Skip to main content

Giorno: 23 Aprile 2015

logo-comune-ferrara

“Passeggiata prima di cena…alla scoperta della Ferrara Ebraica e del centro storico” con Francesco Scafuri

da: ufficio stampa Comune di Ferrara

Visto il successo delle precedenti edizioni, anche quest’anno sarà Francesco Scafuri (responsabile Ufficio Ricerche Storiche del Comune di Ferrara) ad accompagnare il pubblico durante il percorso guidato nel cuore della città (a piedi o con bicicletta a mano) previsto nell’ambito della Festa del Libro Ebraico. L’appuntamento è per lunedì 27 aprile alle 18 con partenza da piazzetta Schiatti. Lo stimato esperto di storia del patrimonio monumentale ferrarese illustrerà le interazioni tra l’ebraismo ferrarese e la storia della “capitale estense”, ma non mancherà qualche sorpresa durante l’itinerario, che si concluderà in piazza Municipale. Tra le soste previste, anche quella in piazzetta Carbone, dove sorge l’ex chiesa di San Giacomo, uno degli edifici più misteriosi della città, le cui vicende si collegano, sia pure per un breve periodo, con quelle del vicino Ghetto Ebraico. Scafuri, inoltre, parlerà degli episodi più significativi che hanno caratterizzato i diversi siti compresi nella passeggiata, dai suggestivi vicoli del “quartiere ebraico” alle bellezze della zona medievale. La storia della piazza principale della città (a lato del Duomo) costituirà il filo conduttore dell’iniziativa, anche alla luce delle recenti scoperte, ma la narrazione comprenderà pure i complessi architettonici di maggiore pregio che vi si affacciano.

Sarà un itinerario nel centro cittadino, nei luoghi che richiamano alla memoria famosi architetti del passato quali Leon Battista Alberti e personalità del mondo ebraico come Giorgio Bassani, ma anche figure mitiche come i Cavalieri Templari, i cui legami con Ferrara rendono la città ancora più affascinante e stupefacente.

Telethon torna in piazza: al via la campagna di primavera

da: organizzatori

Per i venticinque anni dalla nascita dell’iniziativa di solidarietà, il 25 e il 26 aprile Telethon torna in piazza con la campagna di primavera.
I nostri volontari saranno presenti a Ferrara sotto il Volto del Cavallo e in Piazza Trento e Trieste con i «Cuori di biscotto».

Cuori di biscotto di delicata pastafrolla, arricchita con cacao pregiato e gocce di cioccolato prodotti dall’antica pasticceria artigianale genovese Grondona. Sulla confezione di latta color argento è riportata la scritta “Io sostengo la ricerca con tutto il cuore”. In ogni scatola ci sono tre vaschette, confezionate separatamente e contenenti 6 biscotti da pasticceria per un totale di 18 biscotti e un peso complessivo di 300 grammi. Ogni vaschetta è confezionata singolarmente per mantenere il profumo e la fragranza dei biscotti appena sfornati.
Potrà essere ritirata a fronte di una donazione minima di 10 euro.

A buon titolo oggi la Fondazione Telethon è considerata un’eccellenza italiana nel mondo tanto che i propri laboratori vengono oggi considerati tra i primi su scala mondiale, e la ricerca sviluppata ha dato un contributo determinante alla conoscenza scientifica.
Orgoglio di tutti noi è che la Fondazione è nata dagli Italiani e con i contributi degli stessi e vive e si alimenta con le elargizioni che giungono da donazioni spontanee, dal ricavato da eventi, lasciti, acquisto di prodotti solidali etc.
La campagna di primavera Telethon acquisisce quindi una grande importanza perché viene aggiunto un altro mattone a quell’ideale edificio che Telethon sta costruendo contro le malattie genetiche rare

E’ stata realizzata un’area dedicata del sito della Fondazione e inoltre sarà veicolata una campagna di comunicazione dal titolo #eccoperché il cui scopo è proprio quello di spiegare perché sia così importante sostenere Telethon con una donazione e anche attraverso la scelta di destinazione del 5×1000.
Dalla sua fondazione Telethon ha investito in ricerca oltre 423 milioni di euro, ha finanziato 2.532 progetti con 1.547 ricercatori coinvolti, 9.836 articoli scientifici pubblicati e 449 malattie studiate.

identità-solida

CAMBIA-MENTI
Identità solida in una società liquida

Il termine società liquida è stato utilizzato da Bauman per indicare la precarietà dei legami sociali odierni e la facilità con cui vengono dissolti e ricomposti. Ciò indica una difficoltà a mantenere le relazioni. Parte di questa difficoltà è da attribuire a identità fragili e che faticano a trovare il proprio centro.
Ma che cos’è l’identità? Essa è tutto ciò che caratterizza ciascuno di noi come individuo singolo e inconfondibile. E’ ciò che impedisce alle persone di scambiarci per qualcun altro. Così come ognuno ha un’identità per gli altri, ha anche un’identità per sé. Quella per gli altri è l’identità oggettiva, l’identità per sé è l’identità soggettiva. Esistono delle discrepanze fra come io mi sento e mi definisco e come mi vedono gli altri. L’identità oggettiva è quella che costruiamo durante la vita, quanto più un individuo conosce le proprie caratteristiche, tanto più potrà costruire un’identità riconosciuta dagli altri.
L’identità si forma principalmente attraverso due processi: l’identificazione attraverso cui il soggetto si ispira alle figure a cui si sente simile e con le quali condivide alcuni caratteristiche. Ciò produce il senso di appartenenza a un’entità collettiva definita come “noi” (famiglia, gruppo, comunità locale, nazione). L’altro processo è l’individuazione attraverso cui il soggetto fa riferimento alle caratteristiche che lo distinguono dagli altri, sia dagli altri gruppi a cui non appartiene, sia dagli altri membri del gruppo rispetto ai quali il soggetto si distingue per le proprie caratteristiche fisiche ed etiche e per la propria storia individuale che è sua e di nessun altro.
Alcuni degli ingredienti che concorrono a creare un’identità solida sono: una buona autostima, essere autocentrati mantenendo uno sguardo verso l’altro, avere capacità di adattamento ma senza conformarsi. L’essere riconosciuti è la condizione essenziale per poter trovare un posto ed essere a propria volta riconoscenti.
Un mio paziente che ha sviluppato un’identità fragile proprio per una mancanza di riconoscimento, così esprime la sua percezione: ”Mi sento di cristallo, ho paura che l’altro mi rompa in mille pezzi”.
Un’altra paziente descrive bene come la sua identità sia stata plasmata dall’altro e come questo abbia reso difficoltosa la costruzione di un’identità forte: “Nacqui principessa. Mi fu costruito e cucito nella pelle e attorno un mondo di carta… divenni di carta anch’io”. Un’altra paziente afferma: “Mi furono messi degli occhiali da cui si vedeva il mondo perfetto pensato per me da mio padre e da mia madre. Fu così che persi la vista, a causa degli occhiali sbagliati smisi di vedere me e chi ero veramente”.
A volte è necessario un percorso di cura per ritrovare se stessi, a volte per incontrare il proprio sé per la prima volta. Significative le parole di un’altra mia paziente: “C’è chi lo chiama guarire, io preferisco cominciare ad essere. La guarigione per me è la ricerca delle chiavi. Il passo verso la guarigione inizia con un passaggio doloroso: dal personaggio alla persona. È il passo fuori dall’isolamento della prigione del mio io. La guarigione è la strada verso la libertà individuale. La libertà con il peso che contiene. La libertà di assumersi la responsabilità della propria autenticità e unicità”.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

Solo il 20% dei giovani occupati è soddisfatto del proprio lavoro

Orari improponibili, paghe ridicole, richieste assurde. Questo è ciò a cui vanno incontro i giovani oggi quando cercano lavoro. Ci sono ragazzi che appena si laureano, dopo tre anni di università, pretendono di trovare subito un impiego, lamentandosi se entro breve tempo non vengono assunti da qualche parte; e ci sono quelli che invece dopo la triennale si iscrivono alla magistrale e, possibilità economiche permettendo, fanno un master o cercano uno stage nel loro campo di interesse, al fine di mettere in pratica ciò che per anni hanno studiato sui libri, sapendo che l’esperienza è fondamentale.
Sarebbe giusto, onesto, che il nostro Paese premiasse tutti quegli individui che con pazienza e tanta volontà cercano di acquisire più competenze possibili in modo da avere un numero superiore di sbocchi professionali.
Studiare e lavorare sono sia doveri che diritti di ogni cittadino, peccato che le possibilità che vengono offerte ai giovani oggi siano sempre meno.
Pur di racimolare qualche soldo, si accettano lavori sottopagati, lavorando un numero di ore superiore rispetto a quelle che vengono effettivamente retribuite. Spesso il datore di lavoro richiede al giovane dipendente di lavorare in orari straordinari, con tempistiche e scadenze che vengono imposte e che devono venir rispettate senza peró ricevere una paga adeguata. Perché è di questo che si parla; è inutile credere che le aziende assumano i giovani con contratti temporanei, orari assurdi e paghe minime per far si che “si facciano le ossa”. Lo fanno esclusivamente perché loro ne traggono vantaggio. Chiaramente la crisi economica ha aggravato la situazione dell’intero mercato del lavoro. L’Italia è infatti uno dei Paesi con il più basso tasso di occupazione giovanile.
Per fortuna però la maggior parte dei ragazzi cerca di far fronte al problema, adattandosi come meglio può e accettando impieghi lontani dai propri sogni e dalle proprie aspettative. L’Istituto Toniolo, attraverso l’indagine “Rapporto Giovani”, ha infatti evidenziato che solamente il 20% dei giovani con un impiego è pienamente soddisfatto di ciò che fa. Da un lato vi è la voglia di fare esperienza, di iniziare a guadagnare per non dover sempre appoggiarsi ai propri genitori; dall’altro la rassegnazione, l’accettare quel poco che attualmente il mercato italiano offre.
Non è giusto. Non è giusto mettere da parte i propri sogni per colpa di un Paese che non sa ricompensare i propri cittadini. Non è giusto dover optare per l’estero perchè spesso sembra essere l’unica scelta, l’ultima spiaggia.
Spesso, dopo essersi laureati, i giovani passano mesi alla ricerca di un impiego, utilizzando soprattutto il web; quando peró, dopo aver filtrato infiniti siti internet, valutato le proposte, spedito curriculum e sostenuto colloqui inconcludenti, non trovano niente di vantaggioso, iniziano a pensare a ció che l’estero puó offrire.
Ci sono giovani che salutano la propria casa con entusiasmo: per loro lasciare il proprio paese e andare a vivere altrove è un’esperienza unica, un’avventura, un’occasione di crescita.
Ci sono giovani invece che detestano talmente tanto sia il proprio paese sia chi lo governa, che vedono l’estero come una vera e propria “fuga” di salvezza.
E infine ci sono quei giovani che credono che l’Italia sia il Paese piú bello al mondo, ma che sia stato da troppo e per troppo tempo nelle mani sbagliate. Per questi ragazzi lasciare i propri parchi, i propri monumenti storici, le proprie abitudini, per raggiungere nuove mete europee, o addirittura un nuovo continente, costituisce una grande sofferenza, tante rinunce e sacrifici. L’andare all’estero dovrebbe essere un’opzione, ma sempre piú spesso sembra essere una “scelta obbligata”.
I giovani temerari, quelli che non vogliono farsi schiacciare dal sistema, cercano di reinventarsi, ma sono pochi quelli che riescono ad avere idee davvero vincenti. Molti aprono un proprio blog, altri si dedicano all’ecosostenibile e ai prodotti biologici che oggi vanno tanto di moda; c’è chi opta per il mondo dell’arte e dello spettacolo e chi invece sceglie di seguire le orme dei propri genitori. Sta di fatto che trasformare una passione in un business è difficile. Oggi vanno ricercate le nicchie inesplorate.
La prima parte dell’articolo 1 della nostra Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Io coreggerei la frase così: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla ‘ricerca’ del lavoro”. Studiare, diplomarsi, laurearsi, specializzarsi e poi? E poi sperare. E’ questo che oggi noi giovani facciamo, ma come recita il noto proverbio: “Chi vive sperando muore…” e il finale lo conosciamo tutti.

E i droni saranno piccoli come insetti: tecnologie e web annientano la privacy e favoriscono il controllo globale

“Continueremo ancora ad accettare caramelle dagli sconosciuti perché in cambio otteniamo servizi. Ma stiamo arrivando a saturazione. Il livello della glicemia – per così dire – è ormai al limite”. A sostenerlo è Giovanni Ziccardi dell’Università di Milano. “Del livello di violazione della privacy a cui siamo giunti a causa del sistematico e disinvolto impiego delle tecnologie e della rete – aggiunge – prenderemo piena coscienza grazie ai droni. Saranno miniaturizzati, della dimensione di un insetto, e si infiltreranno ovunque: per questo coloro che vogliono tutelare la privacy paradossalmente non ne ostacolano l’avvento, perché ritengono saranno la pietra dello scandalo che indurrà gli utenti ad aprire finalmente gli occhi”.

In effetti stiamo gradualmente ma inesorabilmente consegnando le chiavi di accesso alla nostre vite a chi gestisce i servizi di comunicazione, attraverso il web e le varie tecnologie che ci accompagnano passo a passo: numeri di telefono, indirizzi, profili personali, preferenze, abitudini, attitudini… Informazioni che combinate fra loro ci mettono a nudo. Temi, questi, che sono stati al centro dei dibattiti del Festival del giornalismo di Perugia che si è concluso domenica. A Facebook, Twitter e agli altri social media affidiamo i nostri profili identitari, riveliamo i nostri gusti, consegniamo le nostre immagini; per loro tramite diffondiamo le nostre idee e il nostro credo. I dati si incrociano e si intersecano. Quando utilizziamo i servizi forniamo ogni volta informazioni di base che consentono di porre in corrispondenza gli acquisti fatti, con i viaggi, con le petizioni sottoscritte, con la rete delle nostre amicizie, con i siti più frequentati. I sistemi di geolocalizzazione ci individuano in ogni spostamento. Siamo diventati trasparenti, facili prede per i venditori, facili bersagli per i controllori. Il Grande Fratello sorveglia le nostre esistenze, sa cosa vogliamo, sa cosa pensiamo. Ci controlla: può assecondare i nostri desideri o decidere di circoscrivere il nostro spazio di azione.

La denuncia di Edward Snowden (il tecnico informatico dei servizi segreti statunitensi che ha rivelato le strategie di controllo di massa attuate dai governi americano e britannico) ha confermato ciò che molti paventavano. L’utilizzo dei dati desunti dall’impiego di strumenti elettronici e tecnologici non solo è funzionale ad alimentare la catena del commercio ma funge anche da supporto per la schedatura di tutti i cittadini. I peggiori scenari preconizzati da Orwell o Huxley trovano drammatica conferma nella realtà. Il documentario ‘Citizenfour’ premiato a febbraio con l’Oscar e proiettato anche a Perugia durante le giornate del festival, rivela le ombre fosche e inquietanti del nostro presente.

In Italia, frattanto, il dibattito e l’azione politica si concentrano su privacy e disciplina di Internet. La presidente della Camera, Laura Boldrini, intervenuta a Perugia, ha illustrato i principi di base di una norma appena messa a punto del Parlamento. “Si tratta di una disciplina che ha lo scopo di regolamentare l’utilizzo del web, non certo quello di ingabbiarlo – ha assicurato -. Il senso del provvedimento è quello di fornire principi che garantiscano la tutela della cittadinanza digitale. So bene quanto sia importante Internet, anche grazie alla mia  precedente esperienza: quando mi è capitato – prima del mio incarico alla presidenza della Camera – di girare per il mondo visitando, per esempio, i campi profughi, ciò che i giovani chiedevano primo di ogni altra cosa era proprio internet, per avere la percezione di cosa c’era fuori da quel recinto. Quindi ho piena consapevolezza del valore dello strumento e della necessità di preservarlo libero”. Occorre, al contempo, fornire precisi riferimenti di garanzia per tutti, “una sorta di costituzione per la cittadinanza digitale”, come fra gli altri auspicato anche da Stefano Rodotà.

“Ostacola i concorrenti”: anche Google accusata di abuso di posizione dominante

Dopo Microsoft, Bruxelles si è dimostrata pronta a procedere legalmente verso un altro colosso del web. Google, noto motore di ricerca, attualmente gestisce il 90% circa delle ricerche a livello europeo, vantando un totale di 60 trilioni di pagine web indicizzate dal suo dominio.
E’ proprio il gigante di Mountain View il protagonista della nuova procedura di obiezione, emessa dall’organismo Garante della concorrenza e del mercato della Commissione europea, dove è stata formalmente espressa l’accusa di abuso di posizione dominante in riferimento sia al motore di ricerca, sia al sistema operativo Android, acquisito dallo stesso diversi anni prima. L’accusa, dunque, si fonderebbe sul fatto che la forte attrazione che i prodotti dell’azienda attirano su di sé consente di detenere un potere di mercato enorme, cosa che di per sé non rappresenta un abuso, ma il fatto che grazie a questo abbiano potuto trarne un vantaggio sì.
Autopubblicizzandosi o assicurando visibiltà ai suoi prodotti, Google avrebbe recato danno ai consumatori, ingannandoli, e ai concorrenti immettendo delle barriere all’entrata, veri e proprio ostacoli alla partecipazione in quel segmento di mercato. Inoltre, si parla di impatto negativo sull’innovazione che avrebbe potuto impedire l’affermazione di nuovi mercati, processi o prodotti tramite un meccanismo di occlusione. Insomma l’azione di Bruxelles avrebbe come obiettivo principale quello di garantire il libero mercato; in attesa di una sentenza definitiva, però, si apre spazio per nuove riflessioni.
L’accezione di bisogno ha sempre rappresentato il punto di partenza di un’idea economica: fin dall’antichità, infatti, le imprese nascono per soddisfare i bisogni delle persone; col passare del tempo però, i bisogni sono stati smembrati e divorati, rendendo difficile concepirne di nuovi. L’informazione e la conoscenza allora, hanno cominciato a svolgere il ruolo di variabili economiche, sostituendo i bisogni primari, premiando chi le detiene con una sorta di capacità di plasmare e guidare il mercato.
In questo senso, la vicenda risulta emblematica, se si pensa alla quantità di informazioni che Google possiede sulle persone che lo usano, sui loro interessi, il loro stile di vita ed i loro desideri: un mercato talmente smisurato da sembrare “dominante”.

Ex Sivalco, c’è ancora l’eternit nell’ecomostro del Delta

E’ ancora carico di eternit, ma un po’ meno pericoloso, l’ecomostro del Parco del delta del Po, l’impianto pilota dell’ex Sivalco di Valle Campo, dove in passato si è cercato di allevare l’anguilla in cattività. Oggi il rudere ha un nuovo recinto e dopo 18 anni, diverse segnalazioni e denunce dei media, è stata sgomberata una piccola parte dell’amianto che lo ricopre. Le lastre usurate si erano staccate dal corpo centrale del capannone – esponendo alle intemperie trattori e marotte, le imbarcazioni adibite al trasporto di anguille vive dalle stazioni di pesca ai mercati di vendita – e avevano cominciato a svolazzare tutto intorno. I fogli verdi e le pericolose fibre di cui sono composti sono stati smaltiti dopo il sopralluogo della padrona di casa, la Regione, e della Provincia che ha messo mano alla parziale bonifica. Ma la sostanza non cambia, la “verde” Sivalco è ancora lì, quasi immutata, a fianco della finestra dei fenicotteri, il garofano all’occhiello del Parco.

ex-sivalco-delta
Blocco centrale con copertura di eternit

L’amianto può attendere e anche i rifiuti speciali, rimanenze di laboratorio ancora chiuse nelle bottiglie con tanto di etichette farmaceutiche, le barche sfasciate e i macchinari ridotti a rottami. Restano lì, divorati dalla ruggine e dall’umidità, ospiti di fatiscenti palazzine a un piano dalle porte divelte, dove acqua, topi e arbusti vivono in simbiosi. E’ il degrado, ma non è emergenza. E la crisi non facilita i lavori di bonifica. E’ vero, ma va pure scritto che fino al 2008 il portafogli della pubblica amministrazione non risultava leggero come quello attuale. C’è da chiedersi come mai, l’invocato sviluppo del turismo naturalistico non abbia reclamato, in anni meno difficili, la trasformazione dell’ecomostro in un pezzo di archeologia industriale come è successo altrove.

ex-sivalco-delta
Macchinario di laboratorio
ex-sivalco-delta
Flaconi di medicinali

Gli esempi non mancano, basti pensare al villaggio operaio di Crespi d’Adda e al Museo dell’arte della lana ricavato nello stabilimento dell’ex lanificio di Stia per capire quanto una metamorfosi possa incontrare le simpatie di un pubblico curioso e appassionato di scoprire l’identità di una terra diversa dalla propria. Invece il ritornello è sempre lo stesso: niente soldi, niente opere. Possibile che le decantate joint venture pubblico-privato non diventino l’occasione di un recupero a misura di turismo slow? Eppure la cultura può essere business, lo sostengono da tempo gli stessi imprenditori rivieraschi. L’attenzione però sembra concentrarsi tutta sulla costa e sull’atteso riconoscimento Unesco della riserva del Delta, vissuto come la panacea del pacchetto turistico da spendere tra i due parchi emiliano e veneto

ex-sivalco-delta
Vasche per l’allevamento delle anguille

Nel frattempo, per migliorare la situazione dell’ex Sivalco, basterebbe un pannello scritto con cui spiegare la storia della struttura, la cui presenza e condizioni d’abbandono contrastano con la bellezza della valle oggi mèta sempre più frequente di villeggianti e visitatori stupiti dal trovarsi improvvisamente di fronte a un “fantasma” di pietra dalle tettoie ondulate. Mica gli si può dar torto, magari qualche spiegazione sì.

ex-sivalco-delta
lavoriero

Con o senza l’ombrello Unesco, una cosa è chiara: è mancata la volontà politica di trovare una soluzione per gli edifici in disarmo dell’impianto. In un passato nemmeno troppo lontano la dirigenza del parco ne aveva chiesto l’affido alla Regione, c’era l’idea di usare la struttura per realizzare progetti legati all’energia alternativa o a un mix di storia e arte, che prima della crisi avrebbero trovato finanziamenti con maggior facilità. Non se ne è fatto nulla e la struttura è diventata il monumento di uno dei tanti sprechi di denaro pubblico, tanto da aver chiuso i battenti nel 1996 con un debito di 17 miliardi di ex lire. Fallimento su tutta la linea.

Sivalco, società che vedeva insieme Regione, Comune, Provincia, Ersa e Sopal, gestiva l’impianto sperimentale divenuto centro ricerche a fine corsa; i dipendenti vennero assorbiti da Arpa di Ferrara e Ravenna e della liquidazione della spa se ne occupò il consorzio Azienda speciali Valli di Comacchio, partecipato da Regione e Comune. Di storie così ce ne sono tante, ma quando si consumano a pochi passi da casa diventano più amare. Soprattutto in tempo di crisi.

Uomini e terremoti, una convivenza possibile

di Riccardo Viselli

Prevedere i terremoti significa poter definire dove si verificheranno, che magnitudo avranno e soprattutto quando si verificheranno. Ai primi due quesiti i geologi, in decenni di ricerche e monitoraggi (non sempre con la collaborazione delle istituzioni, spesso distratte e superficiali) hanno saputo dare una risposta: con la zonazione e la microzonazione sismica oggi possiamo definire, con l’accuratezza richiesta dagli scopi di protezione civile, dove ci saranno terremoti e a quali accelerazioni sottoporranno i terreni e le costruzioni umane. Il terzo quesito, invece, è tuttora irrisolto ed a nulla hanno finora condotto gli studi sui fenomeni premonitori, nonostante le chiacchiere che spesso si susseguono, soprattutto sulla rete, a seguito di terremoti di una certa importanza.
Al momento pertanto la migliore protezione dal rischio sismico consiste nella microzonazione sismica accompagnata dalla edilizia anti-sismica: l’Italia è un Paese a rischio elevato e il verificarsi di terremoti anche importanti non è affatto un evento raro. Cento anni fa, il 13 gennaio 1915, un terremoto devastante, cosiddetto di Avezzano (magnitudo 6.9), seminò morte, distruzione ed angoscia in larga parte dell’Italia centrale con particolare riferimento all’Abruzzo ed al Lazio. Non dobbiamo aver imparato molto se in questi ultimi anni, per mancanza di fondi legata ad una politica miope e fatta di annunci, ricercatori indipendenti segnalano che alcune stazioni di monitoraggio sismico hanno smesso di funzionare ed una importante Regione italiana ha soppresso il proprio Servizio geologico.
La ricerca sismica ha bisogno di rilevamenti geologici e strutturali, ma anche di dati strumentali: senza una rete adeguata di sismografi e di geologi al servizio della comunità saremo tutti più a rischio. Un centro di ricerca privato, formato da geologi professionisti ed i cui studi sono scaricabili al link www.sismologia.eu, sta conducendo da diversi anni approfondimenti su una vasta area dell’Italia centrale comprendente il Lazio meridionale, buona parte dell’Abruzzo e del Molise e la Campania settentrionale: utilizzando i dati microsismici pubblicati dall’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia), viene monitorata costantemente l’attività sismica e ne viene data comunicazione attraverso i canali informativi offerti dalla rete internet. Dovrebbe far riflettere che solo in questa area sono presenti almeno undici sistemi tettonici in grado di generare terremoti con magnitudo superiore a 5.5: si citano, a solo titolo di esempio, il già menzionato terremoto di Avezzano del 1915, quello di Venafro (magnitudo 6.62 avvenuto 665 anni fa) e di Sant’Eufemia a Maiella (magnitudo 6.60 del 1706). Ma molti altri sono potenzialmente in grado di fare parecchi danni: un approccio serio al problema richiederebbe che questa potenzialità fosse ridotta ai valori minimi ammissibili attraverso il controllo costante del territorio e l’adeguamento strutturale degli edifici.
E sarebbe doveroso anche un cambio di approccio da parte dei comunicatori: il terremoto, per l’Italia come per molte altre parti della Terra, è un compagno costante della nostra vita, testimonianza della ancora giovane età del nostro pianeta. Convivere con esso è necessario e perseguire le soluzioni utilizzando quello che la scienza e la tecnica oggi ci mettono a disposizione è indifferibile: monitoraggi, rilevamenti del territorio ed adeguamenti edilizi. Se poi, e questo è un auspicio utopico, gli Stati trovassero fondi anche per finanziare la ricerca nel campo della previsione, avremmo fatto tutto quanto nelle nostre possibilità per affrontare il tema con metodo scientifico e scevro dalle comprensibili emozioni che assurgono agli onori delle cronache solo a seguito di eventi di una certa gravità.

Presente precario: lo zapping del sindaco fra passato e futuro

Il mondo cambia, Ferrara anche. Lo si voglia o no, la città deve uscire dalle propria mura e trovare un nuovo equilibrio tra Bologna, Comacchio e il centro est emiliano. Tre punti cardinali di una dimensione geofisica, oltre che economica, imposta dall’abolizione delle Province e calata in una realtà ancora profondamente legata ai campanili. Restare ancorati ai propri confini è una questione culturale, d’abitudine e di organizzazione sociale, ma il modello va superato. Lo pretende il futuro, così come richiede il rafforzarsi di un’identità dei Comuni della provincia, da sud a nord, per favorire lo sviluppo e frenare il rischio di finire in coda a realtà più incisive e dinamiche, che potrebbero metterci alla corda ancora di più di quanto già non siamo. La missione è complicata, ma non si può fare diversamente.

intervista-tiziano-tagliani
Il sindaco di Ferrara Tiaziano Tagliani

Lo ha spiegato a più riprese il sindaco Tiziano Tagliani nel corso del colloquio con responsabili e giornalisti dei media cittadini (Cristiano Bendin Il Resto del Carlino, Stefano Scansani La nuova Ferrara, Marco Zavagli Estense.com, Stefano Ravaioli Telestense, Monica Forti Ferraraitalia.it) organizzato da “Think Tank – Pluralismo e dissenso”. Oggi Ferrara gioca la sua partita facendo della stabilità di governo un valore indispensabile per superare lontananze e divisioni storiche, ancor più accentuate nei paesi della provincia estense, e Bologna realtà metropolitana a cui siamo legati soprattutto per la mobilità. Sono realtà lontane per cultura, ma nell’assetto politico nel quale ci stiamo addentrando, devono stare insieme e i sindaci di Comacchio e Cento, partecipare al disegno istituzionale per il bene di tutti. “E’ difficile pensare che Goro avverta un legame con la città metropolitana e lo è altrettanto credere che un sindaco metropolitano faccia gli interessi di Ferrara – ha detto – In questo quadro bisogna capire con cosa si vuole riempire l’area vasta, Merola chiederà di rafforzare la relazione con il centro-Emilia, ma se non c’è un disegno equilibrato si finirà con il sciogliere la regione”. La sfida è servita.

Due ore tra domande e risposte dalle quali sono emerse la speranza di un lieto fine della disastrosa vicenda della Cassa di Risparmio. “La cattiva gestione dell’istituto ha fallito, i contraccolpi si sono sentiti anche in altre città, Genova, Asti – ha spiegato – C’è stato un momento in cui sembrava esserci un acquirente e avevo chiesto una pluralità d’offerta, ma è tutto. Nessuna pressione, ognuno deve fare il proprio mestiere. La politica è rimasta fuori dalla Cassa da almeno 16 anni e l’attuale situazione è identica a quella di un’asta immobiliare”. Sul fronte della chimica ha sottolineato le difficoltà di realizzare un polo “verde”, l’intenzione è quella di proseguire nelle operazioni di bonifica, ma resta il problema di trovare chi investa in un settore fermo in tutt’Italia. Quanto alla possibilità di nuovi insediamenti imprenditoriali, Tagliani è stato chiaro, un sindaco può sollecitare le occasioni, snellire il più possibile la burocrazia per invogliare gli imprenditori a mettere radici nel Ferrarese, ma la decisione finale spetta sempre a chi tiene i cordoni della borsa. Qualche volta va male e qualche altra meglio come nel caso di Manifatture Berluti, scarpe artigianali di alta qualità a, che ha fatto base a Gaibanella e pensa di allargarsi in un prossimo futuro. Non è certo fabbrica dai grandi numeri, ma rientra nell’ambito di un mercato di nicchia prestigioso capace, grazie ai prodotti di lusso, di reggere le contrazioni del mercato.

Nello zapping tra passato e futuro il sindaco, ha ricordato il tramonto delle imprese di costruzioni incapaci di competere con il mercato, ma ha salvato la “buona eredità”: “Abbiamo una città della cultura che continua ad andare avanti, perché l’idea era ed è buona”, ha precisato. C’è l’intenzione di affiancare al Palazzo dei Diamanti, immagine di punta del turismo culturale, un ristrutturato Palazzo Massari da trasformare in un tempio dei “saperi” ad uso cittadino. E proprio dove la cultura s’intreccia con il turismo, sotto il cappello del riconoscimento Unesco e nell’attesa dell’approvazione del progetto Mab (Man and biosphere) del Delta, da cui a giugno dovrebbe nascere una riserva naturale, il destino di Ferrara appare legato a doppio filo con quello di Comacchio, che solo lo scorso anno, a riforma delle Province avvenuta, ha votato il referendum per passare sotto quella di Ravenna. Ma i matrimoni, si sa, alle volte sono d’interesse, superano i dissapori e sfociano in alleanze tra business e politica. Soprattutto a fronte di certi sintomi. Un esempio? La politica delle grandi mostre si scontra con budget assottigliati e rischia di andare compromessa dall’intraprendenza di altre città, che mettono in scena più di un’esposizione di richiamo a pochi chilometri da Ferrara, “rubandole” turisti, visitatori e incassi. Il valore estetico di Ferrara non si mette in discussione, ma bisogna renderla particolare, unica e vendibile.

“Allargare il centro storico riqualificandolo è una cosa di interesse collettivo – ha precisato – vorrei poter convincere i commercianti che più è grande più la città ci guadagna. Dobbiamo spingere per la sua bellezza”. Sgomberare il “listone” dalle bancarelle, polemiche o no, sembra far parte del nuovo look e di un più largo progetto nel quale storia, architettura e natura si devono mescolare e offrirsi quale sostegno all’economia ferrarese, che per ora non può contare su un vasto numero di aziende ispirate alla sostenibilità e alle energie rinnovabili come il sindaco spera al punto da spendersi perché gli spin off universitari diventino vere e proprie realtà imprenditoriali. Nel frattempo bisogna essere tanto bravi da affascinare i turisti, da essere speciali. E’ la chance più immediata. “Inutile chiedere una fermata di Italo o Frecciarossa  – ha insistito Tagliani – Prima vanno create le condizioni perché ciò avvenga”.

La vocazione culturale ha allora bisogno di un turismo tinto di naturalismo che fa del Po e del suo Delta un tesoro a cui restituire il giusto posto nel mondo e dell’idrovia, la via d’acqua degli appassionati del grande fiume la cui porta d’ingresso è la città capoluogo, l’ottava stazione del Parco. Stazione ancora lontana dall’essere istituita, specifica Tagliani, perché il Parco del Delta del Po è in sofferenza. “Ci sono delle difficoltà normative di cui sta facendo le spese, è necessaria una nuova legge regionale e bisogna lavorare bene sul Delta, che fa parte della nostra cultura e va rispettato come bene comune quale è. Il Mab Unesco, che ci trasforma in riserva, è una straordinaria occasione per tutti”, ha detto. “Il parco è un valore aggiunto, è ovvio che ci sono delle difficoltà di gestirlo dal punto di vista della sostenibilità ambientale. Abbiamo a che fare con una forte antropizzazione, a cominciare da quella dei lidi, a cui siamo abituati a pensare in termini di seconda casa. Certo negli anni ’60 l’intera partita poteva essere governata meglio. Resta il fatto che l’habitat comacchiese è una grande occasione per l’economia turistica, alcuni imprenditori l’hanno capito. Penso inoltre al cuore del lido di Volano, ha rapporti con la pineta, con le valli e si presta a una qualità edilizia nuova e diversa”. E’ evidente che l’ormai trentennale progetto di creare una struttura-villaggio nei terreni della Provincia, a ridosso della spiaggia, non è ancora tramontato.

Nel frattempo il Parco arranca, appare in disarmo, anche dal punto di vista della dirigenza tecnica, il direttore Lucilla Previati, ma non è l’unica, ha lasciato l’ente. “Per ovviare abbiamo stretto un accordo con l’Università di Ferrara, a occuparsi temporaneamente dell’aspetto ambientale, sarà Giuseppe Castaldelli del Dipartimento di biologia ed evoluzione”, ha precisato.
Parco in stand by e idrovia inceppata a nord a causa del ponte sulla ferrovia da rialzare per permettere il passaggio delle imbarcazioni di quinta classe: l’imbuto più criticato della grande opera alla cui realizzazione ha contribuito l’Europa. Ferrara città non vive l’idrovia con particolare attesa, piuttosto guarda al Sebastian, la nave-pizzeria incagliata nella darsena. “Abbiamo dei problemi tecnici, andranno risolti con il tempo come è accaduto in altre città d’Europa. E’ tutto difficile, mettere d’accordo tante amministrazioni, spostare il pub, però andiamo avanti. Intanto cerchiamo di chiudere quanto prima il cantiere ferroviario di via Bologna”.
I cantieri dell’idrovia, quelli verso il mare, sostiene, saranno ultimati entro il 2015, mentre a nord si lavora al progetto di qualificazione del canale Boicelli. Il quadro è in divenire: “In questa situazione gli imprenditori sono a rimorchio dello stato dell’arte, ma intanto è bene sfruttare quanto già c’è a favore del turismo fluviale – prosegue – Per ora passeranno le bettoline di classe inferiore alla Va. Non c’è ragione di rinunciare al progetto, si farà un passo alla volta”.

Dalla lunga conversazione non potevano mancare la vicenda del Sant’Anna di Cona e la recente sentenza emessa dal Tribunale ferrarese: “Sono in politica da 25 anni, personalmente non votai la delibera con cui se ne approvò la nascita. Sono diventato sindaco nel 2009, quando il Sant’Anna di Ferrara era già chiuso – ha ricordato – Mi assumo invece la responsabilità politica di averlo fatto aprire e aggiungo che ha retto il terremoto. Quanto alla sentenza, prendo atto del lavoro della magistratura dal quale non risultano tangenti incassate”. Insieme al lascito Sant’Anna, ha precisato, c’è anche quello del debito di 170 milioni di euro trovato al suo arrivo e che entro il 2019, alla scadenza del secondo mandato, vuole dimezzare. “Vogliamo restituire ai cittadini 90 milioni di euro per dare ossigeno alla città e agli amministratori che verranno dopo di me”, ha spiegato. Un’intenzione legata ad un modo diverso di governare senza il quale si rischia di pagare pegno: “Ci sono città ancora governate con il vecchio sistema, i buchi finanziari diventano inevitabili e quei buchi, vengono pagati anche con i soldi dei ferraresi”.

Quella al sindaco Tiziano Tagliani è l’ultima delle tre interviste con i sindaci degli ultimi 31 anni, organizzate dal Think tank ferrarese “Pluralismo e dissenso”, presentate e moderate dallo storico esponente dei Radicali cittadini Mario Zamorani.

Leggi l’articolo di presentazione dell’iniziativa [vedi].

Vita di contrada: lealtà, rispetto e passione nell’anello con diamante di San Benedetto

Gli stemmi delle contrade ferraresi rappresentano i simboli delle antiche casate Estensi, legati a principi, condottieri o reali, e nel tempo sono stati modificati a tal punto che spesso è quasi impossibile risalire alla loro origine. La storica Micaela Torboli, nel suo libro “Diamante! Curiosità araldiche nell’arte estense del Quattrocento”, ha ripercorso la storia dell’anello con diamante, appartenente alla contrada San Benedetto, ricercandone l’identità originaria.

contrada-san-benedetto
Lo stemma dell’anello con diamante e fiore

“L’accoppiata anello con diamante/fiore ricompare in vari momenti nella storia della casata d’Este e il primo ad utilizzarlo fu Niccolò, a cavallo tra il Trecento e il Quattrocento. Pare che all’inizio il fiore all’interno dell’anello fosse una margherita pratolina, ma sono state date moltissime interpretazioni nel corso dei secoli, alcune anche improbabili, ad esempio l’opinione che questo fiore sia una Zinnia, che però fu importata in Italia dall’America molto tempo dopo. Sappiamo per certo che ha accompagnato la casata d’Este per tutto il XV secolo, trasmesso di generazione in generazione”.
La storica ha collegato l’anello Estense (un’altra interpretazione errata lo definisce anello papale) ad altre casate del Nord Italia, che lo hanno utilizzato nello stesso momento storico. La casata Sforza a Milano, i Medici a Firenze e i Visconti utilizzarono questo stemma araldico per suggellare le loro alleanze, così da riconoscersi e mostrarsi uniti. Oltre al fiore, che probabilmente fu un garofano rosso per Ercole d’Este, è da notare l’incastonatura del diamante, raffigurato al contrario, con la punta verso l’alto.
Massimiliano, in contrada da trent’anni, mi racconta che ricorda lo studio condotto dalla Torboli che fu anche ospitata per la presentazione del libro. Lui iniziò a frequentare San Benedetto quando era ancora parte dell’oratorio e ora fa il maestro di canto ma per la contrada ha fatto tutto, dice, tranne la dama. “Negli anni ’80 tutte le sedi erano all’interno delle parrocchie, ora invece questo cordone ombelicale è stato reciso e sono tutte dislocate. Questo cambiamento ha significato l’uscita dalla clandestinità, ci ha resi indipendenti, dandoci la possibilità di farci conoscere dalla città con la nostra vera natura. Le contrade hanno acquisito un’importanza diversa, diversificando anche le loro attività: prima ci si concentrava solo sugli allenamenti e su ciò che ruotava intorno al Palio, adesso invece ogni contrada è un microcosmo dalle mille sfaccettature, che non si interessa solo alla propria sopravvivenza ma anche a cause importanti. Noi, ad esempio, siamo legati all’onlus associazione Giulia e abbiamo un gruppo di donatori per l’Avis“.

I valori di cui tanto si parla e in cui si rispecchiano oggi i contradaioli non sono soltanto la lealtà, il rispetto e la passione per i propri colori, ma anche l’amore per la città e il benessere comune.
Tanti sono gli eventi in collaborazione con l’associazione Giulia, tra cui una cena ogni anno, il cui ricavato è interamente donato alla onlus, e l’apertura, fatta dai musici, della serata “Un angelo di nome Giulia” organizzata al Palazzetto dello sport. Punta molto sulla preparazione degli eventi il capo contrada, Nicola Pedace, che quest’anno realizzerà una cena propiziatoria in pieno stile senese, bloccando la strada davanti a Palazzo Diamante per festeggiare tutti insieme la notte prima del Palio. Nicola è entrato in contrada solo cinque anni fa, in punta di piedi, ma in poco tempo questo mondo e le sue tante idee lo hanno portato ad impegnarsi seriamente per realizzare ogni evento al meglio. “Degli amici che frequentavano San Benedetto mi invitarono a provare e, visto che le nostre figlie erano amiche, decisi di fare un tentativo. Questo mondo non mi aveva mai affascinato, anche se sono di Ferrara non avevo mai seguito nessun evento relativo al Palio, per questo all’inizio per me vivere la contrada era quasi un gioco. Ho iniziato a fare il musico e ho scoperto che mi divertivo, che le mie bambine stavano bene, e ho iniziato a frequentare la contrada più assiduamente, ma senza provare i sentimenti che nutrivano i miei amici già in contrada da anni. E’ difficile da spiegare, è come quando scoppia l’amore, serve una scintilla che trasformi il semplice stare bene in qualcosa di più”.

contrada-san-benedetto
Omaggio al duca nel cortile del Castello Estense

Due anni fa, l’amore è scattato anche per Nicola, durante la corsa dei cavalli.
“Eravamo in piazza Ariostea, stavamo tutti guardando la gara, quando il nostro cavallo è arrivato appaiato con quello di San Giacomo. Mi guardai intorno e vidi che i miei amici avevano la mia stessa espressione, stavamo provando le stesse emozioni e, da quel momento, tutto ha acquisito una valenza diversa. Ho iniziato a seguire anche il Palio di Siena ed è stata un’esperienza bellissima perché in quel periodo la città cambia e questo mi è servito per capire che a Ferrara andava fatto qualcosa. Col mio amico e tesoriere Alberto Ajmone, abbiamo iniziato a migliorare l’organizzazione degli eventi, per far sì che le persone si divertissero di più e avessero voglia di tornare, scoprendo che la vita di contrada è fatta di giochi, serate in compagniaspettacoli e divertimento. Mi piace che partecipi chi è esterno a questo mondo ma l’invito è esteso anche a tutti i contradaioli. E’ bello che ci sia un po’ di rivalità durante le gare, ma siamo amici anche se indossiamo colori diversi, ed è più interessante fare qualcosa insieme. Ad esempio, la serata di chiusura del College è stata aperta da un gruppo di musici formato da ragazzi delle diverse contrade, perché noi condividiamo la stessa passione.”

Tanti i cambiamenti che sono stati fatti negli ultimi anni, ma il problema principale della contrada San Benedetto è l’assenza di ragazzi tra i 20-25 anni, che impedisce la realizzazione di alcuni esercizi. Fabio e Giulia mi raccontano di questo “buco generazionale” con dispiacere, sperando nell’arrivo di qualche nuovo iscritto in attesa della crescita dei più piccoli, che invece sono molti e con tanta voglia di fare. “Io alleno le chiarine under – mi racconta Giulia, che ha 23 anni ed è in contrada da 9 – ed è bellissimo vedere come si divertono imparando qualcosa di nuovo. La contrada è un ambiente sano dove è possibile fare tante cose, imparare a fare qualcosa di pratico come suonare o ballare, ma dove sopratutto si gioca e si cresce insieme. A noi non pesa venire qui, tutto il contrario, ed è un peccato pensare che qualcuno creda che siamo circoli chiusi, restii a far entrare nuove persone. La nostra vera identità, però, si scopre solo venendo qui e provando. Tempo fa abbiamo contattato due maestre per le chiarine, loro sono tutte e due pugliesi e non avevano mai vissuto in una città in cui si facesse il palio, ma alla fine si sono iscritte qui a San Benedetto perché hanno trovato un ambiente in cui stavano bene”.

contrada-san-benedetto
La sagra estiva Erculea summer

Tra i tanti momenti di svago o di divertimento, tra cui l’Erculea summer, sagra organizzata nella sede della contrada in giugno, l’emozione più grande, secondo Fabio, è quella che si prova durante la Benedizione dei palii e dei ceri: “E’ una cerimonia che amo molto, in cui ogni contrada parte dalla propria sede e arriva sul sagrato del Duomo. Lì si crea un gruppo unico e i musici suonano tutti insieme prima della messa, durante la quale vengono benedetti i quattro palii e i ceri che ogni contrada ha con sé. Al termine della funzione ci si ritrova tutti fuori e si tenta di toccarne almeno uno dei quattro, con una bacchetta, la chiarina o con la bandiera, come gesto scaramantico. Speriamo sempre porti fortuna!”.

Tra fascinazione e paura: cartoline dal futuro

Ad alcuni il futuro appare denso di promesse, pieno di fascino, il regno della libertà e dell’emancipazione dai vincoli della scarsità; ad altri esso appare oscuro e pericoloso, lo spazio del dominio di forze ignote ed imprevedibili; altri ancora pensano e vivono come se il futuro non fosse altro che la grigia e banale prosecuzione del presente. La storia insegna a non disgiungere mai dal sogno utopico (positivo), l’incubo distopico (negativo), gli scenari positivi da quelli negativi, le opportunità dalle minacce, i ricavi dalle perdite, i beneficiari dalle vittime.
Questa attenzione è necessaria in particolare oggi che, forse per la prima volta nella storia dell’uomo, le tecnologie sembrano consentire la potenziale liberazione dal vincolo del bisogno e la fine del lavoro come attualmente concepito, consentendo dunque il superamento di un modello sociale dove la maggior parte delle persone scambia tempo di vita (dedicato ad un lavoro poco gratificante, svolto per gran parte della vita) con denaro (necessario per acquistare e consumare beni e servizi sempre nuovi). Potenziale liberazione che affascina ed impaurisce: può aprire straordinarie possibilità e grandi spazi di innovazione sociale, diventare la base per lo sviluppo dei talenti, della creatività, di nuovi saperi e capacità; liberare risorse per la ricerca interiore e l’esplorazione del possibile. Ma può anche scatenare la paura, spaventare i molti incapaci di pensare la propria vita senza l’obbligo economico e morale del lavoro, preoccupare i più conservatori preoccupati dai rischi sociali che pensano di vedere dietro a questi possibili sviluppi rivoluzionari.

Fascinazione e paura sono i principi ispiratori di due grandi narrazioni collettiveutopia e distopia, appunto – che hanno accompagnato la riflessione sulla scienza e la tecnologia. Di macchine intelligenti, di robotica e di automazione si parla da molto tempo: l’espressione “fabbrica automatica”, riferita alla tessitura, si trova già nel Capitale e lo stesso termine “robot” (dal ceco ‘robota’ ossia lavoro), inteso come macchinario in grado di svolgere lavoro al posto dell’uomo, è stato introdotto dallo scrittore di fantascienza Karel Capek quasi un secolo fa; il Golem di Praga (un robot per la funzione che svolge anche se non per la tecnologia che lo rende possibile), al quale probabilmente si ispira, è fin dal 1500 metafora inquietante della società della tecnica e dei rischi derivanti dalle azioni irresponsabili degli apprendisti stregoni. L’oscillazione tra ottimismo e pessimismo rispetto agli esiti generabili dalla diffusione delle tecniche e al crescente potere delle tecnologie accompagna la stessa evoluzione storica delle società occidentali per le quali il lavoro è e resta un pilastro fondamentale.

Questa contrapposizione si regge, almeno in parte, sull’ambiguità percepita del termine tecnologia: essa può essere intesa come l’applicazione sistematica del sapere scientifico (costruito con procedure riconosciute come valide) a tecniche e processi che possono rappresentare qualsiasi segmento di ciò che cade sotto il dominio della soggettività, della cultura e della conoscenza. In questa prospettiva dobbiamo dunque parlare di una pluralità di tecnologie, riconoscendo che esse ormai informano ogni campo della vita ben oltre la semplice trasformazione e produzione di oggetti tangibili. Dobbiamo ad esempio riconoscere l’esistenza di raffinate tecnologie centrate sull’arte di influenzare i comportamenti, sul controllo sociale, sull’educazione e la formazione accanto alle più note tecnologie energetiche, biologiche, metallurgiche, etc.

Ogni tecnologia così intesa, cambia il rapporto dell’uomo con il mondo, conferendo maggiore capacità di azione (fisica o simbolica), ma privando al tempo stesso di capacità prima necessarie, che diventano obsolete e vanno perdute. La vecchia capacità di fare viene sostituita dalla nuova capacità di usare un oggetto che incorpora, per così dire, le vecchie capacità; l’estrema conseguenza negativa di questo processo spinto all’estremo è (per i pessimisti) la realizzazione del mito del consumatore perfetto: incapace di tutto se non di scegliere tra un’infinita serie di prodotti e servizi.
D’altro canto il sistema tecnologico nel suo complesso costituisce sempre più un nuovo ambiente di vita che le tecnologie digitali rendono rapidamente intelligente. I robot imparano a muoversi bene negli ambienti non strutturati (quelli della nostra vita quotidiana), mentre gli umani vivono sempre più spesso in ambienti più strutturati, caratterizzati da una sensoristica diffusa che vediamo già applicata nelle case intelligenti (domotica), nelle auto (smart car), nelle città (smart city), nei territori, nelle reti intelligenti (smart grid); il corpo stesso è ambiente per lo studio e l’implementazione di bio e nanotecnologie sempre più raffinate.

Dall’interazione tra tecnologie, persone, culture e società nascono nuove e variegate identità singolari e collettive che si fondano su usi e pratiche che tendono a sfuggire ad ogni forma di controllo: nascono consumi virali, comunità, entusiasmi, mode non meno di reazioni violente, rifiuti, fughe e chiusure. La vera sfida del prossimo futuro non sta dunque nello sviluppo dei processi tecnologici (tecno scienze) che diamo ormai per scontato: risiede piuttosto nel governo dell’interazione di queste con la complessità ambientale, demografica, sociale, economica ed antropologica che riguarda l’intero mondo di cui le tecnologie sono parte e che contribuiscono a modificare profondamente. Il sistema tecnico sempre più integrato che sta diventando la base del nostro modello di vita interagisce con società fatte di persone, di istituzioni, di strutture, di organizzazioni, di poteri, di culture, di ideologie, di economie, di finanza, di conflitti, di movimenti e cambiamenti che contribuisce a generare e ai quali è indissolubilmente connesso. Dove esistono queste relazioni sono in gioco significati, passioni, emozioni, storie ed è in azione anche il potere e, con esso, la certezza della manipolazione. Non stupisce allora che il sogno utopico di alcuni possa essere l’incubo di altri, che la speranza di pochi visionari sia la paura di molti e che l’ambizione modesta e conservatrice della maggioranza risulti intollerabile ai pochi animati da genuino spirito “rivoluzionario”.

Per questo, l’irresistibile sviluppo dell’automazione e della robotica, che di questa rivoluzione sono forse gli aspetti più immediatamente visibili, l’ascesa delle tecnologie genetiche e delle nanotecnologie, la diffusione delle tecnologie dell’educazione e del controllo del comportamento (etc.), lasciano ipotizzare per futuro prossimo più scenari possibili, drammaticamente opposti: inferno o paradiso, trascendenza o involuzione. Malgrado ci sia chi pensa ancora di gestire o dominare il tecno-ambiente con i vecchi strumenti della società industriale, con categorie stantie, con il populismo che si fonda sulla paura, con il fanatismo tecnocratico o religioso, ognuno dovrà presto decidere se accettare la sfida, subirla o rifiutarla.

Un impegno socialmente difficile in tempi nei quali la politica, che dovrebbe esprimere i fini, è diventata un mezzo e l’economia, che dovrebbe essere il mezzo, è diventata il fine; dove l’economia reale è stata messa in completa balia della finanza e la politica anziché lavorare per l’uomo e le generazioni future, produce leggi per aumentare il potere e tutelare gli interessi della finanza globale piuttosto che quelli dei cittadini e delle imprese. Si tratta forse del più chiaro esempio del dominio di una tecnocrazia sulla società o, meglio, sul mondo. La stessa finanza attuale ha preso questa forma (anche) per effetto di discipline dure quali la fisica e la matematica (studio degli algoritmi di calcolo) applicate alle tecnologie digitali che consentono di elaborare enormi quantità di informazioni in frazioni di secondo, connettendo miliardi di grandi e piccoli decisori.

Come sarà la vita nel tecno-ambiente che si sta sviluppando e che si alimenta dell’informazione che forniamo più o meno consciamente (ogni clic un’informazione preziosa)? Cosa potrà fare l’intelligenza artificiale applicata ai giganteschi database che raccolgono ogni tipo di informazione digitale? Come interfacceranno i corpi con questo nuovo ambiente, che protesi tecnologiche useremo tra qualche anno? In questo ambiente diventeremo forse più stupidi ed impotenti o troveremo risorse per evolvere? Come risponderanno persone diverse alle sfide del prossimo futuro?
L’imperativo categorico per affrontare questi dilemmi è quello di non subire passivamente come consumatori ignavi; criticare, opporsi, fuggire, rappresentano soggettivamente opzioni possibili quanto accettare, costruire, sostenere. Sono tutte possibilità che potenzialmente aprono lo spazio all’esplorazione creativa del possibile. Questa compresenza di atteggiamenti e comportamenti differenti e conflittuali, purché in grado di alimentare un sano dibattito, rappresenta una speranza affinché il sistema evolva in termini qualitativi evitando pericolose derive totalitarie. Di certo per vivere umanamente nel nuovo tecno-ambiente servono nuovi saperi e nuove virtù, nuovi comportamenti, nuove responsabilità e nuove consapevolezze.

angelo-agostini

Lo sguardo lungimirante di Agostini: ci aiutò a comprendere il plurale di giornalismo

Fa impressione parlare di lui al passato, perché il suo sguardo era sempre orientato al futuro. In metafora calcistica lo si potrebbe immaginare centravanti, non certo difensore. Angelo Agostini non si schierava mai a salvaguardia dell’esistente, era curioso e attento, costantemente teso a comprendere il mutamento e ad anticiparne il senso e le linee di sviluppo.
Così è stato già all’inizio degli anni ’90, all’epoca dell’introduzione delle tecnologie in redazione, quando molti alzavano barricate e lui invece coglieva e segnalava le potenzialità del fenomeno. Lo stesso è avvenuto per le scuole di formazione al giornalismo, sostenute a dispetto di quanti si ostinavano a dire che il mestiere si impara solo praticandolo dentro le redazioni e non dietro ai banchi. Lui, pienamente conscio dell’importanza della pratica, riteneva però indispensabile una consapevole assunzione e una contestuale elaborazione critica dei modelli e delle prassi di lavoro, connesse all’acquisizione di un solido bagaglio culturale e di un adeguato supporto teorico. E avanguardista fu anche quando iniziarono a diffondersi i giornali on-line: considerava il web una straordinaria risorsa e un arricchimento per il giornalismo, e pur edotto dei rischi in termini di accreditamento della notizia, non viveva la rete come minaccia, ma come nuova frontiera da civilizzare. Non è mai stato corporativo, insomma, Non ha mai temuto la fine del giornalismo e ha a sempre sostenuto e propugnato la necessità di guidarne la trasformazione. Anche per questo parlava di “giornalismi”, cioè declinava al plurale il mestiere, combattendo l’idea di unico inossidabile modello praticabile.

festival-giornalismo
Da sinistra: Cocconi, Tedeschini, Giua, Sorrentino, Masera, Fabbri, balzanelli

Per ricordare la straordinaria figura di Angelo Agostini a un anno dalla prematura scomparsa, la rivista “Problemi dell’informazione” gli ha dedicato un panel nell’ambito del Festival del giornalismo che si è svolto a Perugia nei giorni scorsi.

A prendere per primo la parola è stato Carlo Sorrentino, docente dell’Università di Firenze, brillante studioso del giornalismo e nuovo direttore della rivista edita dal Mulino. “Angelo Agostini – ha affermato – è stato la formazione al giornalismo in Italia. Va considerato fra i principali animatori – e forse qualcosa in più – del Festival  di Perugia. Appariva perennemente insoddisfatto, ma non perché avesse un carattere ombroso, al contrario era un uomo pieno di vitalità e di entusiasmo: ma era sempre inquieto, alla ricerca, come deve essere un serio studioso. E’ stato uno straordinario anello di congiunzione fra la formazione accademica e il mondo dell’informazione, una figura senza eguali, molto attento all’innovazione. Anche per questo gli abbiamo dedicato un intero numero di Problemi della comunicazione, con un’ampia selezione di alcuni fra i più significativi articoli”.

Aldo Balzanelli, di Repubblica, ha citato una delle frasi preferite di Agostini: “Alza la testa e guardati intorno: era una sua frequente esortazione. Rompere la catena dell’autoreferenzialità è stato uno dei suoi imperativi. La sua peculiarità di essere studioso e insieme di praticare il giornalismo lo rendeva un caso raro in Italia. Proprio per questa sua duplice natura conosceva perfettamente dinamiche, limiti, e condizionamenti del nostro lavoro e la sua analisi teorica non risultava mai astratta”.

“Ci manca il confronto quotidiano con lui, la sua attenzione all’innovazione – ha detto Giovanni Cocconi, ex allievo di Agostini e ora attivo in ambito di comunicazione isitituzionale, dopo essere stato a lungo vicedirettore di Europa – Spesso mi chiedo come la penserebbe lui su questo o quel fatto e avverto il vuoto dell’assenza. Per lui, come per Marc Augé, la cultura era come il legno verde: si muove”. Sull’abbrivio della citazione ha letto un passo (struggente, dato il contesto) di un celebre articolo di Agostini del 2011, che proprio a Augé faceva riferimento: “Chiunque abbia dimestichezza col legno sa che il legno continua a muoversi anche quand’è vecchio. Il legno non si ferma mai. Il fatto è che quando ti sei costruito una casa in legno, oppure quando te la sei trovata, come capita a chi è nato in montagna, sei pure abituato a controllarla giorno per giorno, nei mesi, negli anni, nei decenni che ti sono dati. Una casa costruita in legno si muove. Quindi la guardi, ti abitui ai suoi cambiamenti. Tamponi l’intonaco quand’è necessario. Altre volte ti tocca proprio cambiare la struttura. Però se era di legno, di legno la rifai. Avendo cura di scegliere quello buono. E poi, e poi, e poi. Poi continui a vigilare a guardare, a badare che non accada l’unica cosa irreparabile: che il legno s’incendi”.

“Si innamorava delle cose. E come me – ha dichiarato Claudio Giua, del gruppo Espresso – era innamorato di Repubblica, che considerava il giornale che aveva rotto le paludate forme del giornali anni 70. Ma aveva anche uno sguardo critico su tutto, mai indulgente, e anche a Repubblica muoveva i suoi appunti senza remore. Era un sognatore, ma sapeva dare concretezza alle idee Ho visto come si è impegnato e battuto a difesa di uno dei suoi ultimi progetti, quello di un ‘Newseum’ italiano, rimasto purtroppo incompiuto”.

Anna Masera, storica firma della Stampa, attuale responsabile dell’ufficio stampa della Camera, segnala come Agostini “avesse fatto pienamente propria la concezione di Paolo Murialdi relativa alla proliferazione delle forme di articolazione della professione, adottando la definizione di “giornalismi”. Mostrava sempre attenzione alle regole, rigore e senso etico, ma era flessibile nel considerare le mutazioni e le novità del settore. Ma caposaldo per lui restava la considerazione che il referente dell’informazione era il sempre il lettore e mai il soggetto della notizia”.

“Credeva nelle cose che raccontava a noi studenti e lo si percepiva – testimonia Lorenzo Fabbri, del gruppo Espresso -. Abbiamo condiviso gli anni del fermento intellettuale di Bologna all’interno della facoltà di Scienze della comunicazione quando la città era un po’ capitale dell’innovazione grazie anche allo sviluppo delle reti civiche. Ci ha trasmesso la sua passione”,

“Era segnato della sua identità di confine, lui nativo di Fiera di Primiero, un tempo al margine dell’impero asburgico. Ma si definiva orgogliosamente giornalista di scuola italiana. – segnala Mario Tedeschini Lalli (gruppo Espresso), tracciando un filo di congiunzione fra il vissuto personale e la sensibilità del giornalista e dello studioso -.Aveva grandi doti anticipatorie. Arrivava a capire le cose spesso un po’ prima degli altri, E fu fra i primi, per esempio,  a praticare il ‘giornalismo dei dati’ in anticipo su tutti, quando ancora neppure se ne parlava”.

Ricordi. Gocce di memoria. Un profilo al plurale, come sarebbe piaciuto a lui, senza ripetizioni, a confermare quanto la personalità di Angelo Agostini fosse ricca e colma di tante sfaccettature. Il suo sguardo, attento e lungimirante, ci manca e ci mancherà.

Leggi [qui] Legno e radici. Sulle culture professionali del giornalismo italiano

Guarda [qua] il video dell’incontro “Angelo Agostini: formare al giornalismo sapendone anticipare i cambiamenti (dal festival 

“Mia madre”, la struggente scomparsa di un mondo

Pochi giorni dopo aver raccontato di Nanni Moretti al BiFest di Bari [vedi], eccomi in sala per l’appuntamento con il suo dodicesimo lungometraggio, al primo spettacolo di giovedì scorso, nella sua sala Nuovo Sacher. Pubblico delle grandi occasioni, prevale la fascia d’età di coetanei, ma folta anche quella di giovani.

mia-madre
La locandina

La storia scorre con un ritmo costante, quasi come un fiume maestoso; si intrecciano due storie, quella di qualcosa che nasce, il film che la figlia Margherita sta girando, e quella di qualcosa che finisce, la esistenza della madre; Moretti è il ponte che lega, con una presenza discreta, attenta, affettuosa. Come sedotti dalla compostezza della narrazione, non si riescono a elaborare emozioni o pensieri, se non nella parte finale, dove tutti gli eventi e i passaggi si compongono, e alzandosi e lasciando la sala, si viene investiti da una marea montante di sensazioni.

Ancora una volta questo nostro compagno di strada, questo testimone e interprete di oltre 40 anni di storia italiana e generazionale, ha fatto centro. Ancora una volta si ripropone il tema della perdita, già toccato con “La stanza del figlio”; il modo è lo stesso, composto ma intenso; il senso della scomparsa di una esistenza, e di tutto un mondo, in questo caso quello di una professoressa di latino, come è stata nella vita la madre di Moretti, affiora in tutta la sua struggente ineluttabilità. Un cinema in grado di parlare autenticamente di sentimenti, senza forzature ma anche senza autocensure o timidezze.

mia-madre
Margherita Buy
mia-madre
Buy e Moretti

La contemporaneità dei due eventi, la nascita del film e la fine della madre, sono vissuti nel corpo di Margherita Buy, donna, regista e figlia. Una Buy forse alla sua più intensa e completa interpretazione, in un ruolo che pone una donna finalmente al centro di un film, cosa non consueta nel cinema italiano, come spesso lamentato dalle nostre attrici. Altra interpretazione femminile è quella della madre, nel corpo e nel viso tenero e dolososo di Giulia Lazzarini, attrice di cinema, di televisione, e di teatro, tra gli altri con Giorgio Strehler e Luca Ronconi; una interpretazione di assoluta intensità e finezza, che propone questa coppia di attrici come candidata ai più importanti riconoscimenti del cinema italiano.

mia-madre
Margherita Buy e Giulia Lazzarini

Nanni ha una presenza discreta ma essenziale nel film; un profilo di cui si intuiscono i drammi e i dilemmi, insorti nella prospettiva della scomparsa della madre, che lo portano, tra l’altro, alla decisione di abbandonare una carriera di ingegnere, quasi a sottolineare lo sgomento di fronte alla fine di una vita, e la caducità di ogni diversivo esistenziale. E per finire una interpretazione istrionica e in alcuni momenti irresistibilmente comica di John Turturro, attore americano, stralunato, gigione, che vanta un film mai girato con Stanley Kubrick, inserito in una troupe cinematografica talvolta sgangherata che, in un epico litigio sul set, grida un disperato “fatemi tornare nella vita reale”.

mia-madre
John Turturro

A questo punto, non resta che aspettare il responso del pubblico, che comunque nel primo week end pone il film al secondo posto, nello stesso trend dell’ultimo Habemus Papam; viste le caratteristiche del film, pensiamo possa incrementare nel passa parola. Buon 25 aprile, magari con un buon film. Buon 25 aprile!

Mia madre“, di Nanni Moretti, con Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Beatrice Mancini, drammatico, durata 106 min., Italia, Francia, Germania, 2015

Quando essere anziano significa davvero essere grande

Ho sempre pensato che l’anziano sia un valore e che la vecchiaia sia una fase della vita in cui l’anziano, con la sua esperienza e la sua saggezza, possa mettere a disposizione degli altri la sua resilienza e la sua capacità di capire. Me lo ha ricordato molte volte il presidente di Auser Emilia Romagna, che ora, dopo molti anni, ha deciso di dedicarsi ad altro. A lui la mia amicizia e la mia profonda stima per ciò che ha fatto e per come l’ha fatto.

franco-di-giangirolamo
Franco Di Giangirolamo

Frequentando Auser ho conosciuto molte persone che hanno messo a disposizione se stessi in attività di volontariato. Tante persone, alcune più vecchie, altre più giovani, ma con la stessa carica nei confronti del prossimo. Io credo che troppi anziani, con l’alibi della vecchiaia, tendano a chiudersi nella loro posizione di chi ha già dato. Invece la società ha bisogno di loro, soprattutto se hanno la fortuna di essere in salute. Ho già scritto alcuni articoli su questo principio e a questi rimando.
Lentamente ma inesorabilmente, la cultura del “rendere conto per rendersi conto” si è propagata a tutti i livelli e la ‘advocacy’ conferma l’importanza di una progettazione sociale. Qualche giorno fa in assemblea il presidente ha scritto alcune cose che vorrei riportare all’attenzione dei tanti che ancora ci credono: “Una delle priorità politiche della nostra rete regionale è il riequilibrio tra attività di promozione sociale e volontariato attraverso una maggiore integrazione delle prestazioni e dei servizi alla persona. La vocazione originaria di gran parte delle nostre strutture è il volontariato, ovvero la proiezione verso il disagio, mentre è debole l’iniziativa sull’agio inteso come mantenimento e scoperta di interessi culturali, artistici, sportivi, ludici e di tutto quanto può rendere più piacevole il vivere. L’integrazione tra le due attività, mettendo al centro la persona, è un obiettivo politico che dobbiamo porci con urgenza, anche perché la progettazione sociale territoriale impone una sempre maggiore integrazione fra le diverse attività, sia all’interno della rete Auser che con le altre associazioni del terzo settore, superando tentazioni di autosufficienza e autoreferenzialità.”
“In quest’ambito l’Auser deve esercitare con più forza un proprio protagonismo nella qualificazione della progettazione sociale, anche rimarcando il rapporto con le istituzioni a partire dai contenuti delle convenzioni e ampliando gli strumenti di collaborazione e accordo con i diversi soggetti pubblici. L’innovazione della progettazione sociale, passa attraverso un consolidamento e potenziamento delle azioni e dei progetti di contrasto alla solitudine, emarginazione, esclusione sociale, prioritariamente riferiti a persone disabili, immigrate, anziane, con problemi di salute e patologie croniche, insieme al contrasto alla povertà; sostegno dei minori poveri nel sistema scolastico; aiuto alle donne capofamiglia con minori a carico, anziani e lavoratori poveri.”
Caro presidente, una volta mi hai detto che se la nostra missione comprende anche la trasformazione dei bisogni dei cittadini in diritti, non possiamo che contrastare chi intende trasformare i diritti in bisogni; ma la necessaria difesa non è sufficiente, senza produrre processi di innovazione del Welfare, a partire dal territorio, dai bisogni dei cittadini e in rapporto con tutti i soggetti sociali e gli enti locali. Sono certo che da questi principi fondamentali ci saranno tante persone che si attiveranno per proseguire il tuo impegno, intanto grazie presidente di Auser Emilia Romagna.

Franco Di Giangirolamo è presidente regionale di Auser dal 2009 al maggio 2015. L’Auser (Associazione per l’autogestione dei servizi e la solidarietà) è un’associazione nata nel 1989 su iniziativa del Sindacato dei pensionati (Spi Cgil) e della Cgil; è riconosciuta come Ente nazionale avente finalità assistenziali ed è iscritta nel registro nazionale delle Associazioni di promozione sociale.

Barcellona-Ferrara, la “Rosa di fuoco” in dodici stanze e tanti sguardi

Ferrara-Barcellona: pronti, via! La mostra è partita. Sono arrivati tanti viaggiatori di spazio e tempo a scoprirla, la “Rosa di fuoco”, dedicata alla Barcellona di Picasso e Gaudì [vedi]. Per conoscere opere e significato dell’allestimento nel Palazzo dei Diamanti un centinaio di giornalisti e addetti ai lavori in visita nel fine settimana appena trascorso. Ecco un piccolo viaggio nei viaggi di chi l’ha guardata in anteprima.

rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-chiesa-colonia-güell-palazzo-diamanti-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Ricostruzione del modello di Antoni Gaudì per il progetto della chiesa della Colonia Güell, a Palazzo dei Diamanti di Ferrara

Incantata dal mega-modello, costruito con corde e catene da Antoni Gaudì, è Eleonora Sole Travagli, gionalista e addetta stampa del Jazz club Ferrara. Eleonora si affaccia allo specchio che invade quasi tutto il salone d’apertura e guarda quello che il massimo esponente del Modernismo catalano ha architettato più di un secolo fa. Per costruire la chiesa della Colònia Güell, Gaudì si inventa questo sistema di funi ed elementi penzolanti. Uno stratagemma che dà forma a corpi organici e sinuosi, che poi – capovolti – diventano torri e guglie. Sono gli elementi costruttivi per la chiesa del villaggio realizzato, a una ventina di chilometri da Barcellona, per i lavoratori delle fabbriche del mecenate Eusebi Güell. Questa chiesa, mai terminata, ricorda nelle forme organiche l’immensa e variegata Sagrada Familia. “Un anticipatore incredibile – dice Eleonora ammirata – e con un espediente come questo dimostra il suo approccio così poco convenzionale alla progettazione”. In effetti la vista del modellino in metallo, appeso al soffitto e specchiato, vale già tutta la visita. Lo specchio mostra quello che Gaudì voleva vedere, la versione capovolta delle curve sinuose. All’epoca, il rovescio dell’immagine, lui, lo realizza nello schizzo a carboncino, appeso nella stessa stanza. Insieme, il disegno e il modello ricostruito ora dal Centro di applicazione informatica dell’Università della Catalogna, materializzano la forza innovativa della sua arte, avveniristica e fuori dagli schemi.

rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-chiesa-colonia-güell-palazzo-diamanti-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Disegno di Antoni Gaudì a carboncino, acquerello e gouache su carta per la chiesa della Colonia Güell

A soddisfare Carlo Valentini, giornalista e inviato per la terza rete Rai dell’Emilia-Romagna, è soprattutto il tuffo che la mostra riesce a restituire tra le atmosfere artistiche che invadono tanti generi artistici, artigianali e sociali. “Gioielli, bozzetti, schizzi – dice – una stanza dopo l’altra riescono a farti entrare nello spirito di questo movimento artistico del secolo scorso”. E’ un po’ quello che fa notare la responsabile delle Gallerie civiche d’arte moderna e contemporanea, Maria Luisa Pacelli. Davanti alla giornalista di Telestense Dalia Bighinati, la direttrice di FerraraArte spiega che “con la rivoluzione industriale arriva la modernità e si porta dietro un’effervescenza creativa unica”. Un’altra telecamera riprende il curatore Tomàs Llorens, che nell’intervista raccolta dallo studio Esseci spiega come il modernismo catalano non sia uno stile, ma “una delle pagine più eclettiche della storia dell’arte di questa regione spagnola, fatta di apertura ai grandi movimenti culturali europei, assetata di sperimentazione e di desiderio di provare accostamenti anche contraddittori”. Sullo sfondo è appesa la “Ragazza in camicia”, opera-simbolo della mostra. E’ uno degli olii su tela di Pablo Picasso che si ferma ad ammirare Marco Sgarbi, attore, anima di Ferrara Teatro Off e direttore artistico del teatro comunale di Occhiobello, in visita con bebè in passeggino.

rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-palazzo-diamanti-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Il curatore della mostra Tomàs Llorens intervistato dal service dello studio Esseci

Il direttore scientifico del Mar, il Museo d’arte di Ravenna, Claudio Spadoni passa gioioso dalle sale del palazzo a quelle più intime della home-gallery di Maria Livia Brunelli, pochi numeri civici più in là, dove si svolge – come ormai consueto – il vernissage parallelo alla grande mostra dei Diamanti: è “Deflagraciòn” con le opere delle artiste Elisa Leonini e Ketty Tagliatti, ispirate dalla “Rosa di fuoco” .

Tra i cataloghi del ricco book-shop alla fine del percorso espositivo c’è Giuseppe Sangiorgi, caporedattore della rivista “EconErre” dedicata all’economia dell’Emilia-Romagna, che tra libri e oggetti ripercorre le mostre e le visite precedenti insieme alla collega Gianna Padovani, che cura la comunicazione web di Unioncamere.

Incantati, alcuni visitatori riflettono sguardi e scatti fotografici sugli specchi ondulati che Gaudì ha modellato per Casa Milà, mentre – una stanza dopo – restano catturati dal luccichio dei gioielli artistici. Sono ciondoli e monili che usano oro e pietre preziose per rappresentare le meraviglie della natura. Giardino in miniatura, ad esempio, la “Spilla con libellula”, creata tra 1903 e 1906 da Lluìs Masriera, con l’insetto sullo sfondo di soffioni in smalto. Una visione che prende vita fuori dalle sale, nel prato del cortile di palazzo dei Diamanti, dove soffioni veri spuntano nell’erba. Una bambina li raccoglie; poi soffia sui frutti essiccati prodotti dai fiori e fa volare in aria quei semi-paracadute. Gli adulti, intanto, i fiori li mangiano, nella versione a panino del buffet accanto ai bouquet di altri fiori, veri, di ispirazione Liberty.

Fino al 19 luglio a Palazzo dei Diamanti di Ferrara, corso Ercole I d’Este 21, l’esposizione continua. Tra gioielli floreali di diamanti, fiori decorativi, rosette di pane e soffi ai soffioni.

[clic su un’immagine per ingrandirla e vederle tutte]

rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-palazzo-diamanti-marco-sgarbi-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Marco Sgarbi, direttore artistico teatrale, in visita sala alla mostra di Palazzo dei Diamanti
rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-palazzo-diamanti-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Giuseppe Sangiorgi e Gianna Padovani di Unioncamere Emilia-Romagna
rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-palazzo-diamanti-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Eleonora Sole Travagli e Carlo Valentini
rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-palazzo-diamanti-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Ancora la pierre di Jazz club Ferrara e il giornalista Rai
rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-els-quatre-gats-palazzo-diamanti-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Visitatori sullo sfondo della mitica taverna “Els Quatre Gats”
rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-chiesa-colonia-güell-palazzo-diamanti-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Il modello di Antoni Gaudì per la progettazione della chiesa della Colonia Güell
rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-chiesa-colonia-güell-palazzo-diamanti-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Lo schizzo a carboncino di Gaudì per la chiesa della Colonia Güell
rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-palazzo-diamanti-specchi-casa-milà-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Gli specchi creati dall’architetto catalano per Casa Milà
rosa-fuoco-barcellona-gaudì-picasso-palazzo-diamanti-spilla-libellula-ferrara
Spilla con libellula di Lluis Masriera
rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-palazzo-diamanti-ferrara-aprile-2015--soffioni-giorgia-mazzotti
Soffio ai soffioni nel cortile di Palazzo dei Diamanti
osa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-chiesa-colonia-güell-palazzo-diamanti-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
Rose vere e di pane per il buffet dela mostra “La rosa di fuoco”
rosa-fuoco-barcellona-picasso-gaudì-palazzo-diamanti--guardarobiera-ferrara-aprile-2015-giorgia-mazzotti
La guardarobiera del palazzo, Germana Aguiari

Alla Festa del libro ebraico è tempo di kasherut: la cultura dalla parte dei fornelli

Dal 25 al 28 aprile torna a Ferrara la Festa del libro ebraico, un’occasione per conoscere più da vicino la storia e la cultura dei nostri concittadini ebrei, una minoranza legata da una relazione antichissima e indissolubile con il resto della popolazione italiana.
Non esiste modo migliore di conoscere una cultura se non attraverso la sua tradizione culinaria: ecco allora che, nell’anno in cui Expo affronta il tema di come nutrire il pianeta negli anni a venire, uno dei temi principali della Festa – giunta alla sua sesta edizione – è l’alimentazione ebraica, indagata sia dal punto di vista delle norma religiosa, la cosiddetta kasherut, sia dal punto di vista dei sapori e dei profumi, tanto vari quanti sono le diverse comunità ebraiche nel nostro paese.

festa-libro-ebraico-kasher
Kosher a Roma, festival della cultura e dell’enogastronomia giudaico-romanesca

Nell’ebraismo tutti gli aspetti della vita quotidiana dei singoli e della comunità sono scanditi dai precetti (mitzvot) della Torah (il Pentateuco): qui il termine kasher indica ciò che è buono, opportuno, adatto e con il tempo il suo significato si è esteso al cibo permesso. Nell’immaginario comune la proibizione più nota è quella di consumare la carne di maiale, ma in realtà la kasherut è un sistema più ampio che regola anche le modalità di preparazione dei cibi. La disciplina è particolarmente elaborata per i cibi di origine animale: fra i mammiferi sono permessi quelli che hanno lo zoccolo diviso e sono ruminanti, mentre gli animali acquatici devono avere pinne e squame, molluschi, crostacei e frutti di mare di tutti i tipi sono perciò proibiti; fra gli uccelli sono proibiti i rapaci perché si nutrono di carne e soprattutto di sangue. Cibarsi di sangue è, infatti, un divieto assoluto perché viene identificato simbolicamente con la vita: ecco perché la macellazione rituale, che deve uccidere l’animale il più velocemente possibile e causandogli il minimo di dolore, prevede anche una serie di procedimenti per eliminare dalla carne anche le più piccole tracce di sangue. Una delle regole più complesse da osservare nella pratica è la netta separazione fra carne e latticini, perché implica in ogni cucina la presenza di due tipi di attrezzature complete, dalle stoviglie ai piatti, alle posate. Ci sono poi anche prescrizioni specifiche per alcuni momenti particolari, come shabbat, il riposo del sabato, e Pesach, la Pasqua ebraica appena trascorsa. Durante shabbat era proibito accendere un fuoco anche per cucinare, quindi oggi non si può accendere il gas o la corrente elettrica: diventa così impossibile usare un forno, anche a microonde, come aprire e chiudere un frigorifero. Per Pesach, invece, non si può usare lievito: tutto ciò che viene usato per l’alimentazione durante la Pasqua deve essere rigorosamente riservato a quel periodo per evitare che abbia contenuto o toccato lievito durante il resto dell’anno. Tutto ciò in ricordo del momento in cui fu annunciata agli Ebrei schiavi in Egitto la fuga imminente, quando non ebbero il tempo di fare lievitare il pane.

Ci si può chiedere quale sia il significato di regole e prescrizioni così elaborate e minuziose: è una domanda che molti si sono posti anche all’interno dell’ebraismo stesso. Come scrive il rabbino capo della comunità ebraica di Ferrara Luciano Caro: “La vita dell’ebreo è impostata sulla necessità di operare continuamente una scelta tesa a valutare ogni atto e di conseguenza a ricercare costantemente il ruolo dell’essere umano nel suo rapporto con i suoi simili e con la natura” (Luciano Caro, “La Kasherut. Le norme alimentari ebraiche. Considerazioni introduttive”, p. 12).
Oggi però, con la produzione alimentare di massa, l’uso frequente di conservanti e coloranti di origine sintetica o chimica e l’utilizzo di additivi o esaltatori di sapore, la necessità di conoscere a fondo da dove proviene e come è stato preparato il cibo che si consuma, può essere considerato un grosso vantaggio. Non è dunque un caso che, secondo quanto affermato da Jacqueline Fellusconsigliere Ucei Unione delle comunità ebraiche italiane – negli Stati uniti questi prodotti sono considerati, alla stregua di quelli biologici, sinonimo di qualità. “Si calcola che nei supermercati girino il 30% più velocemente di quelli tradizionali”.

festa-libro-ebraico-kasher
Jacqueline Fellus al KosherFest
La chef Laura Ravaioli del Gambero Rosso
La chef Laura Ravaioli del Gambero Rosso

La Festa del libro ebraico di Ferrara sarà perciò anche l’occasione per presentare il marchio di certificazione “K.it”, dove K sta per kasher, e Jacqueline Fellus il 28 aprile parteciperà insieme alla chef di Gambero Rosso channel Laura Ravaioli alla presentazione del libroLa dieta kasher. Storia, regole e benefici dell’alimentazione ebraica”, curato da Rossella Tercatin ed edito da Giuntina. Lo stesso giorno si terrà poi l’incontro “A tavola con i patriarchi. Cibo e rito nella tradizione ebraica” con il rabbino Luciano Caro. Ma i sapori e i profumi della cucina ebraica, in cui si mescolano le pietanze dei luoghi di provenienza e di arrivo di questo popolo errante, saranno protagonisti anche di laboratori per bambini e della serataGan Eden Restaurant. Seimila anni di gioie e dolori nella cucina tradizionale ebraica”.

festa-libro-ebraico-kasher
Il logo della Festa del libro ebraico di Ferrara

La storia e la cultura dell’ebraismo italiano verranno poi raccontati attraverso la musica e naturalmente attraverso i libri, i veri protagonisti della Festa. Fra gli ospiti quest’anno l’appuntamento ferrarese può vantare addirittura un Premio Nobel: Patrick Modiano, Nobel per la letteratura 2014, che il 26 aprile riceverà il “Premio di cultura ebraica Pardes” insieme allo scrittore Samuel Modiano, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz, e alla storica Anna Foa. In occasione della kermesse sono anche previste aperture straordinarie della mostraTorah fonte di vita. La collezione del Museo della Comunità Ebraica di Ferrara”, ospitata nei locali del Meis, e visite guidate al cantiere del futuro Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah.
Come è ormai tradizione, sabato 25 aprile il compito di inaugurare la Festa è affidato alla “Notte bianca ebraica d’Italia”, che inizierà alle 21 al Chiostro di San Paolo, e che nel settantesimo della Liberazione non poteva che essere un “Omaggio alla libertà”. Chi prenderà parte alla passeggiata riceverà un fiore nontiscordardime che potrà lasciare in uno dei luoghi della memoria lungo l’itinerario, giunti poi al termine del percorso i partecipanti riceveranno un altro fiore: questa volta una piccola spilla che rimarrà loro come ricordo della Festa del Libro Ebraico.

Festa del Libro Ebraico in Italia, Ferrara 25-28 aprile, per il programma completo e gli aggiornamenti in tempo reale [vedi].

Se il muro è pubblicità progresso

Chi ha viaggiato in Africa o conosce abbastanza bene i paesi africani, soprattutto quelli della zona sub-sahariana, avrà notato sicuramente che i manifesti pubblicitari (di prodotti o iniziative) non sono quelli tradizionali, fatti di carta stampata, ma sono dipinti sui muri stessi. I disegni danno vita a muri e pareti a volte dimenticati o abbandonati, facendoli uscire da anonimato, insignificanza e invisibilità. Quasi miracolosamente. Pubblicità viene da pubblico, da collettivo e familiare. Nulla di più naturale, quindi, del fatto che, se si vuole far conoscere qualcosa o qualcuno, o mandare un messaggio chiaro, immediato e diretto a tutti, il muro sia la vera pelle. Il contatto con l’epidermide è, infatti, il primo, la porta di accesso all’anima.

pubblicità-progresso
Esempi di ‘ghost signs’ del mondo anglosassone
pubblicità-progresso
Pubblicità scolorite degli anno Cinquanta

D’altra parte, se andiamo indietro negli anni, e precisamente a fine ‘800 inizi ‘900, le pubblicità si dipingevano direttamente sui muri delle città, sulle facciate delle case, nei centri industriali. E spesso sono ancora alcuni questi messaggi, i ‘ghost signs’ (letteralmente segni dei fantasmi), che oggi ancora campeggiano, scoloriti e dimenticati, sui muri del mondo. Molti di essi erano realizzati direttamente sui mattoni, nella parte alta degli edifici, chi li dipingeva si aiutava con le mascherine per tracciare linee diritte. Se ne rintracciano begli esempi soprattutto in Gran Bretagna e in Irlanda, in quantità minore anche in Francia, Belgio e Stati uniti. In questi casi si tratta di pitture del passato, ma in Messico, in India o in alcune zone dell’Africa, dove la comunicazione pubblicitaria o il messaggio sociale si basano ancora sulla pittura murale (perché l’occhio vuole la sua parte), è possibile trovare segni nuovi e aggiornati di questi curiosi manifesti. Il metodo di dipingere sui muri era sicuramente scomparso perché, dal 1950 in poi, l’economia aveva subito un grande incremento: la produzione cresceva sempre di più, le tipologie dei prodotti si moltiplicavano a dismisura e le pubblicità avevano bisogno di rinnovarsi velocemente e di continuo. Per questo, la pittura sul muro diveniva sempre più obsoleta e fu sostituita, in breve tempo, dai manifesti pubblicitari di dimensioni variabili e intercambiabili, che assicuravano un potere divulgativo più alto e la possibilità di modificare continuamente l’aspetto estetico del messaggio. Ecco perché è abbastanza raro trovare disegni dipinti a mano dopo gli anni Cinquanta. Ma se anche in Europa alcuni artisti stanno sperimentando nuovamente questa tecnica, in Africa la pubblicità non è in televisione o sui giornali (spesso scarsamente rappresentati o, comunque, di dimensioni modeste), ma ha occupato grandi spazi e grandi città. Qui, dove il tempo scorre lento, i ritmi sono diversi e il commercio tradizionale spesso sostituito a quello moderno e vorticoso, si trovano ancora disegni di bevande zuccherine e colorate o di utili e agili pneumatici, sui muri scalcinati. La pubblicità non ha bisogno di cambiare spesso, le esigenze sono sempre le stesse. I messaggi sociali, poi, da quelli relativi alla prevenzione sull’Aids fino a quelli sulla necessità di mantenere la città pulita, sono eterni. Dal Mali al Congo al Gabon, fino al Nord Africa (anche se meno), i muri parlano. Una sola voce, una sola lingua, un solo messaggio. Estesi panorami colorati vengono interrotti da colori altrettanto sgargianti. Adulti e bambini si fermano ad ammirarli, rapiti.

Libreville, Gabon, pulire e mantenere pulita la città. Clicca le immagini per ingrandirle.

pubblicità-progresso
pubblicità-progresso

A Libreville, ad esempio, sono rimasta incantata dalla sfilata di disegni, sui muri del centro cittadino, a un incrocio trafficato non lontano dal Ministero dell’ambiente, messi lì con l’obiettivo di sensibilizzare giovani e meno giovani alla gestione della spazzatura e all’importanza di avere una città pulita. Colorati, ammiccanti e simpatici personaggi invitano a non gettare i rifiuti per strada. I bambini (ma non solo) ne restano sicuramente affascinati e colpiti. Un modo intelligente di attirare l‘attenzione. Noi siamo più veloci, forse, e spesso molto disattenti anche per questo, ma qui bei disegni educativi potrebbero stare davvero molto bene anche in alcune delle nostre strade…

Fotografie di Libreville di Simonetta Sandri.

Pamplona, pazza ‘Fiesta’ fra l’incoscienza e la vita

C’è un evento profondamente radicato nella tradizione di un popolo, da non perdere nel viaggio verso l’oceano Atlantico racchiuso dal Golfo di Guascogna, decisamente amalgamato al sangue di chi lì vive e che, considerato i suoi protagonisti, divide il mondo intero sul tema sensibile del rapporto fra uomini e animali.
Si celebra nella terra dei tori e di molto altre tipicità, come il Rjoca (un vino intenso principalmente prodotto nel colore tinto), compresa fra le province autonome di la Rioja, la Navarra e di Álava.
Parliamo ovviamente in Spagna, a Pamplona, città dalla fortezza pentastellata, al centro dell’ampia provincia Basca, terra di forti sentimenti autonomisti, con una propria lingua e cultura e, per decenni, al centro di un conflitto dilaniante per l’intera comunità spagnola.
La corsa dei tori (el encierro de toros) più nota al mondo, venne narrata da Ernest Hemingway nella metà degli anni Venti del ‘900 nel suo romanzo “Fiesta“, che gli è valso anche un monumento a mezzo busto nella piazza principale della città. È l`evento di richiamo internazionale che si svolge nel corso della Fiesta de San Fermín a Pamplona o Iruñea nella lingua Euskera, un condensato di religione, storia, tradizione e commercio in programma dal 6 al 14 luglio di ogni anno.

pamplona-pazza-fiesta
L’attesa

Ne scrivo con piacere, come un cronista che alla sua terza partecipazione osserva lo svolgimento dell’evento da un balconcino preso in affitto al terzo piano di edifici alti almeno cinque piani, e dal quale in ottima posizione può controllare dall’alto, da sinistra a destra, circa 100 metri del percorso. Le abitazioni che fronteggio a circa 5 metri di distanza, formano un canyon urbano rispetto al piano stradale sul quale a breve scorrerà il fiume di persone e tori. La corsa prende avvio tutti i giorni della Fiesta, salvo il giorno iniziale, in una cornice di grande attesa e di trepidazione, sempre puntualissima alle 8 del mattino quando le strade in sasso sono ancora umide e scivolose.
Il lavaggio di piazze e vicoli è d’obbligo dopo l’ubriacatura notturna di alcol e di festeggiamenti che lascia sul terreno carte, bicchieri, vetri rotti e un odore inconfondibile di necessità umane.
Per pochi secondi quella mia prospettiva diventerà un osservatorio privilegiato sul genere umano lì fremente: uomini e donne, giovani, comunque creduti maggiorenni, e meno giovani, un misto di follia collettiva, di dimostrazione di coraggio individuale, di incoscienza e una sfida alla vita che in diversi casi si è risolta in gravi ferite o, fortunatamente in rare fatalità, con la morte.
Si parte! I tori, e qualche bue, vengono liberati in branco su una stretta curva e lanciati come una mandria disordinata che si rincorre all’impazzata per le strettissime strade del centro storico cinquecentesco della cittadina di origine romana, ‘las calles histὸricas’ de Pamplona, e per un percorso complessivo di 800 metri circa fino all’arena.

pamplona-pazza-fiesta
La corsa vista dal balcone

I tori sono accompagnati in questa folle corsa da due ali di persone in larga parte ancora stordite dal fiume di birra e vino bevuto la notte e dall’adrenalina che emerge il mattino con il tasso emotivo e quello alcolico alle stelle. Nulla spaventa i partecipanti e anch’essi si lanciano ad inseguire o a farsi inseguire dai tori per toccarli, che nel loro impeto travolgono qualunque ostacolo si ponga dinanzi loro. Un formicaio impazzito visto dall’alto di uomini e donne esperti per aver partecipato a precedenti inseguimenti, e meno esperti, provenienti da ogni continente e tutti insieme con il completo tipico della manifestazione di maglia e pantaloni bianchi e la tradizionale fascia in cintura e fazzoletto rosso, che corrono nello stretto vicolo e confondono il movimento disordinato delle gambe, delle teste e delle braccia che si intrecciano fra loro, causando la caduta a terra dei meno fortunati che tentano di proteggersi dagli zoccoli dei tori che corrono all’impazzata.
Tori da 700 chili di muscoli arrivano da dietro il gruppo a testa bassa, malfermi sul selciato scivoloso sbandando a destra e a sinistra con le corna pericolosamente in avanti, fanno risalire dal basso un insieme di urla di timore emesse dai corridori e poi di liberazione scampata l`eventualità non remota di essere calpestati o incornati.
Tutto avviene sotto i miei occhi e piedi, là in basso, in pochi secondi, massimo 30, drammaticamente coinvolgenti anche per chi non corre e poi, in un attimo, tutto si trasferisce alla curva successiva dove si sentono ancora urla, brusio e poi più nulla. L`intero percorso urbano di chi corre e di chi insegue si esaurisce nell`arco di 3-4 minuti al massimo. I tori ormai lanciati come proiettili entrano in arena, alla ‘plaza de toros’, attraverso uno stretto portone in legno, formando spesso un tappo insieme agli uomini che cadendo provocano un groviglio che intasa l’entrata.
Il rito più cruento e fatale, non sempre per il toro, è del pomeriggio, ma la corrida, questo spettacolo popolare, non la racconto. Alla fine si ha l’impressione che le indicazioni sui comportamenti vietati da tenersi durante la manifestazione e indicate sul sito sanfermin.pamplona.es nessuno le abbia mai lette. Per chi non volesse partecipare alla corrida pomeridiana, vi è nel centro la sfilata de ‘los gigantes’, ossia Comparsa de gigantes y cabezudos de Pamplona, una intensa e pittoresca continuazione della Fiesta scandita dal ritmo della musica e dai tanti bambini e adulti con numerosi figuranti in abiti di cartapesta, accompagnata da una ottima cucina e della quale si ritrovano tracce già nel XVI secolo.
Una tranquilla conclusione per una giornata vissuta al centro di una appassionata tradizione e di una fiammata di forti emozioni.

Quei tragici girasoli nei campi di Russia

In una settimana importante come questa, per la storia italiana, non potevamo non ricordare uno dei film che fa più riflettere su uno dei grandi drammi del nostro Paese: la campagna di Russia, durante la II Guerra mondiale, dove molti italiani hanno perso la vita o da dove sono rientrati profondamente feriti, sconvolti e cambiati.
girasoli-russiaI girasoli” è un film del 1970, realizzato pochi anni prima della scomparsa del suo grande e indimenticabile regista, Vittorio De Sica, e ricordato anche per essere stato la prima pellicola di produzione occidentale a essere girata quasi interamente in Unione sovietica, in anni in cui il regime non permetteva con troppa facilità che elementi estranei entrassero dentro i suoi confini. La sceneggiatura è di Tonino Guerra, di cui è noto il filo che lo legava all’Urss. La sua triste poetica, in una vicenda dolorosa come quella dei due protagonisti, qui si percepisce in tutta la sua forza ed emozione.
La storia è quella della bella e vivace napoletana, Giovanna, e di Antonio, dall’accento emiliano-lombardo, soldato in partenza per l’Africa che, per evitare la guerra si sposa con la giovane donna. Fintosi pazzo, e internato, scoperto l’inganno, al confino sceglie la partenza per il temibile e lontano fronte russo. I tragici esiti della storia travolgeranno anche lui: persa la memoria, quasi congelato, perso nella neve durante la campagna sul Don, verrà salvato e curato amorevolmente da Mascia, che sposerà e dalla quale avrà una figlia.

girasoli-russiaQuel momento terribile è la tragedia degli oltre 229.000 soldati italiani mandati al massacro, privi di armi moderne e di equipaggiamento, per seguire la folle avventura di Hitler che, il 22 giugno 1941, aveva infranto il patto di non aggressione russo-tedesco Ribbentrop-Molotov del 1939, lanciando una massiccia offensiva contro l’Unione sovietica (l’operazione Barbarossa), il dramma della ritirata italiana del 1943. Antonio avrebbe potuto essere parte di quell’Ottava armata italiana di Russia (l’Armir) che, con piedi gonfi dal gelo in scarpe ormai insistenti, sarebbe crollata. Antonio viene dato per disperso, ma Giovanna, lasciata sola, non si rassegna a comunicati ufficiali e silenzi. Decisa, forte e imperterrita, partirà per la Russia alla ricerca del marito perduto. Qui si vedono la Piazza Rossa, con le lunghe file di pellegrini davanti alla tomba di Lenin, le strade e le automobili di allora, i magazzini Gum, il Ministero degli Esteri, dove la Loren entra per cercare notizie dello scomparso. Scorre la Mosca di ieri e di oggi.

girasoli-russiaIl film è stato criticato per questa facilità nel ritrovare un uomo sparito in un paese tanto sconfinato, ma, aldilà dei dettagli, la ricerca sarà drammatica e altrettanto gli sviluppi. D’altra parte, le critiche non valgono poi tanto se oltre all’apprezzamento del pubblico, la pellicola ha ricevuto una candidatura agli Oscar e vinto un David di Donatello, nel 1970. Le musiche di Henry Mancini si stemperano nelle note di “Grazie dei fior”, mentre le immagini in penombra dei protagonisti si affievoliscono. Fotografia eccellente.

La Loren è brava, loquace, vivace, simpatica, festosa, “corporale”, bella, impareggiabile, espressiva e intensa come sempre. Meravigliosa in coppia con Mastroianni nella deliziosa, complessa eppure semplicissima sequenza della frittata di 24 uova dei due novelli sposi, dove grazia e spontaneità dipingono una scena rubata alla felicità di due giovani amanti felici.

girasoli-russiagirasoli-russiaDue anime vicine e profondamente unite, in una magia che solo De Sica sa creare. Meravigliosa, poi, la scena del rientro dei reduci in treno, toccanti il campo di croci nella Russia sconfinata e il riferimento ai girasoli come ai tanti italiani sepolti sotto quelle terre. I girasoli simboleggiano, infatti, i soldati morti e seppelliti in fosse comuni: ogni campo sterminato di piante che ondeggiano al vento rappresenta le vittime di una guerra terribile e assurda. Vite straziate da guerra e tragedia. Conclusione drammatica, straziante ma inevitabile. Da riscoprire.

I girasoli“, di Vittorio De Sica, con Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Lyudmila Savelyeva, Galina Andreyeva, Anna Carena, Glauco Onorato, Silvano Tranquilli, Marisa Traversi, Italia, Francia, Unione Sovietica, 1971, 107 mn.

IMMAGINARIO
#MyFerrara.
La foto di oggi…

Oggi nel giorno non casuale di San Giorgio, patrono della città, parte il progetto #MyFerrara lanciato dal Comune assieme agli Igers ferraresi. Ne avevamo già parlato sul nostro Quotidiano [vedi], ed ora annunciamo con emozione che saremo i primi media partner di questa iniziativa. Infatti a partire da domani pubblicheremo le migliori foto di Ferrara scattate dagli utilizzatori dell’app per smartphone Instagram che verranno postate sul profilo del Comune (@comunediferrara).
Angoli insoliti, eventi e situazioni particolari, ma anche punti critici…ne vedremo delle belle!

Intanto oggi pubblichiamo un suo suggestivo scatto inedito e vi presentiamo la prima instagramer selezionata che per una settimana pubblicherà i suoi scatti: Daniela Solaini (@maddy16869), nata a Roma, trapiantata a Ravenna ma con Ferrara nel cuore da una sera in via delle Volte…ama Ferrara al punto da essere stata la prima a candidarsi per #MyFerrara.

In bocca al lupo, Daniela, e grazie per avere aderito all’iniziativa con tanto entusiasmo!

A domani.

#Ferrara #comunediferrara #ferraraitalia #MyFerrara #igersferrara #igersemiliaromagna #turismoer

OGGI – IMMAGINARIO FOTOGRAFIA

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]

myferrara-instagram-comune-ferrara-fotografia-igers
Foto della instagramer Daniela Solaini
myferrara-instagram-comune-ferrara-fotografia-igers
foto di Daniela Solaini
myferrara-instagram-comune-ferrara-fotografia-igers
il logo dell’iniziativa #MyFerrara

ACCORDI
Auguri, caro e vecchio libro.
Il brano di oggi…

IoLeggoPerchéOgni giorno un brano intonato a ciò che la giornata prospetta.

[per ascoltarlo cliccare sul titolo]

Samuele Bersani & Pacifico – Le storie che non conosci

Il 23 aprile è la Giornata Mondiale del Libro e del diritto d’autore. Indetta dall’Unesco con il suo patrocinio nel 1996, il giorno è stato scelto poiché data di morte di tre importanti scrittori come William Shakespeare, Miguel de Cervantes e Inca Garcilasco de la Vega. Tuttavia questa ricorrenza ha radici ancora più lontane e legate anche a San Giorgio, santo patrono di Ferrara ma anche della Catalogna che, per prima, iniziò a celebrare questa festa proprio il 23 aprile agli inizi degli anni ’30. Come brano del giorno proponiamo “Le storie che non conosci” di Samuele Bersani e Pacifico con il contributo di Francesco Guccini, colonna sonora del progetto nazionale #ioleggoperché.

I “Trinacria Express” presenteranno in anteprima il loro disco “Cialomi” presso la sede della associazione culturale “Rrose Sélavy”

da: organizzatori

Venerdi 24 aprile alle 18,30 presso la sede della associazione culturale “Rrose Sélavy” in via Ripagrande 46 a Ferrara i componenti del gruppo “Trinacria Express” presenteranno in anteprima il loro disco “Cialomi” in uscita nel mese di maggio. Registrato a giugno 2014, il primo lavoro dei quattro ragazzi siciliani, tutti frequentanti i corsi di jazz del Conservatorio Frescobaldi di Ferrara, vede la partecipazione di musicisti e di insegnanti del mondo del jazz italiano, tra cui il pianista Teo Ciavarella, il sassofonista Roberto Manuzzi, la cantante Carmen Spatafora, i percussionisti Alfio Antico e Flavio Piscopo.

I musicisti del “Trinacria Express” sono: Carlo Spanò (chitarrista e autore della maggior parte dei brani del CD), Gianfilippo Invincibile, batteria; Matteo Balcone, basso elettrico; Valerio Rizzo, pianoforte, cui si sono aggiunti nel cd, oltre agli ospiti prima citati, il flauto di Marco Severa, la tromba di Pasquale Paterra e il trombone di Salvo Andrea Lucifora.

Il “treno sonoro” Trinacria Express presenta un progetto che recupera le sonorità dei canti di lavoro siciliani per ricavarne composizioni originali con una decisa impronta jazzistica.

Un “treno fantasma” che senza alcun bisogno di binari (o di ponti sullo stretto) solca le acque fino a varcare le colonne d’Ercole, in una fusione lavica di jazz, rock e musica popolare.

GERMOGLI
Libertà di stampa.
L’aforisma di oggi…

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

george-orwell-bbcLa nostra libertà di stampa inizia dove gli altri non vorrebbero leggere.

“La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire”. (George Orwell)

  • 1
  • 2