tanti allarmanti appelli, pronto ad essere demolito. Vorrei poter contribuire a diffondere la cultura del recupero come stile di vita sostenibile e coinvolgere sempre più imprese, artisti, comunità e luoghi del mondo.
Le criticità sono tante, legate principalmente al territorio in cui vivo che  tuttavia, d’altra parte, è un terreno fertile dove innescare comportamenti virtuosi ed è un luogo bellissimo dove vivere .

Lancia il tuo slogan per il rispetto dell’Ambiente.
“Prima di gettare qualcosa chiediti sempre: “A cosa mi potrebbe servire? Cosa ci potrei fare?”. Potrei trovare una forma migliore, magari con la rima, per sintetizzare il concetto ma la sostanza è che bisogna avere più rispetto delle cose perché dietro ogni oggetto c’è il lavoro di tante persone e dentro le cose  c’è ancora tanta energia che non deve andare sprecata e ancor peggio usata contro i noi.

Per conoscere meglio Linda Schipani e seguirne i lavori vedi il suo sito web o la sua pagina facebook

La sera andavamo a Massenzio: quando il cinema era per tutti

Era il 1977: l’Italia viveva l’incubo del terrorismo dei Nar e delle Brigate rosse; come cantava Lucio Dalla “si mettono dei sacchi di sabbia davanti alla finestra… si esce poco la sera compreso quando è festa”.

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Renato Nicolini
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Basilica di Massenzio, 1977

L’assessore alla Cultura della giunta Argan, Renato Nicolini (1942 – 2012), ha l’idea di aprire uno spazio archeologico romano di grande suggestione, la Basilica di Massenzio, e affida alla Cooperativa Massenzio e all’Aiace, storica associazione amici del cinema d’essai, la realizzazione di una grande arena cinematografica, in collaborazione con Filmstudio, Politecnico, L’Occhio L’Orecchio La Bocca, i cineclub storici del periodo. Nasce così il mito di Massenzio e, con altre iniziative culturali, l’Estate Romana, imitata negli anni a seguire da molte altre città. Solo per dire, il ministro della Cultura francese Jack Lang ha più volte affermato di aver “copiato” il modello nicoliniano per la politica culturale francese degli anni ‘80.

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Estate Romana, Villa Ada 1978

La gente ricomincia a uscire la notte, si riappropria delle città, rompendo il coprifuoco degli anni di piombo. Il 25 agosto viene proiettato a ingresso gratuito “Senso” di Luchini Visconti, con qualche centinaio di spettatori; il tam tam porta la sera dopo migliaia di spettatori alla saga de “Il pianeta delle scimmie”. “Il senso più profondo dell’iniziativa era affidato all’incontro e alla mescolanza – ricorda Nicolini –  La sera dell’inaugurazione arrivai a Massenzio solo a mezzanotte. C’erano oltre 4000 persone e su una panca, in fondo, mi sedetti tra una famiglia romana che si era portata da mangiare i rigatoni da una parte e alcuni ragazzi che tentavano di fumare uno spinello dall’altra”.

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Estate Romana, Colosseo 1981

La sintesi di una operazione che superava la divisione tra la cultura delle elites e quella popolare. Un momento importante fu la proiezione monstre di “Novecento” atto I e II, di oltre 5 ore; la maratona cinematografica entra nel costume di massa, a Massenzio si vedeva cinema fino alle 3 o alle 4 della notte, talvolta si salutava l’alba. L’anno seguente l’iniziativa veniva replicata con il titolo “I Tarocchi”; una sezione speciale sul Medioevo fu affidata alle Acli per il cinema a Massenzio, all’Arci per la musica a Sant’ Ivo alla Sapienza, a Endas per i documentari a Piazza Margana; luoghi di Roma, per chi non li conoscesse, di assoluta suggestione architettonica, inimitabili teatri naturali.

Molto tempo è trascorso, ma abbiamo la fortuna di avere con noi uno dei protagonisti e pionieri di questa iniziativa, il giornalista esperto di cinema e curatore di festival Massimo Forleo, che gentilmente ci concede una conversazione.

Massimo, cosa ricordi del Massenzio 1978?

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Massimo Forleo

Nonostante il tema del Medioevo non apparisse particolarmente popolare, fu un successo inaspettato; 4/5 mila persone gremivano non solo la platea, ma tutti gli spazi possibili, talvolta accampandosi con coperte e cuscini; una sorta di happening di massa, dove persone di ogni provenienza si mescolavano e convivevano pacificamente. Ricordo con particolare affetto una serata, vista ora non facile, nella quale furono proiettati, in sequenza, “I cavalieri della Tavola Rotonda” di Richard Thorpe, “Lancillotto e Ginevra” di Robert Bresson e Monty Python e “Il Sagro Graal”, quasi 6 ore coi cambi pellicola, non si mosse nessuno, se ne andarono che quasi albeggiava…”

Ma per capire meglio, quale era l’obiettivo della programmazione?
A quei tempi non esisteva una politica culturale; la cultura era riservata a gruppi ristretti, ai pochi cineclub, alle sale da musica tipo Folkstudio, quasi sempre nel centro. Separate, c’erano le sterminate periferie, e l’idea, un po’ classista, che i periferici, i coatti come diciamo a Roma, fossero condannati all’esclusione culturale; beh, almeno in quegli anni, abbiamo dimostrato che non era vero, e che dipendeva da come si affrontava la questione; da noi i coatti c’erano, e ci divertivamo insieme… ”.

E dunque, come cercaste di superare questa situazione?
Il nostro scopo era rompere queste barriere, coinvolgere le periferie con eventi che non fossero escludenti; nella serata di cui ho parlato, ad esempio, inserimmo il film difficile in mezzo a due più facili; così 5.000 persone videro Bresson, la maggior parte, credo, per la prima volta. Ricercavamo un equilibrio, non facile, tra la qualità della proposta e la necessità, la voglia direi, di contaminare generi e pubblici, di non escludere nessuno ”.

1. CONTINUA

Per non aver paura
di diventare grandi

Una lista di nozze che comprende alcuni letti, poche culle, lenzuola, un microscopio, un elettrocardiografo e piccoli materiali chirurgici per un ospedale nel nordest dell’Uganda, la volontà di due giovani sposi di fare qualcosa di piccolo che possa diventare grande. D’altra parte l’Oceano è fatto di tante piccole gocce. Come dimenticarlo. Gianluigi e Mirella avevano deciso di diventare grandi così, con un invito anomalo ai loro amici più cari, che sarebbe stato capito e accolto con entusiasmo e apertura e che avrebbe fatto partire l’ospedale di Matany, un cerchietto lontano su una carta geografica sfogliata con curiosità e voglia di vivere.
Sono i primi anni Settanta e gli zii di Mario Calabresi, autore di questo bellissimo racconto che è “Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa” (Mondadori, 2014), appena laureati in medicina, poco più che ventenni, chiedono, per il loro matrimonio milanese, attrezzature per un reparto di maternità ancora da creare invece di piatti, bicchieri, posate, pentole, argenteria, cornici o statuine. Utile versus inutile, almeno per loro.
E, allora, eccoci catapultati in un posto dove, in principio, non vi era nulla e dove, presto, arriveranno giovani medici e infermieri ad aiutare e ad imparare, dove compariranno vaccinatori in bicicletta (che qui portano davvero lontano), dove una splendida comunità abbraccerà questi giovani e la loro voglia di aiutare, dove ci si sentirà presto avvolti da una grande e unica famiglia, che vedrà nascere bambini sani, perché la terapia degli antiretrovirali sarà somministrata a madri incinte sieropositive oltre che ai neonati nei primi mesi di vita.
In questa terra martoriata si trovano santi ed eroi, persone normali che però fanno la differenza. Bello vedere come, nel mondo, ci sia ancora tanta energia. E se sotto gli alberi piegati e sferzati dal vento, assistiamo alla realizzazione di un miracolo (la storia di Matany rappresenta il cuore del libro), Calabresi racconta anche tante altre storie di ragazzi coraggiosi e intraprendenti, un messaggio forte a tutti i giovani e un invito potente a non avere paura dei propri sogni. A conoscerli, sfidarli, seguirli, acclamarli, urlarli, accarezzarli, realizzarli. “Se puoi sognarlo, puoi farlo”, diceva Walt Disney e qui il messaggio è proprio questo. E allora incrociamo il salernitano Ugo che sbarca a Londra con le ricette della nonna, la toscana Bianca che vive e lavora a Shangai o Aldo che, nel suo Piemonte, ridà vita al mulino di famiglia con una storia che parte con grano e mais biologici, dodici posti di lavoro, un negozio iniziale virtuale, e arriva a un fatturato di due milioni e mezzo di euro nel 2014. Aldo studia ogni giorno, trova i prodotti biologici più originali e innovativi richiesti dal mercato, lavora senza sosta. Un visionario curioso e instancabile, coraggioso come tutti i veri visionari.
E poi ci sono altri grandi messaggi, primi tra tutti quello delle sopravvissute Andra e Tatiana deportate, bambine, a Auschwitz-Birkenau (“ricordatevi sempre come vi chiamate”) o quello di Silvio, ex maresciallo della Finanza rimasto accanto a Giorgio Ambrosoli – commissario liquidatore della banca di Michele Sindona – fino alla fine (“l’importanza di parlarsi allo specchio”). Nessun rimpianto, dunque, mai. Per rispondere a dubbi, interrogativi, scetticismo, scoraggiamento dei giovani, ecco allora le storie di tanti bravi ragazzi italiani che non hanno avuto paura di diventare grandi. Che non si sono mai arresi. Perché ne vale la pena, sempre, perché ogni anno ci sono sempre tanti nuovi frutti. Da leggere e, con coraggio, volare.

Le femmine coi nomi dei fiori,
i maschi con nomi da re

“E’ una storia originale, scritta da due sorelle, dotata di trama solida e genuinità di racconto, incanalata in una struttura affascinante e mai banale. Una storia fluviale e generosa, un classico di oggi.” Andrea De Carlo introduce così Angela Scipioni che presenta l’opera prima “Iris&Lily” alla libreria Feltrinelli per il ciclo “Autori a corte – Outside”, presentato da Sergio Gnudi con letture di Roberta Marrelli.

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Andrea De Carlo e Angela Scipioni durante la presentazione alla Feltrinelli di Ferrara

Scritto a quattro mani con la sorella Julie, il romanzo ripercorre la vita delle sorelle americane Iris e Lily Capotosti dagli anni Sessanta agli anni Duemila, attraverso un primo livello narrativo in terza persona a cui se ne alterna uno epistolare, fatto di e-mail che le due si scambiano attraverso l’oceano. Angela, scrive Iris: quella sempre positiva, quella all’ottavo posto, la più grande dei piccoli, dal timore di non essere all’altezza, dal desiderio e dalla paura di passare inosservata, Iris che lascia l’America per trasferirsi in Italia. Julie, scrive Lily: quella sempre scontenta, quella che fa i turni al Burger King con le cuffie nelle orecchie, per isolarsi dal mondo, quella che mette la sorella di fronte alle proprie azioni con il lapidario “non volevo ferirti, ma…”. Iris stabilitasi sulla costa ligure, Lily in un fermo immagine nello stato di New York dove ha vissuto l’intera vita. Una storia di donne scritta da donne, che ricalca in parte il rapporto esistente tra Angela e Julie .

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Angela Scipioni e Sergio Gnudi

“Amiamo entrambe leggere e scrivere, da sempre – racconta l’autrice – nostra madre spesso tornava dalla biblioteca con pacchi di libri che noi esploravamo con curiosità. Era un modo per evadere dalla realtà, e in fondo anche questo è il senso della lettura, della scrittura. In parte, questo è avvenuto per il romanzo: abbiamo cominciato a esplorare il nostro passato per poi vedere dove ci avrebbe portato; ho chiesto a Julie cosa pensasse dell’idea, e ci siamo alla fine avventurate nel libro; discutendone, rischiando quasi di non parlarci più; ma uscendone sempre rafforzate da un confronto intenso e sincero. A una prima stesura scritta di petto ne è seguita una seconda, entrando in maggiore sintonia tra di noi e permettendo alle nostre due sorelle di estrapolare fatti del il passato e ragionarci sopra, con tutte le selezioni che fa la memoria, a discapito della realtà stessa.”

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Da sinistra gli organizzatori Federico Felloni, Vincenzo Iannuzzo, l’attrice Roberta Marrelli, Angela Scipioni, Bruna Coscia dell’Associazione Cuore di carta, la direttrice di Feltrinelli Ferrara e Andrea De Carlo

Tra ricordi veri e presunti, meccanismi di appercezione selettiva e amarezze mai dette, riflesse nello scambio di e-mail che accompagna la vita di Iris e Lily ma, prima ancora, quella di Angela e Julie, si percepiscono quaranta decenni di vita vissuta, tanto scoperta continuamente quanto sofferta con ingenuità e coraggio; la vita che scorre nella famiglia, di ascendenza irlandese e italiana; e il vasto scenario umano che descrive i loro rapporti interpersonali: la mamma e la sorella Jasmine, zietta Rose; la numerosa famiglia in cui comandano gli uomini; e ancora uomini che avvolgono Iris e Lily in una tela setosa all’inizio, poi sempre più simile a quella di un ragno, impedendo loro di evolversi in quanto donne e in quanto persone.
Scivolando tra racconti delicati quanto taglienti, profondi quanto ingenui, ripercorrendo infanzia ed età adulta nella consapevolezza a posteriori di vicende e sentimenti alterni, tra povertà, femminismo e cultura maschilista imperante che si ripercuote anche nella scelta dei nomi delle protagoniste. “Le ragazze appartenenti alla famiglia portano nomi di fiori, e questa è l’eco di come sono considerate e trattate, cioè come una sorta di oggetti bisognosi di protezione, doppiamente fragili visto il loro essere donne e bambine. Viceversa, i fratelli hanno nomi importanti, forti, spesso nomi di re”.
Dai momenti dell’infanzia che parla di vestiti passati di fratello in fratello e sonni in letti a castello,
unico posto in cui è concessa la solitudine, in cui sfogare dispiaceri e paure tra singhiozzi e abbracci consolatori, alle preghiere ingenue rivolte a persone e animali e oggetti inanimati alla tenerezza che descrive il loro rapporto tra piccoli dispetti e mutue rassicurazioni, il libro è imperativo categorico al femminile di Jonathan Coe, nella sua ideale controparte femminile e americana. Donne, non in cerca di guai, ma solo della propria identità.

Angela e Julie Scipioni, “Iris & Lily”, Bompiani 2015, Collana narratori stranieri, traduzione di Carlo Prosperi, pp. 1400

 

IMMAGINARIO
Bassani forever.
La foto di oggi…

Arriveranno da tutto il mondo accademico a Ferrara – oggi e domani – per parlare dell’autore del “Giardino dei Finzi-Contini” e de “Gli occhiali d’oro”: italianisti delle università di Ankara, Berlino, Castilla-La Mancha, Korcë, Grenoble, Lubiana, Marsiglia, McGill, Melbourne, Paris III, Utrecht, Varsavia, nonché delle facoltà nazionali di Pisa, Iulm e L’Aquila. Tutti qui per il convegno internazionale su “Giorgio Bassani e la cultura ebraica del Novecento a Ferrara (e dintorni)”. Due giornate dedicate allo scrittore nel 99° anniversario della nascita, avvenuta nel marzo 1916.

La tavola rotonda è organizzata negli spazi sotterranei dell’Imbarcadero del castello a cura di  International conferences on Jewish Italian literature (Icojil), Università di Utrecht e Comune di Ferrara con la collaborazione di Istituto di storia contemporanea, Fondazione Giorgio Bassani e Gruppo culturale del Tasso. Chiusura con immersione nei luoghi che hanno ispirato le sue opere e, in particolare “L’Airone”: l’escursione a Comacchio nella giornata di sabato, 21 marzo. Iscrizioni per il convegno ore 8.45-9.15 di oggi nell’imbarcadero, largo Castello 1.  Info su Cronaca comune e Gruppo del Tasso, tel. 328 0116981.
OGGI – IMMAGINARIO LETTERATURA

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Giorgio Bassani nel manifesto del convegno internazionale in programma oggi e domani nell’Imbarcadero del castello di Ferrara

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]

GERMOGLI
Padre.
L’aforisma di oggi…

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

wilhelm_busch.307Dedicato a quei padri che lo sono e lo sono stati, ma anche a quelli che un giorno lo saranno.

“Non è difficile diventare padre. Essere un padre: questo è difficile”. (Wilhelm Bush)

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