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Giorno: 30 Ottobre 2015

Volkswagen, conseguenze delle perdite: il commento del professor Andre Spicer della Cass Business School di Londra

da: Ilary Bottini

Lo scandalo delle emissioni di gas truccate costa a Volkswagen il primo rosso trimestrale in oltre 15 anni

Commentando le enormi perdite del Gruppo Volkswagen, Andre Spicer, Professore di comportamento organizzativo alla Cass Business School di Londra, dichiara: “I dirigenti di Volkswagen devono affrontare decisioni difficili. Alcune opzioni a breve termine possono includere tagli della forza lavoro, la vendita di marchi in perdita (come Bugatti), oppure una maggiore enfasi sulle marche incontaminate (come Audi o Skoda). Le enormi perdite comunicate da Volkswagen ieri non sono altro che il prezzo da pagare per un cattivo comportamento. Come molte altre società, in un primo tempo la casa automobilistica si è posta obiettivi impossibili e, non essendo in grado di raggiungerli, ha deciso di imbrogliare per compensare il gap. Per tornare ad essere il più grande fabbricante automobilistico europeo in termini di redditività, i dirigenti di Volkswagen devono affrontare decisioni difficili. Alcune opzioni a breve termine possono includere tagli della forza lavoro (Volkswagen usa quasi il doppio dei lavoratori per la produzione di auto rispetto ai concorrenti), la vendita di marchi in perdita (come Bugatti), oppure una maggiore enfasi sulle marche incontaminate (come Audi o Skoda). C’è come una tendenza tra gli alti dirigenti a voler spazzare via tutte le cattive notizie in una sola volta.
Tuttavia, a più lungo termine, le cose possono farsi complicate. Bisogna ripensare la dipendenza attuale ai diesel puliti e esplorare altre tecnologie, come gli ibridi. Ma i concorrenti hanno già un grande vantaggio competitivo. Volkswagen deve ricostruire la sua fiducia, gli espedienti a corto termine e le PR sono insufficienti. Infine, l’organizzazione ha bisogno di applicare processi e provvedimenti per garantire che analoghe infrazioni non accadranno più in futuro. Questo significa riformare le strutture di governance e trasformare la cultura della società, garantendo ai dipendenti il diritto di parlare quando vedono che qualcosa va storto. La mia ricerca su On the Forgetting of Corporate Irresponsibility (Il dimenticare dell’irresponsabilità aziendale) suggerisce che, quando le imprese si trovano di fronte a una crisi come questa, è fondamentale che vengano messi in atto meccanismi per garantire che non si dimentichino le lezioni apprese. La grande ironia è che questa non è la prima volta che Volkswagen è in difficoltà a causa dei dispositivi di montaggio difettosi. L’azienda è stata multata dalle autorità statunitensi nel 1974. La vera tragedia è che non sembra ricordare nè aver imparato qualcosa da questa dura lezione. ”
A proposito di… Cass Business School
La Cass Business School della City University di Londra offre programmi d’istruzione, formazione, consulenza e ricerca innovativi, qualificati e all’avanguardia. Situata nel cuore di uno dei maggiori distretti finanziari al mondo, Cass è la business school della City di Londra.
I programmi MBA, i Master specialistici e i corsi universitari offerti godono di un’ottima reputazione a livello internazionale grazie all’eccellenza accademica; la Scuola accoglie circa 100 studenti PhD. Cass offre il più ampio portafoglio di programmi Master specialistici in Europa, e il suo programma Executive MBA occupa il decimo posto nella classifica mondiale stilata dal Financial Times.
Nelle aree Finanza, Scienze attuariali e Assicurazioni il corpo docenti di Cass è il più nutrito d’Europa. La Scuola rientra tra le prime dieci business school britanniche per la ricerca nelle aree business, management e finanza; il 90% delle ricerche svolte ha rilevanza internazionale.
Cass è il luogo dove studenti, docenti, esperti dei vari settori, business leader e responsabili politici possono arricchirsi grazie alla condivisione delle idee. Per maggiori informazioni visitate il sito www.cass.city.ac.uk.

Ripartire dai fondamentali: lettera aperta ricevuta dal movimento “Gentedisinistra”

da: Gente di Sinistra Ferrara

Ripartire dai “fondamentali”

Per Gentedisinistra è tempo di maggese
Gentedisinistra dopo oltre 7 anni di attività si prende il tempo di “maggese” per riflettere sul proprio percorso e sulla difficoltà di cambiare il modo di fare politica con le persone in carne ed ossa.
Riteniamo di aver fatto molti sforzi per proporre una politica “nuova”, per sviluppare un’idea di partecipazione, per unire le forze in campo, per condividere idee ed energie; abbiamo cercato di esserci su molti argomenti e su molti piani individuando i nessi che li legano.
Tuttavia, a volte, siamo stati semplicemente assimilati a qualsiasi altro gruppo che fa politica e fare politica in questi anni non è certo associato a fare qualcosa di bello, pulito e necessario.
Ciò che vediamo intorno a noi
Poi molte persone sono distratte e non hanno voglia di grattare un po’ la superficie per andare a scavare almeno un pochino. Si accontentano di quel che appare, di quel che viene comunicato sui mezzi di informazione, di quel che la politica “ufficiale” fa passare.
Pensiamo anche che ci sia una forte tendenza a ritirarsi nel proprio privato a cercare di vivere bene insieme al gruppo di persone a cui si è legati affettivamente, senza avere voglia di fare qualcosa di pubblico e collettivo. Crediamo che sia radicata molto bene l’idea che tanto non si può cambiare, che il proprio impegno personale è inutile in una situazione deteriorata come quella che viviamo tutti i giorni nel nostro Paese
Inoltre se anche le persone qualche volta si sentono deprivate di qualcosa (la salute, l’ambiente, la casa, ecc.) si concentrano solo sul proprio obiettivo e si sentono appagate in ciò, senza vedere tutto il resto che riguarda sempre la loro vita che continua sui soliti binari.
Ma abbiamo considerato che sembra esserci qualcosa di più profondo e tentiamo di scoprirlo.
Necessità di valori fondamentali
Intanto abbiamo constatato che chiedere un impegno per “il bene comune” inteso come il bene collettivo, si può fare solo se si riesce prima a far passare l’idea che esistono dei principi di fondo, che devono essere dissepolti e riportati al loro valore, dei “fondamentali” per i quali vale la pena spendersi.
Oggi sembra che i valori che gridiamo con le nostre iniziative politiche e che diamo per scontati, non trovino più ascolto o non siano neppure compresi, o che siano percepiti come svuotati di senso.
Nelle lotte che conduciamo su singole (anche importanti) vertenze, si avverte sempre di più che la gente non ci comprende in quanto ormai i valori di riferimento e di fondo sono cambiati a livello più profondo di quello politico. Il senso di questi valori è modificato dal potere dominante attraverso forme più sottili, attraverso stili di vita e di pensiero proposti in modo subdolo dalla comunicazione di intrattenimento, dal mercato e dai modelli di consumo.
Sono stati svuotati e dimenticati i valori sottesi alle nostre lotte
Avviene così che le nostre lotte fanno riferimento a valori ormai abbandonati o di cui si è dimenticato o distorto il significato. Egoismo ed individualismo hanno pervaso le coscienze e ampiamente eroso collaborazione, solidarietà, responsabilità, dignità e inchiodano le persone alla loro infelicità. Queste stesse parole valoriali hanno perso significato o assunto significati diversi.
L’erosione è così profonda che noi stessi e ciò che resta della sinistra non possiamo più dirci sicuri di declinarle in modo condiviso.
Parole come libertà, solidarietà, lavoro, diritti sociali e politici, democrazia, ecc., hanno assunto nel concreto significati diversi da quelli autentici e che non ci piacciono, perché sempre più ci appaiono come prodotti di visioni culturali create a difesa di chi è più forte, di chi conta di più.
La nascita di un pensiero critico non è sicuramente favorita dai media, dalla scuola, dai partiti, dalle istituzioni.
Invece il potere dominante produce risultati; ha l’obiettivo costante di distoglierci dall’abitudine alla riflessione, al pensiero critico e alla ricerca perché altrimenti non avrebbe consensi ma nemici acerrimi.
Competizione vs solidarietà
Il mondo del lavoro, peraltro, è cambiato al punto tale che la cifra che lo connota si riassume quasi esclusivamente nella parola competizione, a tutti i livelli e questo non fa che aiutare il disorientamento, perché la competizione favorisce la chiusura del sé, non l’apertura verso l’altro.
Crisi globale, antropologica, di senso
Ci troviamo di fronte ad una crisi globale e non settoriale che coinvolge mutazioni antropologiche e riguarda il modo di essere profondo dell’uomo e della sua vita.
Quando ci sono crisi di questo tipo è necessario ridefinire i “fondamentali” per ritrovare il senso del nostro esistere e della nostra stessa vita. E’ necessario demolire le incrostazioni che hanno mistificato l’essenza della vita ed imposto categorie fuorvianti, è necessario ritrovare e ridefinire le ragioni di fondo a cui sia la vita individuale che collettiva (compresa la politica) devono guardare. Se lo stato delle cose dominante, con il mercato che pervade tutto, ha pervaso anche la percezione di sé come persona, sentimenti, relazioni, rapporto con la natura, spiritualità, allora non bisogna aver paura di dire che la politica deve saper parlare anche di queste cose e soprattutto di queste cose (quindi di amore, amicizia, bellezza, gratuità), perché la politica attuale e l’economia che la sottende hanno devastato l’uomo a queste profondità ed hanno costruito un sistema che contraddice la persona a queste profondità.
Il mercato frammenta la persona
La complessità della persona viene frammentata nei ruoli che gli attribuisce il mercato e l’economia. La soggettività di consumatori che abbiamo assunto ci induce a ricercare il prezzo più basso proposto dal mercato per quel determinato oggetto: sulla sua vera necessità o utilità è inutile soffermarsi, l’importante è averlo. “Occorre” avere denaro, e in funzione di ciò tendenzialmente si declinano tutti i pensieri sui rapporti tra le persone, senza esclusione di ambiti, amore compreso.
Ma se il pensiero è occupato da queste preoccupazioni, che spazio rimane per uno sguardo critico sul mondo? qual è la voglia, dove l’energia per cambiarlo? d’altra parte, se tutto è monetizzabile, fa così piacere cambiarlo?
Concretezza dei “fondamentali”
Tornare ai “fondamentali” non significa quindi costruire definizioni metafisiche di concetti svuotati di significato dalla mistificazione e dalla distorsione profonda di cui sopra ma di ritrovarli con uno sguardo che vada all’essenziale dei bisogni materiali e spirituali della vita. Perciò occorre mettere sotto critica gli stili dominanti chiedendosi di ogni cosa se è veramente importante e perché, cioè se risponde ad un bisogno reale e quale; criticare la mistificazione dei bisogni e trovare quelli veri.
Bisogni e desiderio
In questo, è necessario mettere in campo la questione del ‘desiderio’, la sua ridefinizione per capire quando è autentica spinta creativa esistenziale e quando è compulsio ne consumistica indotta (de-sidera, dalle stelle, o de- supermercato?)
Il “Gioco dei perché”
Dobbiamo ritrovare la capacità di chiederci il perché delle cose, dei comportamenti, degli avvenimenti. Come bambini che, specialmente quelli intelligenti e molesti, scoprono il mondo attraverso i perché. Cominciamo a guardare il mondo con questo sguardo nuovo, chiedendoci perché sentiamo che una cosa è importante, ritroveremo l’uomo, liberato dai falsi bisogni e dalle false paure. Perché i beni comuni sono importanti? perché alla base dei beni comuni c’è il NOI, il prendersi cura degli altri e delle loro necessità primarie.
Perché il lavoro è importante? perché garantisce all’uomo la sopravvivenza, la dignità e con essa la sua libertà e proprio per questo non deve essere sfruttamento.
Questi non sono che alcuni esempi per dire che di qualunque lotta, di qualunque proposta politica, occorre ritrovare i valori fondamentali che la ispirano: la relazione (nessuno è felice da solo), la libertà (eliminare la schiavitù dei bisogni indotti), la dignità (la persona al centro nella sua pienezza).
Trasversalità culturale, capacità di ascolto:il valore dell’altro
Ridefinire i fondamentali implica il tentativo di costruire valori universalmente condivisi; ciò può avvenire solo aprendosi all’ascolto di altre etiche, altri linguaggi da tradurre reciprocamente: riconoscere che i valori non stanno solo nella cultura occidentale di sinistra e nei suoi linguaggi. Questo lavoro deve essere trasversale alle varie culture, religioni, filosofie, esperienze; non deve appiattirle o ignorarle ma valorizzarne l’apporto, perché tutti possano partecipare con la propria identità ma in un atteggiamento di ascolto e integrazione.
Ricomporre Babele
Questo metodo aperto e arricchente, va applicato coinvolgendo persone di diversi orientamenti, delle diverse culture che la globalizzazione ha messo in contatto ma ancora non in ascolto, sfidando le prevedibili reazioni degli ambienti intransigenti di ogni schieramento e cultura e sfidando, cosa più difficile, le tentazioni alla chiusura che albergano in ciascuno di noi e che facilmente riemergono (ricomporre Babele è difficile per tutti). Come dice Edward Said, intellettuale palestinese: “le culture dell’altro sono preziose per noi, per dinamizzare le nostre società. Non si tratta di tollerarle, facendo del multiculturalismo un feticcio, ma di assumerle come risorsa critica di noi stessi”.
Politica e vita
Se la politica non riparte dai percorsi che abbiamo cercato di dire, si costruisce come disciplina separata dalla vita e disumanizzata quanto l’economia del mercato.
Forse scopriremo che i desideri ed i bisogni la cui coltivazione aiuta la felice realizzazione umana sono strettamente legate a quei “fondamentali” che ritroveremo e che in parte abbiamo già nominato (come dignità, solidarietà ecc.) e che sono legati alla ‘relazione’ umana, ad un io connesso al tu ed al noi, alla relazione con la vita che viviamo e che ci circonda.
Spiritualità, solidarietà e lotte sociali
Anche la spiritualità è parte integrante della natura umana, e ci consente di valorizzare la introspezione nei rapporti personali in modo da discernere gli impulsi dell’ego dalla propria autenticità profonda, di accogliere l’altro, di aprirci alla diversità anche nelle piccole cose. Bisognerebbe che coltivassimo quell’anima che ogni giorno il “potere” cerca e ci riesce, di distruggere, ma quando si vuol coltivare l’anima il gioco si fa duro per ognuno di noi.
Il tema della spiritualità come superamento della chiusura egoistica, (cioè uscita dal recinto di sé per pensarsi come un noi) può apparire distante dalla politica ma non lo è: vediamo ogni giorno che nella crisi economica le persone sono sempre più sole e isolate e armate le une contro le altre, non riescono a far emergere scelte solidali.
Quello che abbiamo visto nel film “Due giorni e una notte”, si è verificato a Pomigliano quando la Fiom dello stabilimento FIAT ha indetto uno sciopero contro la decisione dell’azienda di far lavorare il personale in straordinario per diversi sabati consecutivi per far fronte ad un incremento di ordini della Panda. Ma sono pazzi?, tuonano gli altri sindacati ed alcuni quotidiani. Nel mezzo della crisi, come si può rifiutare di lavorare per la ripresa della produzione?
Scavando, si scopre che lo sciopero è motivato dalla circostanza che in azienda ci sono oltre 1.400 lavoratori in contratto di solidarietà: hanno accettato un orario ridotto, con conseguente riduzione di stipendio, per mantenere il posto di lavoro. La Fiom sciopera per chiedere l’istituzione di un terzo turno di lavoro che permetta di produrre richiamando a stipendio pieno i lavoratori, piuttosto che ricorrere allo straordinario di chi già lavora.
Conclusione: allo sciopero hanno aderito 5 lavoratori su 1.500. Onore a loro, meritano un monumento! Questo è “due giorni, una notte” italiano, con una conclusione in cui la solidarietà è stata sconfitta e derisa, da una vergognosa informazione parziale e faziosa. Difficile lottare per gli altri, quando non arrivi a fine mese o rischi il posto di lavoro, ma senza sguardo sull’altro e sulla sua dignità saremo tutti sconfitti. In questo egoismo dilagante siamo tutti coinvolti, la mancanza di solidarietà ormai pervade ognuno di noi e si fa davvero fatica a resistere ed ad avere uno sguardo diverso e più coraggioso nei confronti del mondo.
Lo spirito è logorato, si fatica a vedere oltre l’io la felicità del noi. Spiritualità perché: perché è quella cosa che ti consente di pensarti come qualcosa che va oltre i confini del tuo io e perciò di resistere alla lusinghe del potere che ti vuole ridurre a niente.
Ritrovare le parole perdute
Vogliamo ragionare insieme sui fondamentali anche perché vogliamo restituire il loro significato alle parole.
I fondamentali, anche le parole che li indicano, vanno indagati a partire dalle cose concrete, anche quelle che ci hanno impegnato fino ad ora, anche dai fatti politici e sociali, ma applicando uno sguardo diverso, di ricerca dei valori sottesi. Da li a risalire verso le ‘parole’ da riconquistare e ridefinire, ripulire.
La questione delle parole svuotate di significato, riempite di un significato diverso, abusate e consumate fino a renderle prive di senso, è centrale se vogliamo ricominciare a parlare e comunicare: avere un lessico comune, parole che hanno per tutti un significato condiviso è il primo, indispensabile passo.
Di queste parole (diritti, libertà, collettività, bene comune, aiuto, ascolto, ecc.) è stata fatta una strage. Nessuna di loro, nel significato attuale, corrisponde più a quello che abbiamo in testa noi quando le pronunciamo. Se ne sono impadroniti politici, giornalisti, divulgatori da strapazzo che le hanno piegate agli usi che più gli sono stati utili, indifferenti alla modificazione di senso che questo ha comportato.
Le hanno fatte diventare parole “di moda” per qualche periodo e poi, come se fossero cose frivole, buttate via perché avevano finito la loro breve vita cestinando contemporaneamente il significato profondo e originario di queste parole-valore.
Il risultato è che oggi, dire “bene comune”, ad esempio, non ha quasi più alcun significato che tanto lo si è “appiccicato” a mille cose diverse quindi si è banalizzato.
Occhiali nuovi
Ridare il valore originario a queste parole significa rimetterle in discussione, ripulirle, ridargli vita e ricominciare ad utilizzarle per quel che valgono e veicolare nuovamente i concetti che esprimono.
Questo processo, parte essenziale di un agire politico nuovo, non può che partire dall’ascolto anche per accogliere le parole che altri soggetti, gruppi sociali hanno nel loro cuore (i giovani, per esempio, su quali parole metteranno l’accento? Quali aggiungeranno?).
Le parole sono il mezzo con cui comunichiamo per questo la loro importanza è così alta. Fare politica dopo aver reso evidente che i concetti espressi da determinate parole sono essenziali per la vita personale e collettiva forse contribuirà anche a rendere maggiormente sensibili e consapevoli le persone con le quali speriamo di trovarci a lavorare fianco a fianco.
La realtà che ci circonda è mutata profondamente e noi con lei: abbiamo perso le chiavi di lettura per individuare e ritrovare i valori profondi del vivere umano, sui quali improntare il vivere sociale, politico, economico. Ci servono occhiali nuovi, costruiamoli insieme!

Minacce mafiose a due giornalisti in Emilia Romagna: Ordine dei Giornalisti e Associazione della Stampa dell’Emilia Romagna chiedono tutele per i giornalisti che seguiranno il processo “Aemilia”

da: Assostampa Ferrara

Aser e Odg chiedono tutele per i giornalisti che seguiranno il processo Aemilia

L’Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna e l’Associazione della Stampa dell’Emilia-Romagna si sono costituiti parte civile nell’ambito del processo “Aemilia”, a difesa dei colleghi Sabrina Pignedoli e Gabriele Franzini, vittime di pesanti intimidazioni di stampo mafioso durante lo svolgimento delle proprie mansioni professionali.
Il presidente dell’Ordine regionale Antonio Farnè e la presidente dell’Aser Serena Bersani, legali rappresentanti dei rispettivi organismi, a tale scopo hanno dato mandato all’avvocato Valerio Vartolo. È una decisione presa senza esitazioni, con l’unica finalità di esprimere vicinanza e solidarietà a due colleghi che hanno dimostrato coraggio e un profondo senso di responsabilità.
Il processo, che mira a fare luce sulle infiltrazioni mafiose in Emilia-Romagna, si aprirà domani 28 ottobre alla Fiera di Bologna e prevede una trentina di udienze preliminari con il coinvolgimento di 219 imputati.
Naturalmente gli organi di informazione seguiranno questo importante evento giudiziario, trattandosi dell’indagine più estesa mai realizzata nella nostra regione sulla presenza della criminalità organizzata.
A questo proposito chiediamo con forza al Tribunale di Bologna di garantire ai giornalisti e agli operatori dell’informazione di poter lavorare in condizioni di sicurezza, vista la delicatezza dei temi che verranno trattati in sede processuale e del già citato coinvolgimento, come parti offese, di due colleghi. Inoltre, chiediamo che ai rappresentanti della stampa venga consentito, anche dal punto di vista logistico e ambientale, di poter esercitare in maniera adeguata il diritto di cronaca.

LA STORIA
Caccia ai tornado in questa e altre pianure

Cacciatore di nuvole, cacciatore di vento, a volte anche cacciatore di storni. Sì, quegli uccelli simili a passeri, che proprio in queste settimane si muovono tutti insieme come ammassi di puntini scuri e – nel cielo – formano figure cangianti e immense sopra ai nostri occhi. Un cacciatore armato, però, sempre e solo di macchina fotografica, magari pure di teleobiettivo o grandangolo; cartucce mai. Un’attività, la sua, che raggiunge fama, professionalità e gloria soprattutto negli Stati uniti d’America, che consacrano la figura dei “cacciatori di tornado” con romanzi, film e vere e proprie figure professionali dedicate ad avvistamenti meteorologici e alla loro prevenzione. Eppure questa vocazione ritrova ispirazione, spazi e materia prima anche in questa nostra pianura padana, versione ridotta delle grandi pianure americane, ma comunque non avara di occasioni tempestose.

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Dino Gasparetto è il quarto da sinistra, durante un Tornado tour (foto Gino De Grandis)

A giocare in casa nel ruolo di cacciatore di tornado è Dino Gasparetto, classe 1979, ingegnere ambientale che in orario di ufficio lavora per la Regione Veneto, poi esce, alza gli occhi al cielo e insegue meccanismi ingovernabili e stupefacenti che si scatenano nell’aria. La sua passione originaria è quella per i fenomeni atmosferici e se le scelte di studio, prima, e di lavoro poi, l’hanno portato ad analizzare rischi meccanici e idrologici, il suo primo amore resta legato ai grandi fenomeni naturali, alla fisica che scatena tempeste e alla chimica che crea mescolanze che possono esplodere così come rimanersene miracolosamente tranquille.

Raccontare l’esperienza di un cacciatore di tornado, però, non è facile. Guardi le foto che scatta ed è un attimo trovarsi a nominare cicloni e uragani. Guai, invece, a usare questa superficialità nel parlare di fenomeni atmosferici tanto precisi e seri attribuendo caratteristiche catastrofiche a quella che, magari, è solo una pioggia più intensa del solito. Gasparetto ti mette in guardia ed entra nel merito e nelle sfumature del maltempo tirando fuori un vocabolario più complicato che, sulle prime, ti spiazza. Ti fa capire che c’è un’eccessiva e sbagliata tendenza a chiamare “tornado” tutto quello che potrebbe vagamente diventarlo e casomai non lo diventerà mai; stessa cosa per le famose “trombe d’aria” con cui si definiscono sferzate ventose poco più violente del normale. Come chiamare, allora, tutto questo? «Alcuni temporali – spiega Gasparetto – possono diventare supercellulari e tra questi tipi di temporali di livello più violento ci può essere una supercella che genera un tornado». Ecco, una “supercella”: è questo il termine corretto che non utilizziamo mai. Qualcosa di più forte di una tempesta, che contiene la forza bruta della tromba d’aria e del tornado, ma che non è detto che la tiri fuori.

Anche commenti e definizioni di intensità del maltempo – che tendiamo a tradurre con aggettivi spaventosi o grandiosi – nel linguaggio dell’esperto, si trasformano in una terminologia di precisione matematica che lascia un po’ interdetto chi non se ne intende. «Come avviene per i terremoti – racconta Dino Gasparetto – i tornado si classificano secondo una scala numerica, la Enhanced Fujita Scale (EF-Scale), che si basa sui danni provocati e sulla velocità raggiunta dal vento. Questa scala va da EF0 ad EF5 e gli effetti al suolo sono esponenziali. Un EF0 può danneggiare tetti o alberi, un EF5 è in grado di radere al suolo una casa».

Una decina di anni fa questo ingegnere con la vocazione per l’avventura segue il corso da “cacciatore di tornado” al Centro meteo dell’Arpa di Teolo, l’Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale del Veneto, a una manciata di chilometri da Abano Terme, in provincia di Padova. Dalla teoria alla pratica, nel 2007 si iscrive al suo primo tornado-tour e sbarca a Oklahoma city, Stati uniti del sud. «Durante quel viaggio – racconta – una notte si scatena una supercella a 200 metri di distanza e vediamo sollevarsi in aria uno di quei fienili in metallo che lì vengono usati per tenere gli attrezzi. Una specie di grande igloo che inizia a volare, fortunatamente dalla parte opposta a quella dove eravamo accampati noi». Sempre in quell’occasione – ricorda – «ho visto cadere in mezzo ai campi dei tronchi e degli alberi interi, che svolazzavano come fossero foglie».

Un’esperienza impressa in modo indelebile. E che poi rende intollerabile sentire parlare in maniera sensazionalistica di trombe d’aria ogni qualvolta semplicemente ci sono temporali. «Nella maggior parte dei casi – dice l’esperto – ci sono in effetti dei danni materiali, ma si tratta della conseguenza di violente raffiche lineari (non associate a vortici), che fuoriescono dal fronte avanzante del temporale, cioè dal vento che si forma davanti al fenomeno temporalesco (il “downburst”)».

La critica principale di Gasparetto riguarda l’invenzione di «termini privi di senso come “bomba d’acqua”, l’attribuzione di nomi fantastici alle alte o basse pressioni, titoli sui giornali che richiamano fantomatiche trombe d’aria quando in realtà sono solo raffiche di vento lineari e non vorticose, la confusione tra fenomeni totalmente differenti come uragani e tornado, la distinzione inesistente tra tornado e tromba d’aria». Parole – dice – che rivelano una cultura meteorologica nazionale ancora molto distante da quella statunitense, e che però crea confusione anche in termini di prevenzione. Perché, a forza di creare allarme, poi non si riescono più a fronteggiare in maniera seria i casi davvero allarmanti.

Capito che bisogna essere più cauti quando si scrive e si commentano casi di maltempo, cerchiamo di capire da che parte cominciare. Dov’è che ha visto gli spettacoli naturali più memorabili? «Gli Stati uniti offrono lo spazio perfetto, in particolare il Kansas, con le sue distese infinite di campi, dove i temporali più violenti si scatenano tra maggio e giugno. Ma anche nelle nostre pianure è possibile vederne. Io ho cominciato a interessarmi a queste cose perché ero affascinato dai racconti che facevano i miei nonni di una tromba d’aria terribile a cui avevano assistito. Per la prima volta, poi, a 12 anni, mi sono trovato in mezzo a un fenomeno del genere in una frazione di Rovigo vicinissima a dove abitavo io, era il 1991. Nella zona costiera della provincia di Ferrara, di Rovigo e di Venezia le condizioni potenzialmente si sono, perché dall’Adriatico arriva abbastanza umidità che si può scontrare con le correnti fredde del nord Europa. A quel punto l’elemento decisivo è il vento, che deve essere variabile sia in velocità (“shear”) sia in direzione». E’ quel tipo di vento lì, imprevedibile e bizzoso, che può fare da detonatore al mix esplosivo di umido e freddo.

Anche nel bel mezzo della pianura padana ci si può trovare in situazioni pericolose. Quali precauzioni bisogna prendere? «Bisogna tenere la giusta distanza di sicurezza – dice Gasparetto – che deve essere sempre funzionale all’intensità del fenomeno che si sta inseguendo. Qualche centinaio di metri può bastare per tornado deboli, mentre occorrono almeno un paio di chilometri di distanza per quelli violenti. Superare certi limiti diventa inutile e pericoloso. L’obiettivo di un “cacciatore di tornado” è quello di cristallizzare l’emozione in una foto o in un filmato, quindi deve essere sempre garantita la migliore visibilità, che significa rimanere fuori dalla zona di pioggia e di grandine. E’ la grandine la cosa peggiore, perché può raggiungere dimensioni e forza di proiettili, in grado di disintegrare il parabrezza di un’auto».

E che sensazioni prova, fisicamente, il cacciatore di tornado, quando gli capitano veri tornado o trombe d’aria? «La sensazione più forte che mi resta impressa è sicuramente il ricordo del rumore, un suono cupo e profondo, simile a quello di un treno merci che ti sta per travolgere. Poi c’è la forza del vento in entrata nel temporale (quello che si chiama “inflow”), che è un vento caldo e umido che va ad alimentare la cella temporalesca e che, specie prima della formazione di un tornado, raggiunge notevole intensità. Diverso è il vento in uscita dal temporale (“outflow”), che è freddo e secco, ma altrettanto intenso. Ma quello che un buon cacciatore deve evitare sempre è di trovarsi nell’area investita dal downburst, l’area più fredda. E’ lì che si scatena l’inferno. Non è più spettacolo, ma disastro, una forza naturale che non lascia scampo a cose né a persone».

Bene. Quando il vento soffia e fischia la bufera cercheremo di fare tesoro di queste informazioni. Intanto ci godiamo le nuvole che passano e che Gasparetto cattura, bianche o minacciosamente scure che siano, purché abbastanza contrastanti per occhi abituati al predominante grigiore indistinto della nebbia. E magari alzeremo il naso in su, a goderci il fluire spettacolare degli stormi di storni che in queste settimane passano, diretti verso le zone più calde del sud, sperando di non trovarne troppe tracce su finestre, terrazze o parabrezza della macchina. Niente di meglio, allora, delle immagini del cacciatore di tornado e altre tempeste, da guardare ben riparati.

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Storni in questi giorni nel nostro cielo (foto Dino Gasparetto)
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Storni (foto Dino Gasparetto)
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Nuvole (foto Dino Gasparetto)
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Un’intensa nuvola-muro sopra Rovigo fotografata da Dino Gasparetto

LA STORIA
Diario di un cassintegrato/3 – Le voci degli orfani scomodi: “Rimpiango l’inferno del primo giorno in fabbrica”

3.SEGUE – «Il mio primo giorno in fabbrica l’ho vissuto veramente male: mi hanno sbattuto in taglierina 1600 ed è stato subito l’inferno!… Ora però, quasi quasi, lo rimpiango…» confessa Giuliano, quarantatré anni, padre di un bambino di sette.
Per alcuni questa fabbrica era una seconda famiglia, erano i più anziani, quelli del periodo d’oro. Per altri, soprattutto pensando ai primi mesi di prova, la fabbrica appariva come una specie di caserma, dove c’erano le burbe (i neoassunti) e i nonni (i veterani dell’azienda dai tempi di San Lazzaro). Nei vari reparti le regole erano fatte rispettare dai nonni, che spesso coincidevano coi capiturno.
«Il nonnismo in fabbrica è un fatto risaputo!» sostiene Alessandro (Zucco per gli amici e i colleghi), «Anche mio padre, alla Montedison negli anni sessanta, l’ha vissuto…» Qui non si faceva certo eccezione e Zucco lo sa bene, da ex operaio e sindacalista, poi aggiunge: «La dirigenza tollerava e incoraggiava certi atteggiamenti dei “capetti”, anche se noi del sindacato ci siamo sempre opposti a questo modo di fare!»
«Era un modo per mantenere la disciplina, non c’è da scandalizzarsi!» rivela Antonio, cinquantasei anni, guarda caso ex capoturno, «La fabbrica è un luogo pericoloso, occorre rispettare le regole perché l’incidente è sempre dietro l’angolo e la responsabilità ricade tutta su noi capiturno… Di notte non ho mai impedito a nessuno di leggere il giornale o giocare a carte. L’importante è non creare situazioni di pericolo, quando gli impianti sono in moto ognuno deve essere al proprio posto e sapere cosa fare!», Antonio parla al presente, come se la fabbrica fosse ancora aperta e funzionante.
Chiacchierando con questo o quel collega, l’argomento nonnismo emerge casualmente e in modo del tutto marginale. Ciò che si percepisce è tutt’altro, direi una diffusa nostalgia, non tanto del lavoro in sé, quanto della socialità coi compagni, dell’abitudine a ritrovarsi nello stesso luogo da anni. C’è da dire poi che parecchi di noi, specie nell’ultimo biennio, avevano iniziato a chiamare la fabbrica “Fort Alamo”. Questo perché, con quello che periodicamente succedeva, era chiaro a tutti che la baracca sarebbe saltata per aria di lì a poco.
Ma allora perché non si è fatto nulla per impedirlo? La domanda è tuttora senza risposta, o meglio, qualcuno ha tentato di darsene una, ma senza troppa convinzione. Emerge una sorta di fatalismo, la certezza che non si potesse fare nulla per evitarlo e che occorresse aspettare e sperare che qualcosa succedesse, magari l’arrivo di un’altra multinazionale straniera che appianasse tutti i debiti e facesse ripartire l’economia… Sogni ad occhi aperti ovviamente!
«Con l’arrivo dei francesi il clima cambiò quasi subito!» dice Cristiano, quarant’anni, ora papà a tempo pieno di un bimbo di due anni, «Non che sia cambiato in peggio, c’era forse più menefreghismo!»
Può darsi che qualcuno si senta in colpa per come sono andate le cose? Questa volta le versioni sono discordanti: alcuni puntano il dito sui colleghi, altri fanno autocritica, praticamente tutti accusano dirigenza e proprietà di insensatezza e incompetenza.
«…L’azienda ha chiuso perché i due manager che l’hanno gestita dall’arrivo dei francesi erano semplicemente incapaci di fare il loro lavoro, inutili, anzi dannosi. Infatti s’è poi visto cos’hanno combinato! È vero anche che tra noi operai c’erano molte teste di cazzo che non si sono minimamente preoccupati se era il caso di tentare qualcosa. Tutti sapevano che sarebbe finita in merda, ma nessuno ha fatto o detto nulla finché lo stipendio arrivava tutti i mesi. C’è stato menefreghismo e ipocrisia da parte di tutti.» dichiara Matteo, trentun anni, meccanico addetto alla manutenzione degli impianti e padre single di un bambino di otto anni.
«…In fabbrica la situazione era critica già da un pezzo, appena un anno dopo essere stato assunto ho iniziato a pensare di lavorare per una manica di deficienti. Nel caso nostro la crisi economica c’entra poco, la fabbrica ha chiuso per le cazzate dei dirigenti.» rincara Fabio, ventinove anni, assunto nel 2003.
«…Se adesso siamo tutti a spasso è anche colpa nostra, perché quando è stato il momento di farci sentire non l’abbiamo fatto. Alle assemblee abbiamo sempre accettato tutto quello che ci dicevano, invece di fare sciopero.» sostiene Milva, trentaquattro anni, addetta al reparto taglio.
«…Colpa di chi gestiva… ma è anche colpa dei lavoratori, da anni le cose non si facevano nel modo giusto e tutti già lo sapevano…» le fa eco Shiraz, pakistano di trentaquattro anni.
«Ma scusate, noi operai cosa potevamo fare secondo voi? Scioperare? Quando un’azienda è in crisi e la produzione supera le vendite, fare sciopero si traduce in un vantaggio per l’azienda! Altro che metterli in difficoltà… Se ne fregavano e risparmiavano sui nostri stipendi! E qui il principio si va a far benedire, cari miei! Gli scioperi servono se riesci a mettere l’azienda con le spalle al muro, altrimenti sono solo sacrifici inutili, punto!» interviene Andrea, trentasei anni, padre di un bimbo di sei anni, dodici anni come turnista in calandra.
I giochi sono fatti ma durante le assemblee si discute ancora, la polemica è sempre lì, pronta ad infiammare gli animi, come se questo potesse servire a risolvere la situazione. La fabbrica è chiusa, il lavoro è perso, la gente lo sa ma evidentemente non ha ancora metabolizzato la cosa. Una vita in fabbrica non si può cancellare con facilità, nemmeno dopo una sentenza del tribunale e i lucchetti ai portoni. Alle assemblee ci sono gli avvocati del sindacato, si parla delle procedure per la mobilità, della prossima scadenza della cigs, di liste per il tfr, di verbali del tribunale e della famigerata legge Fornero. Tutti vogliono essere rassicurati, chiedono se avranno i loro soldi e quando. Si chiacchiera, si sorride e si scherza, eppure avverto intorno a me un malessere diffuso, uno smarrimento generale, anche se nessuno lo ammette apertamente.

3.CONTINUA [leggi la quarta parte]

Leggi la prima, la seconda parte

SALUTE E BENESSERE
Anche l’osteopata in squadra contro i traumi

L’osteopata individua gli squilibri biomeccanici e aiuta a risolvere i disturbi neurofisiologici dello sportivo agendo sulla struttura articolare, fasciale, viscerale, cranio-sacrale. La visita osteopatica preventiva e il trattamento manipolativo osteopatico consentono di prevenire e aiutare nei casi di lesioni sportive. Anche per questo sono sempre di più le società sportive professionistiche che ‘arruolano’ un osteopata all’interno dello staff sanitario, come figura indispensabile in ambito preventivo pre-gara e curativo post-gara, contribuendo alla salute dell’atleta ed evitando la recidiva degli infortuni durante l’anno agonistico.
Sono oltre 4 milioni i praticanti di sport in Italia secondo i dati pubblicati dal CONI (aggiornati al 2008), appartenenti alle Federazioni sportive nazionali (FSN) e alle Discipline sportive associate (DSA): una parte importante dell’attività sportiva italiana, che si caratterizza maggiormente per impegno agonistico, presenza di strutture e personale di sostegno alla pratica attiva e articolazione strutturale ed organizzativa dell’attività svolta.
Secondo il primo rapporto “Sport e Società” del Censis, invece, sono 17 milioni e 170.000 i cittadini italiani in età pari o superiore ai tre anni che affermano di aver praticato con continuità o saltuariamente uno o più sport, pari a poco più del 30% del totale della popolazione. Se da un lato lo sport è certamente fonte di benessere per chiunque lo pratichi, dall’altro è vero anche che intense attività fisiche possono provocare traumi sportivi continui e recidivanti, se non correttamente gestiti, sia per l’atleta professionista sia per lo sportivo amatoriale.

Un po’ di prevenzione
Il corpo dello sportivo è predisposto da un punto di vista statistico e neurofisiologico al trauma. I traumi sportivi possono essere dovuti a lesioni da carico errato o da sovraccarico, oppure da piccoli traumi a cui generalmente non si dà il giusto peso, ma che per un’atleta possono essere più gravosi.
Le cause possono essere ricercate in abitudini alimentari scorrette, esiti di chirurgia o di interventi odontoiatrici, microtraumi ripetuti. Occorre molta attenzione a qualsiasi stiramento o contrattura durante gli allenamenti, è corretto utilizzare attrezzature specifiche e indumenti adatti al tipo di sport che si pratica consultando il proprio allenatore e l’osteopata. E’ quest’ultimo che, dopo la visita e il trattamento, può consigliare un piano di mantenimento e un monitoraggio periodico da parte dell’atleta dei piccoli traumi che coinvolgono la colonna vertebrale, legamenti, muscoli o articolazione.

IMMAGINARIO
A tutto Halloween.
La foto di oggi…

Aaaaahhhhh… Uuuuuhhhh… Ahahahahahah… Non si erano mai divertiti tanto come quest’anno: mostri orribili, streghe malefiche e scheletri danzanti aspettano i bambini che avranno il coraggio di affrontarli e competere in bruttezza a colpi di dolcetto scherzetto.

Di seguito gli appuntamenti a loro dedicati in Castello, al Lapidario civico, alla Palazzina Marfisa e alla Casa del boia.

Aprite quel Castello: ‘Halloween’ al Castello Estense: sabato 31 ottobre alle 15.30, torna il tradizionale appuntamento con Halloween al Castello Estense di Ferrara. In programma un frizzante pomeriggio dedicato ai bambini dai 5 agli 11 anni con letture, narrazioni, giochi e “scherzetti”. Percorrendo le sale del Castello in compagnia delle guide, si avrà l’occasione di ascoltare storie misteriose e tenebrose, di partecipare a giochi a tema, di incontrare la stravagante cuoca degli Estensi intenta a preparare curiose ricette e di scoprire luoghi insoliti e segreti, solitamente non aperti al pubblico, per rievocare le giornate più cupe della secolare storia dell’imponente fortezza. Ma sempre con allegria, per spazzare via tutte le paure. Tutti i bambini sono invitati a partecipare alla visita animata con i loro costumi di Halloween e si consiglia di portare una torcia, che potrebbe servire per esplorare i luoghi più bui o a cercare oggetti misteriosi. Al termine della visita ogni bambino riceverà un “dolce” omaggio come vuole la tradizione di Halloween. La quota di partecipazione per ogni bambino è di 5 euro.

Per informazioni e prenotazioni: tel. 0532 299233
e-mail: castelloestense@comune.fe.it
web: www.castelloestense.it

Festa di Halloween per bambini e ragazzi alla Palazzina Marfisa e al Lapidario Civico: sabato 31 ottobre i Musei civici di Arte antica e l’associazione Arte.Na invitano bambini e genitori ad una divertente “Caccia alle streghe”. L’attività didattica prevede visita animata e gioco alla Palazzina Marfisa d’Este (corso Giovecca 170) e al Lapidario Civico (via Camposabbionario 1). Bambini e genitori potranno partecipare in diverse fasce orarie:

– ore 14,30 e 16,30 per bambini dai 4 ai 7 anni al Lapidario Civico
– ore 15,30 e 17,30 per bambini dai 4 ai 7 anni a Palazzina Marfisa
– ore 20 e 22 per ragazzi dagli 8 ai 12 anni a Palazzina Marfisa

Costo 8,00 € per un bambino ed un adulto. E’ richiesta la prenotazione: all’associazione culturale Arte.Na, tel. 328 4909350, e-mail ferrara@associazioneartena.it

Halloween alla Casa del boia: Sabato 31 ottobre, il monumento cinquecentesco riscoprirà la sua anima ‘nera’ in occasione della serata di Halloween, la notte più misteriosa dell’anno con intrattenimento per bambini. Dalle ore 19.00, i bambini potranno sbizzarrirsi a realizzare piccole creazioni di terrificanti mostri con carta, adesi- vi e altri materiali (età consigliata 4-10 anni, non è necessaria la prenotazione). A seguire, i piccoli ospiti potranno effettuare una visita guidata al monumento, dove li aspettano sorprese e animazioni. La serata proseguirà con una improvvisazione di Le Scat Noir (ore 20.30). Le inziative sono ad offerta libera. Associazione Evart

GERMOGLI
Attacco alieno.
L’aforisma di oggi…

30 ottobre 1938 Il ventitreenne Orson Welles, giovane attore e fondatore della compagnia Mercury Theatre di New York, interpreta alla Cbs un adattamento radiofonico scritto da Howard E. Koch de “La guerra dei mondi”, romanzo di fantascienza di H. G. Wells. Welles in realtà pensa che l’adattamento sia noioso e non vorrebbe proporlo. Con l’unico intento di farla risultare avvincente per il pubblico Orson interpreta la vicenda come una reale radiocronaca, simulando un notiziario speciale, che a tratti si inserisce sopra gli altri programmi del palinsesto, per fornire aggiornamenti sull’atterraggio di astronavi marziane a Grovers Mill nel New Jersey.
Il risultato è fin troppo realistico e va oltre le aspettative dell’autore stesso: credendo che gli eventi descritti nella trasmissione siano autentici, gli ascoltatori del programma in gran parte degli Stati Uniti sono presi dal panico e pensano che la Terra stia effettivamente subendo un’invasione da parte di una flotta aliena. La vicenda si trasformerà in un enorme ritorno pubblicitario per Welles, tanto da farlo approdare poi a Hollywood.

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Orson Wells

Per quello che abbiamo fatto sarei dovuto finire in galera, ma al contrario, sono finito a Hollywood. (Orson Wells)

Ascolta la radiocronaca dell’invasione aliena

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

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