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Giorno: 2 Marzo 2016

La programmazione dal 3 al 10 marzo all’Apollo Cinepark

da: ufficio stampa Apollo Cinepark

La programmazione All’Apollo Cinepark dal 3 al 10 marzo offre prime visioni e appuntamenti dedicati a tutti, dai grandi ai piccini.
Atteso e premiato ai premi Oscar con la statuetta come miglior attrice protagonista a Brie Larson, arriva “Room”, di Lenny Abrahamson. Un pellicola definita da molti “potente” per la costruzione della sua stessa trama e la regia immersiva, dove la storia di Jack (Jacob Tremblay), segregato da un folle in una stanza con sua madre diventa la storia di tutti noi, gli spettatori.
Altra nuova uscita della settimana “Suffragette”, di Sarah Gavron, che ripercorre la storia delle militanti del primissimo movimento femminista, donne costrette ad agire clandestinamente per condurre un pericoloso gioco del gatto con il topo con uno Stato sempre più brutale. Il cast è composto da Carey Mulligan, Helena Bonham Carter, Meryl Streep.
Restano in programmazione “The Danish Girl”, lunedì 7 alle ore 21.00 in lingua originale sottotitolato, la commedia di Fabio de Luigi “Tiramisù”, “Zootropolis”, film di animazione della Walt Disney e il film di Paolo Genovese, Perfetti Sconosciuti.
Per martedì 8 marzo (alle ore 20.30) si rinnova l’invito ad “Apollo Arte e Cultura” con “JONAS KAUFMANN – UNA SERATA CON PUCCINI” dal Teatro alla Scala di Milano.

Venerdì 4 marzo presentazione della raccolta poetica “Manutenzione dei sentimenti” di Gabriella Musetti

da: Centro Documentazione Donna

Biblioteca del Centro Documentazione Donna
via Terranuova 12/b – Ferrara

venerdì 4 marzo 2016, ore 17
Matteo Bianchi
presenta e conversa con
Gabriella Musetti
autrice della raccolta di poesie
Manutenzione dei sentimenti
(Samuele ed.)

Il percorso poetico di Gabriella Musetti continua con questa sua nuova raccolta dal titolo programmatico e ossimorico. Infatti la parola ‘sentimenti’ viene smentita dal termine ‘manutenzione’, quanto mai prosastico e perfino ‘tecnico’. Posto in prima posizione, prende il sopravvento e fornisce la chiave di lettura dell’intera silloge. Non ci saranno dunque scelte di una poeticità che consista nel ‘lontano’, nell’ ‘indefinito, nel ‘vago’, «poiché il presente non può essere poetico», ma al contrario un’immersione totale nel presente e nella sua problematicità, con tutto quello che si trascina appresso: amore, gioia, dolore, vita, morte.
«È un libro che ha preso diversi anni, è un tentativo di narrare una storia personale ma anche di allargare la visuale a una generazione di donne che si interrogano sul presente, sul tempo che avanza, su quanto c’è stato – eventualmente – di guadagno nella scelta di un duraturo impegno a favore delle donne».

Gabriella Musetti, genovese, dopo aver vissuto in diverse città italiane e a Parigi, vive ormai da anni a Trieste dove collabora con la Casa internazionale delle donne, con la quale ha fondato la casa editrice Vita activa, e dove organizza diversi eventi culturali tra cui Residenze estive, giornate residenziali di poesia e letteratura in cui autrici e autori di diversa provenienza convivono per alcuni giorni a Duino con chi ascolta le letture delle loro opere tenute in diversi luoghi della regione Friuli-Venezia Giulia, dell’Istria, della Slovenia e partecipa ai dibattiti nel Collegio del mondo unito di Duino.

manutenzione dei sentimenti

Emilia-Romagna: scavi di Marzabotto, Russi e Veleia. Dillo con un biglietto (omaggio): l’ 8 marzo ingresso gratuito per tutte le donne e domenica 6 marzo ingresso gratuito per tutti

da: Carla Conti – Rapporti con i Media della Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna

Festa della donna all’antica città etrusca di Kainua e Museo Nazionale Etrusco di Marzabotto, alla Villa Romana di Russi e all’area archeologica di Veleia Romana.
Ditelo con un biglietto (omaggio): l’8 marzo ingresso gratuito per tutte le donne nei luoghi della cultura statali.
Martedì 8 marzo 2016 nelle aree archeologiche di Marzabotto (BO), Russi (RA) e Veleia, sull’Appennino piacentino. E domenica 6 marzo, prima del mese, ingresso gratuito per tutti.

L’innata forza e bellezza delle donne le pone in una posizione privilegiata rispetto alla lettura del linguaggio dell’arte. Anche per questo il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ha deciso che, a partire da quest’anno, l’8 marzo tutte le donne possano sempre entrare gratuitamente in tutti i luoghi della cultura gestiti dallo Stato.
Vi aspettiamo nelle nostre aree archeologiche di Marzabotto (BO), Russi (RA) e Veleia, sull’Appennino piacentino, con le tante testimonianze e rappresentazioni della figura femminile che attestano il ruolo mai secondario della donna nel corso della Storia. Per celebrare il binomio Donna e Arte e le tante espressioni artistiche che da tempo immemorabile hanno reso omaggio alle infinite forme e manifestazioni del femminile.

Antica città di Kainua e Museo Nazionale Etrusco “Pompeo Aria”
Via Porrettana Sud 13 – Marzabotto (BO)
museo aperto dalle 9 alle 17.30, area archeologica dalle 8 alle 17.30

Ciò che fa di Marzabotto, l’antica Kainua, una testimonianza unica nell’ambito della civiltà etrusca è la straordinaria conservazione dell’impianto originale della città, scandito da ampie strade che si incrociano ortogonalmente, suddividendo in modo regolare lo spazio urbano orientato secondo i canoni dell’etrusca disciplina.
La visita al sito si snoda, sullo sfondo dei calanchi, dai resti dell’abitato sul vasto pianoro, alle costruzioni sacre dell’acropoli, alle aree funerarie subito al di fuori della città dei vivi.
Il museo dedicato a Pompeo Aria, organizzatore del primo nucleo della collezione, raccoglie le testimonianze, ricche di suggestione, della vita della città che prosperò dalla fine del VI alla metà del IV secolo a.C., con i ricchi corredi delle necropoli, le ricostruzioni di tetti e degli alzati delle case, le statuette votive in bronzo e una preziosa testa di Kouros, insieme a testimonianze dal territorio circostante, tra cui i ricchi corredi funerari da Sasso Marconi.
info 051 932353

Complesso archeologico della Villa Romana
Via Fiumazzo – Russi (RA)
aperto dalle 9 alle 16.30 (ultimo ingresso ore 16)

Nato per lo sfruttamento agricolo dell’area nell’antichità, l’insediamento rustico di Russi é forse il più importante finora noto dell’Italia settentrionale. Conobbe il massimo splendore tra il I e il II sec. d.C. quando il complesso fu completamente ristrutturato, anche scenograficamente, da un proprietario probabilmente arricchitosi vendendo le eccedenze agricole alla flotta militare romana che, dall’epoca di Augusto, aveva sede a Ravenna. È in questo periodo che la villa, gestita da un liberto con mansioni di fattore (procurator) al comando di un gran numero di schiavi, esce dall’autosufficienza per diventare una vera a propria macchina produttiva. Le dimensioni della cucina comune la dicono lunga sull’entità del personale della villa nei momenti di maggiore impegno, come aratura e mietitura di cereali o raccolta e pigiatura dell’uva.
Il proprietario (dominus) viveva in villa saltuariamente ma il suo alloggio era comunque lussuoso, con sala da pranzo (triclinium), stanza per ricevere (tablinum), impianto termale e pavimenti a mosaico.
Dopo un periodo di decadenza coincidente con l’allontanamento della flotta militare, la villa è parzialmente rioccupata quando la corte imperiale si trasferisce a Ravenna (V e il VI sec.) per poi essere definitivamente abbandonata in epoca medievale.
info 0544 581357

Area archeologica e Antiquarium di Veleia
Strada Provinciale 14, località Veleia Romana – Lugagnano Val d’Arda (PC)
aperta dalle 9 alle 15

I resti monumentali del municipium romano di Veleia sono tra i più suggestivi dell’Italia settentrionale.
Incastonata nelle colline piacentine, in un contesto naturalistico di assoluto valore, Veleia ruota attorno al proprio foro, la piazza circondata su tre lati da un portico su cui si aprivano botteghe e ambienti a destinazione pubblica, che Lucio Lucilio Prisco, uno dei due massimi magistrati locali, pavimentò con lastre d’arenaria ai tempi d’Augusto
Il pubblico può passeggiare tra i monumenti onorari e le vetuste architetture, tra l’edificio termale e i quartieri d’abitazione, e infine visitare il piccolo Antiquarium che, accanto ai calchi della Tabula Alimentaria traianea e della Lex de Gallia Cisalpina, espone i reperti che illustrano i momenti più significativi della storia di Veleia: le sue origini liguri, l’edificazione dei principali monumenti pubblici, le testimonianze degli arredi e dello stile di vita delle dimore private, i riti funerari e il ricordo degli spettacoli gladiatori.

http://www.archeobologna.beniculturali.it

Krzysztof Charamsa e il suo arrivo a Ferrara

da: Alcide Mosso

Krzysztof Charamsa è venuto a Ferrara al festival nazionale della cultura gay. Che grande idea! Si tratta di un personaggio, discutibile, criticato pure nell’ambito della comunità gay.
Aggiungo che, secondo quanto riportato dalla stampa, l’ex monsignore ha accusato Papa Francesco di non essere intervenuto nel dibattito politico sulla legge Cirinnà. E’ incredibile! Se la Chiesa interviene (vedi dichiarazioni del Card. Bagnasco), apriti cielo! E se non interviene…apriti cielo lo stesso. Viva la coerenza!
Preferirei che il nostro beneamato Sindaco promuovesse iniziative atte a portare maggiori benefici alla cittadinanza. Per fare un esempio, sarebbe interessante sapere, con dati credibili, quali ricadute ha avuto sul tessuto economico cittadino la pur apprezzabile mostra dedicata al grande De Chirico. Circa il comizio del signor (si fa per dire) Charamsa mi pare che il soggetto dimostri di essere persona in grande crisi di identità, che non sa più come motivare le proprie scelte. La Chiesa ed il Cristianesimo, al contrario dell’Islam, non sono omofobici o femminofobici nè maschilisti. Basterebbe pensare a Caterina da Siena o a Teresa d’Avila, entrambe portate all’onore degli altari. La Chiesa tratta tutti con uguale dignità. Richiama però, secondo me, alla ricerca di obiettivi e scopi nella vita che non possono esaurirsi nella ricerca del piacere fine a sè stesso, siano economici, gastronomici o sessuali benchè ognuno di questi piaceri possa contribuire ad apprezzare la vita. Il celibato non credo possa essere considerato una imposizione (tant’è che il matrimonio dei preti è generalmente ammesso nella chiese cattoliche orientali) ma una richiesta che la Chiesa fa a chi sceglie di dedicare la propria vita a un totale impegno rivolto alla purezza del soprannaturale. Anche nell’antichità vi furono cavalieri, guerrieri e anche oggi monaci buddisti che hanno scelto il celibato. Il Dalai Lama in esilio dice che “l’astinenza sessuale dà più indipendenza e più libertà”. Però, se certe cose le dice il Dalai Lama, nessuno fiata. Se le dice il Papa o un Cardinale…tuoni e fulmini! Per questo penso che mister Charamsa, nonostante i sorrisi, sia in crisi: può essere omosessuale ma ha sbagliato nel pretendere di avere vita di coppia ed essere anche sacerdote: è venuto meno alle proprie scelte. E non occorre essere credenti o cattolici per affermarlo.
Basti pensare a ciò che ha scritto Marco Damilano, vicedirettore de “L’Espresso”, non certo sospettabile di simpatie filoecclesiastiche: «Monsignor Krzysztof Charamsa fa coming out con il compagno davanti alle telecamere e accusa la Chiesa di omofobia. Legittimo, ma che c’entra con il suo caso? Etero o omo che sia, per un prete vale l’obbligo del celibato, un teologo dovrebbe saperlo. Così la sua confessione pubblica è un regalo per i media ma per la sua causa, qualunque essa sia, si trasforma in un autogol. Quasi un autodafè» (L’Espresso, 15.10.2015, p.71). In tempi di “spending review” mi chiedo infine se sia stato saggio impiegare il pubblico denaro per sostenere manifestazioni organizzate da chi invita personggi discussi come Charamsa – e spende scorrettamente (per dire il meno) il nome di Don Bedin- al solo scopo di attirare l’attenzione dei media e di fare propaganda alla lobby gay.
Chi vuol fare propaganda paghi almeno (e per intero) di tasca propria!

Alcide Mosso

Venerdì 04 Marzo “Wine Hucksters” live al Circolo Arci Zone K

da: Associazione Zone K

Imperdibile concerto al Circolo Arci Zone K di Via Santa Margherita 331 a Malborghetto Di Boara, venerdì 4 Marzo 2016: ospiti della serata i ferraresi WINE HUCKSTER.
Nati nella primavera 2014 come band folk ed un progetto inizialmente acustico, i Wine Huckster propongono sonorità folk con la carica rock della chitarra elettrica, mantenendo un amalgama leggero ed apprezzabile da tutti, il tutto mischiato alle tematiche oniriche e profondamente interiori dei loro testi. Le principali influenze della band spaziano dai Pearl Jam ai Coldplay, passando per Ed Sheeran e Bruce Spingsteen.
Il Circolo Arci Zone K aprirà alle ore 19. L’inizio del concerto è previsto invece per le ore 22 circa.
L’ingresso sarà Up To You e riservato ai soci Arci. Infoline 346 0876998.

Baciare come il Padrino: perché ai boss piace Hollywood

di Federico Varese

Nell’ottobre scorso, il boss del narcotraffico messicano ‘El Chapo’ Guzman invita l’attore americano Sean Penn e la stella messicana Kate del Castillo nel proprio nascondiglio sulle montagne. La ragione è un’intervista che porterà poi alla cattura di Guzman. Perché correre un tale rischio? ‘El Chapo’ non cerca semplicemente di passare una serata con due celebrità. Vuole che Hollywood realizzi un film sulla sua vita. Quanto accaduto ci ricorda che il cinema e il crimine organizzato sono attratti l’uno dall’altro in vari modi.
In primo luogo, gli sceneggiatori e i produttori saccheggiano la vita reale per prenderne ispirazione e portare sul grande schermo storie coinvolgenti per il pubblico. Negli Stati Uniti degli anni ’30, una schiera di film erano basati sulle sparatorie dell’età del Proibizionismo e sulla vita di Al Capone. E’ il caso di “Piccolo Cesare” (1930), “Nemico pubblico” (1931) e “Scarface” (1932). Oggi molti di noi rimangono incollati alla tv per vedere la bella serie “Narcos” sulla vita di Pablo Escobar, prodotta da Netflix. E i mafiosi non si limitano a rimanere solo soggetti cinematografici. Si interessano scrupolosamente della propria immagine sullo schermo e, se gli piace, modellano i propri comportamenti su ciò che vedono nelle pellicole.

"Piccolo Cesare" con protagonista Edward G. Robinson (1931)
“Piccolo Cesare” con protagonista Edward G. Robinson (1931)

Il primo film con protagonisti dei gangster “Musketeers of Pig Alley”, diretto da David W. Griffith nel 1912, racconta la storia di un criminale da quattro soldi che si innamora di una giovane donna e la protegge da un altro uomo che vuole approfittarsi di lei. Il protagonista Snapper Kid, cammina in modo spavaldo, mani nelle tasche della giacca di colore chiaro, nella quale nasconde una pistola, e veste un cappello ‘pork-pie’ nero (simile a quello indossato da Buster Keaton) tirato sulla fronte. È più elegante dei suoi scagnozzi e degli altri membri della gang, e ne va orgoglioso. Il cortometraggio (17 minuti) è ambientato a Manhattan, nel periodo in cui il quartiere era controllato da potenti gang. Quando esce, Al Capone – nato egli stesso a New York – ha tredici anni. Si unisce a una di quelle gang e vede il film. “Musketeers of Pig Alley” ha un tale impatto su di lui e sugli altri ragazzi della banda, che cominciano a emulare gli atteggiamenti e lo stile di abbigliamento visti sullo schermo. Gli storici, infatti, fanno risalire lo stile gangster a questo film muto.
“Il padrino” (1972) è il film che i criminali italo-americani amano di più. Anche prima che esca, l’Fbi intercetta una conversazione telefonica fra mafiosi nella quale si discute il cast. Quando arriva nelle sale, i componenti delle organizzazioni mafiose lo guardano più e più volte. Louie Milito, un membro della famiglia Gambino ucciso nel 1988, “lo ha guardato seicento volte”, scrive la moglie nella propria autobiografia. Dopo averlo visto, Milito e i suoi “si comportavano come gli attori del Padrino, baciandosi e abbracciandosi…e usando battute del film. Un paio di loro iniziano a studiare italiano”, assicura la signora Milito.

 

Una scena del film "Il Padrino" di Francis Ford Coppola con Marlon Brando
Una scena del film “Il Padrino” di Francis Ford Coppola con Marlon Brando

Il sociologo italiano Diego Gambetta ha sottolineato l’importanza dei film per le mafie. Poiché è illegale appartenere a Cosa Nostra sia in Italia che negli Usa, gli affiliati non possono mostrare apertamente la loro affiliazione (al contrario di quanto avviene in paesi come il Giappone). La mafia vuole costruire un’identità che tutti sono in grado di riconoscere, ma non può farlo legalmente. I film permettono ai mafiosi di essere riconosciuti da un vasto pubblico come membri di un’organizzazione altrimenti segreta. Comportandosi come i gangster sullo schermo, ci fanno sapere che essi sono i veri mafiosi. Le loro vittime ci penseranno due volte prima di opporsi alle richieste di un uomo che si atteggia e parla come Don Vito Corleone. Il paradosso è che i boss (veri) modellano la propria immagine su quella (fittizia) che appare al cinema per apparire più credibili per le strade di New York o di Palermo. Questo meccanismo e’ presente in realta’ nella storia culturale di molti peasi: ad esempio, le regole della cavalleria adottate dai cavalieri del Trecento e del Quattrocento erano tratte dal ciclo di Re Artù. Le spie dei nostri giorni chiamano la loro organizzazione ‘il circo’, un’espressione inventata dallo scrittore John Le Carré, come lui stesso mi ha detto. La peculiarità, nel caso delle organizzazioni criminali, è che i film agiscono in maniera involontaria come una grande macchina pubblicitaria.
Poco importa che la rappresentazione cinematografica non sia perfettamente accurata. La maggior parte delle famiglie della mafia italiana, ad esempio, non sono formate da persone imparentate fra loro e difficilmente un figlio succede al padre come boss, al contrario di quanto avviene nel “Padrino”. Mario Puzo ammise senza difficoltà di non aver avuto nessuna conoscenza parlicolare di Cosa Nsotra americana quando scrisse il suo libro, tuttavia per i criminali reali aveva catturato perfettamente l’essenza del loro mondo. Il Padrino è una storia d’amore, onore e morte che ha dato ai mafiosi senso ad una vita grezza e per nulla invibiabile. Non importa che i dettagli fossero piuttosto imprecisi.

Sean Penn intervista il boss 'El Chapo' Guzman
Sean Penn intervista il boss ‘El Chapo’ Guzman

Non si deve credere che i boss apprezzino tutti i film che parlano di loro. Mentre amano la trilogia del “Padrino”, non si sono mai entusiasmati per le opere di Martin Scorsese, come “Mean Streets” (1973), “Goodfellas” (1990) e “Casino” (1995). Anche “Donnie Brasco” (1997), la storia di un agente della Fbi che negli anni Settanta riesce a infiltrarsi nella famiglia Bonanno, non è gradito in certi ritrovi di Little Italy. Le narrazioni crude, nelle quali la mafia viene dipinta come una accozaglia di egoisti che spesso finiscono in galera, non giovano molto alla reputazione di queste organizzazioni. Lo stesso dicasi per i film che ridicolizzano i gangster, come “Analyze This” (1999), nel quale un boss ha bisogno di uno psichiatra, come ricorda Diego Gambetta nei suoi studi. Sospetto che Guzman volesse collaborare a un film sulla sua vita a patto di essere raffigurato come un padre dolce e amorevole, costretto a una vita da criminale a causa della povertà, in guerra contro rivali assetati di sangue che si meritano la morte (questo è ciò che emerge dall’intervista con Sean Penn pubblicata su “Rolling Stone”). Un film di questo tipo prodotto a Hollywood avrebbe diffuso l’immagine migliore del cartello di Sinaloa, guidato da Guzman, proprio nel mercato che vale di più: gli Stati Uniti.
Di sicuro, il trafficante messicano avrebbe costretto i produttori americani a glissare sulle sue preferenze per ragazze minorenni, che si faceva portare nella sua cella da guardie corrotte (come riportato da “The New Yorker”), o sulle migliaia di donne e bambini che ha ordinato di uccidere, o sul fatto che la sua fuga dalla prigione nel 2015 non è stata poi così coraggiosa. La tentazione delle organizzazioni criminali di scriversi il proprio copione è fortissima.

Una scena di "Battle Royale" (2000) sulla mafia giapponese
Una scena di “Battle Royale” (2000) sulla mafia giapponese

È esattamente quanto è successo con la mafia giapponese negli anni Settanta. Kinji Fukasaku, che ha diretto “Battle Royale” (2000), nei tardi anni Sessanta era un giovane regista della Toei, una delle cinque maggiori case di produzione, specializzata in samurai e film di gangster. In un’intervista del 1997 Kinji Fukasaku rivelò che “un boss raffigurato in una delle mie pellicole voleva controllare il film prima che uscisse, quindi ha organizzato una proiezione alla Toei. Arriva, si siede e lo guarda”. Fortunatamente approvò il prodotto finale. Da quando la Yakuza cominciò ad esercitare un veto sui film, la Toei perse quote di mercato drammaticamente. Perché? Le trame cominciarno ad essere stereotipate, basate su una netta distinzione fra ‘bene’ e ‘male’, con un Yakuza emergente costretto a tradire il codice d’onore dell’organizzazione per obbedire un boss cattivo e, alla fine, con l’uccisione del boss cattivo il codice veniva ristabilito. I conflitti tipici della vita nei bassifondi delle grandi metropoli e i dilemmi morali dei migliori film di gangster giapponesi e americani – nei quali criminali provenienti dai livelli bassi dell’organizzazione si battono contro il sistema, ma sono loro stessi corrotti e destinati a soccombere– non venivano più prodotti dalla Toei. Questa è la lezione che Guzman e i suoi amici a Hollywood non hanno ancora imparato: quando il boss si siede sulla sedia del regista, commette un crimine; artistico, ma comunque un crimine.

 

Nota: Questo testo è una versione di un mio articolo pubblicato il primo febbraio 2016 su Süddeutsche Zeitung. Ho affrontato temi simili anche su La Stampa, 15 gennaio 2016; e La Stampa 20.07.2014. Questi articoli sono disponibili sul mio sito, www.federicovarese.com [vedi]
L’autore che ha per primo sottolineato come le mafie copiano il cinema è Diego Gambetta, in La mafia siciliana, 1993 e poi nel saggio sul cinema nel suo Codes of the Underworld, 2009. Lì cita il caso di Musketeers of Pig Alley. Io ho studiato come le mafie non solo copiano il cinema, ma vogliono controllare l’immagine che compare sullo schermo, in un saggio del 2006, uscito su Global Crime, e poi tradotto in Italiano dalla rivista Lo Straniero (2007) [leggi]
La biografia di Linda Milito è Mafia Wife, 2004.Cesare Martinetti ha scritto un bellisssimo reportage nel giugno del 1993 per La Stampa su come i mafiosi russi erano influenzati da La Piovra. (f.var.)

IL DIBATTITO
Perché il Pd sta uccidendo la Sinistra

L’uomo è ciò che mangia, senza se e senza ma. Gli ideali, le schizofrenie, le depressioni, sono un vezzo dell’Occidente.
Andatelo a chiedere a Diji, Chege, Obi, Njanu e soci quanto sono depressi o quali siano i loro ideali! Andate a chiederlo a loro, in cima all’altopiano del Veld, tra il diciannovesimo parallelo Sud e il trentesimo meridiano Est, in mezzo a un lussureggiante nulla di miseria, fame e malattie. Oppure chiedetelo a Jaime, Pablo, Soto e i compañeros del barrio di Las Majas, nel loro festival permanente fatto di sporcizia, allucinogeni e violenza.
Domandatelo a loro e poi, se sarete ancora in grado di parlare, ditemi cosa vi hanno risposto.
I confini? Sovrastrutture. Ciò che conta è se piove, se fa freddo, se fa caldo, se c’è cibo da mangiare, se c’è acqua da bere… Il mio smartphone possiede una batteria che dura fino a dodici giorni tra una ricarica e l’altra. Io, senza bere acqua per sette giorni, passerei senz’altro a miglior vita, però avrei tanti bei selfie da lasciare in eredità… Il mio smartphone, per costruirlo, hanno consumato mille litri d’acqua: la stessa quantità d’acqua che servirebbe a dissetare cinquanta persone per quei dodici giorni di durata della sua batteria. Quante persone muoiono di sete al mondo in dodici giorni? Non tante quanti sarebbero i selfie che nel frattempo potrei farmi. Potenza della tecnologia, che allontana l’idea della morte dai miei pensieri.
La verità è che siamo fatti di cellule biodegradabili, come i nuovi sacchetti della spesa fatti di pannocchie. Sì, proprio quei sacchetti che ci fanno pagare dieci centesimi in più e si rompono quasi subito: nemmeno il tempo di uscire nel parcheggio e arrivare alla macchina che ti si stracciano in mano, facendoti rimpiangere quei bei sacchetti di una volta, indistruttibili ed eterni. Eppure, adesso più che mai, ci circondiamo di accessori fatti di materiali indistruttibili, ma delicati: si guastano quasi subito e vanno sostituiti con altri identici o quasi, magari un po’ più belli o con qualche vezzosa funzione in più. È il moto perpetuo del consumismo: produrre, consumare e buttare. Poi di nuovo, produrre, consumare, più una variante non bene compresa da tutti: riciclare. Tutti noi siamo figli del consumismo – da notare la curiosa assonanza con comunismo. Anche i vecchi comunisti si sono dovuti adattare alle regole della produzione e del mercato, diventando di fatto consumisti. E i figli dei figli dei figli dei comunisti nemmeno più si ricordano da dove vengono, se non per il fatto che qualcosina l’anno letta nei libri di storia (in via d’estinzione pure quelli). Il nuovo modello ha imborghesito tutti, persino i più radicali, i più anarchici. Ormai quel bel rosso scarlatto, sanguigno, sta diventando sempre più tenue, anemico, un rosato tendente al fucsia! C’è qualcuno che da bravo consumista ha fatto sua l’arte del riciclo, riciclandosi più e più volte. Ma che importa? Basta correre, correre sempre più veloci, l’importante è arrivare prima. Prima di chi? Prima degli altri. E gli altri chi sono? Gli altri sono gli altri!
Esatto! Ci siamo noi, poi ci sono gli altri. Ci sono io, mia moglie e i miei figli, il mio cane, c’è la famiglia insomma (sacra e unica), ci sono gli amici (quelli veri però), la squadra del cuore (sola e insostituibile), la patria (quattro volte campione del mondo), la cultura occidentale (culla di civiltà). Il tutto in rigoroso ordine di appartenenza e prossimità.
E tutto il resto? Tutto il resto sono gli altri, quindi che si fottano.
Ma, come una famosa canzonetta recitava venticinque anni fa, gli altri siamo noi. Noi che ci fottiamo a vicenda, inseguendo quella cosa che chiamiamo felicità, mentre è soltanto benessere.

Ebbene, perché il Pd sta tradendo la Sinistra? Perché i suoi rampanti giovanotti in giacca e cravatta negli uffici dei palazzi strizzano l’occhio a manager prezzolati? Perché i suoi attivisti in lupetto e giaccone nei centri sociali parlano tanto di global no global, coppie gay, ius soli e integrazione, e tanto poco di tutto il resto? Forse perché loro sono loro e gli altri che si fottano?
Il Pd ha copiato il compito in classe, ha sbirciato nel banco della Destra. No, non si tratta di contenuti, per carità, ma di metodi. Anche se poi alla fine ci si dimentica che il metodo usato, prima o dopo, si trasforma sempre in contenuto. Così gli interlocutori cambiano, e dai consigli di fabbrica si passa senza troppo clamore ai consigli di amministrazione delle banche. Ciò che conta è il risultato. E il risultato, da che mondo è mondo, è l’acquisizione del potere. Che altro?
Per il Pd la Sinistra deve cambiare, deve aggiornarsi ai tempi. Deve tagliare quel cordone ombelicale ormai logoro, se non addirittura putrescente, del vecchio proletariato industriale, una categoria ormai sull’orlo dell’estinzione sociale. Poco importa se quei vecchi proletari portarono diritti e uguaglianza tra le persone, poco importa se lottarono e morirono per la libertà, per la salute, per l’educazione e per il benessere di tutti. Oggi le priorità sono altre.
“Per raggiungere lo scopo sarebbe necessario resettare tutto”, avrà suggerito qualcuno ai piani alti. “Certo occorre farlo un po’ alla volta, sennò poi la gente se ne accorge e succede il finimondo! Qualche ritocchino alla Costituzione, qualche ritocchino allo Statuto dei lavoratori…”. Stai a vedere che il nuovo Pd al governo non riesca in una sola Legislatura a far traballare le conquiste ottenute dal vecchio Pci all’opposizione per trent’anni. Roba che nemmeno Berlusconi in vent’anni è riuscito a fare. Casomai qualche recente governo tecnico, per esempio!

E i sindacati? I sindacati sono ormai un guscio vuoto e le loro bandiere sono solo banderuole all’ombra del bandierone con tanto di rametto d’ulivo! Qualcuno di voi, meno distratto di me, si ricorda quando è stato fatto l’ultimo grande sciopero generale nazionale? L’ultima volta che il paese è stato mobilitato da Nord a Sud con manifestazioni di piazza degne di questo nome e migliaia e migliaia di persone chiamate a sfilare in corteo a Roma, Milano, Torino, Genova, Bologna? Io proprio non me lo ricordo. Eppure i motivi per protestare non mancherebbero.
Ho la sensazione che la parola ‘sciopero’ stia diventando una parolaccia anche per quelli del Pd. I loro nonni si rivolterebbero nelle tombe se sapessero: quante bastonate, quanto freddo e quanta fame hanno patito scioperando.
Eh sì, i nonni, i nostri morti. Sulla tomba del defunto viene naturale fare la faccia seria, dire parole solenni, di circostanza, pensando al tempo che passa, al fatto che è tardi e che devi scappare perché ti aspettano altrove. Così molli il nonno, tanto da lì non si muove, lo ritroverai la prossima volta che hai del tempo da buttare. E vai a farti i cavoli tuoi, con tutte le libertà che lui ti ha permesso di usare e abusare, fino al punto di sminuirne il valore e svenderle senza alcun pudore. Intendiamoci, mica tutti i nostri nonni erano comunisti, ma tutti quanti hanno sgobbato come muli per costruirci il mondo in cui siamo cresciuti. Chi da una parte e chi dall’altra, erano tutti in buona fede, pure nell’errore. Ci hanno regalato un mondo imperfetto, ma sincero, noi dovevamo solo smussare le punte e riempire le crepe, renderlo migliore.

E invece? Invece eccoci qua: la gente preferisce protestare a casa propria, urlare in silenzio pigiando tasti davanti ai monitor, ci si scanna a distanza, in tutta sicurezza, perché fuori dalla porta non si sa mai, è un mondo strano, impazzito. Il Pd, come tutti gli altri, lo sa: siamo rivoluzionari da salotto. E dai nostri salotti pagati a rate osserviamo il mondo. Coi computer comprati in offerta e l’abbonamento flat a tariffa agevolata, restiamo connessi giorno e notte per poter controllare e sbirciare in qualunque momento, non si sa mai succeda qualcosa nel mondo senza che ce lo dicano. La posizione è comoda, troppo comoda per spostarsi altrove. Non c’è abbastanza fame, non sappiamo più cosa significhi averla, sentirla dentro, e tantomeno urlarla fuori. E questo grazie o per colpa loro, sempre loro, i nostri nonni. È pur vero che da qualche tempo c’è la diffusa consapevolezza di appartenere a una generazione che, contrariamente al passato, lascerà a quelle future un mondo probabilmente peggiore. La vera tragedia però è l’aria di scorbutica rassegnazione che si respira ormai ovunque. Generatrice di un amorfismo generalizzato che è la più grande risorsa della classe politica, tutta intera, incredibilmente autorizzata a muoversi come le pare, senza dover concretamente render conto ad alcuno che si trovi fuori dal proprio campo sociale politico. Il malcontento tanto sbandierato tra le mura di casa stenta a uscire per strada, ad aggregarsi nelle piazze come accadeva una volta. Come mai? Si tratta forse di un senso di colpa generazionale? Di pudore, vigliaccheria, pancia ancora troppo piena?
Forse se ne saranno accorti tutti quelli che in questi anni hanno perso il lavoro, la propria casa, i risparmi di una vita, la dignità e l’orgoglio di essere cittadini del loro paese. Nessun grido di sdegno, nessun moto di ribellione, solo la speranza degli uni che gli altri risolvano i problemi, e il dissenso disorganizzato e apparente di molti nel silenzio indifferente di tutti. Qualcuno dice: “Embeh? La crisi è crisi! Le fabbriche falliscono e chiudono. Si cerca di salvare il salvabile”. Poi, se guardiamo bene, realizziamo che i ‘salvabili’ sono sempre gli stessi: quelli che non avrebbero nessun bisogno di essere salvati, perché il salvagente ce l’hanno incorporato nelle loro camicie di seta o nelle loro scrivanie di mogano. Non cambia niente, il peggio rimane saldamente primo in classifica.

In questo scenario il nuovo Pd non deve preoccuparsi di tenersi stretti i vecchi sostenitori della Sinistra, quei lavoratori che negli anni hanno via via perso le loro tutele e la capacità di muovere grandi masse di persone e di voti. Quell’universo di elettori abbandonati a se stessi si è smarrito, frantumandosi e dandosi al miglior offerente. Appare sempre più evidente che il Pd, diciamolo, non è più un partito di sinistra, ma di centro, orientato cioè alla definitiva conquista di quella tipica borghesia maggioritaria nel paese, moderata e silenziosa, che per quarant’anni ha votato Dc, compresa quella parte delusa dalle promesse di Berlusconi e insofferente alle volgarità leghiste.
Ma non basta. Per compensare e riempire il vuoto di consenso del vecchio proletariato industriale, condannato alla disgregazione e alla diaspora ideologica, al Pd serve l’appoggio di quello nuovo, emergente e desideroso di tutele: il sottoproletariato degli immigrati, una risorsa incoraggiata e fidelizzata dalle recenti politiche di integrazione promosse in primis proprio da Pd e Sel.
Cosa c’è di meglio, per una forza politica che ambisca al definitivo consolidamento della leadership in Italia, della convergenza in un unico partito contenitore di borghesia e sottoproletariato, uniti giocoforza dall’approvazione di massima di un mondo intellettuale tradizionalmente progressista, da sempre alla ricerca di un partito guida da contrapporre alla Destra?
Che poi si scenda a patti con enti finanziari e banche a scapito di piccoli risparmiatori; che si facciano accordi al ribasso con industriali desiderosi di trasferirsi dove il lavoro costa un decimo; che si chiuda un occhio sulla morale propria e dei propri alleati; che si accolgano volentieri extracomunitari, ben sapendo di poter offrire diritti spuntati guadagnandone pure il consenso: rimane solo una serie di dettagli eticamente discutibili, ma politicamente giustificabili nel lungo termine. Si dice che le scelte siano orientate alla formazione di una borghesia progressista e intellettualmente attiva, di una Chiesa finalmente illuminata e collaborativa e di una società multietnica ben integrata.
Già, dal comunismo al conformismo passando per il consumismo: la metamorfosi borghese del Pd è compiuta!

Per adesso, ciò che vedo profilarsi è l’imminente condanna a morte della Sinistra, almeno di quella che ero abituato a considerare tale, per mano di un carnefice tutt’altro che silenzioso e dal chiaro accento fiorentino.

ECOLOGICAMENTE
Il vetro: interamente riciclabile all’infinito

Il vetro in terminologia chimica diventa tante cose, ma per gli imballaggi si parla prevalentemente di ossido di silicio (vetri silicei) e di vetro cavo (il vetro piano lo lasciamo all’edilizia). Le tipologie di imballaggio sono soprattutto bottiglie, ma anche flaconi (per esempio di cosmesi), fiale e vasi.
Le preferenze dei consumatori sulle bottiglie in vetro (di acqua, birra e vino) sono in leggero aumento soprattutto per la fascia medio-alta di prodotti.
Il vetro è un materiale riciclabile al 100% e all’infinito. Inoltre, al contrario di molti altri materiali riciclabili, la materia prima che si ottiene, tecnicamente chiamata materia prima seconda e, nel nostro caso, “vetro pronto al forno”, ha le stesse caratteristiche e proprietà della materia prima vergine.
Qualche giorno fa è stato presentato il rapporto “Il riciclo del vetro e i nuovi obiettivi europei per la circular economy”, realizzato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile per conto di Assovetro.
In sintesi:
– l’industria del riciclo del vetro dà lavoro a 20.200 occupati e produce 1,4 miliardi di Pil;
– il settore ha generato 125.000 posti di lavoro e ha ridotto del 48% l’utilizzo di materie prime;
– la raccolta differenziata di questo materiale è arrivata al 77% e il tasso di riciclo è al 70,3%;
Esiste anche un percorso di ricondizionamento dei contenitori vuoti e di riutilizzo industriale di difficile quantificazione (parliamo di birre e acque per una quota di circa 200 mila tonnellate).
Il sistema della ripresa dei vuoti prevede che il cittadino, una volta consumato il contenuto della bottiglia, possa restituire quest’ultima al distributore e scegliere se riprendere la cauzione eventualmente versata o ottenere uno sconto sul prossimo acquisto dello stesso prodotto. Scopo di questo metodo, generalmente conosciuto come “vuoto a rendere”, è riutilizzare gli stessi contenitori per essere riempiti e rivenduti più volte.

Dice il Conai che sono stati immessi 2,3 Kton di vetro nel 2014 e ne sono stati avviati al riciclo 1,6 Kton, quindi oltre il 70 %: un importante risultato. Si sostiene che così si è ridotta l’importazione; tuttavia il settore ha molte questioni ancora da risolvere, a partire dalla crisi dei trasformatori (basta guardare lungo la via Emilia), nonostante l’aumento delle raccolte differenziate.
Grazie al vetro riciclato, ogni anno vengono prodotti in Italia circa 10 miliardi di contenitori, che portano il proprio valore aggiunto di trasparenza, inalterabilità nel tempo, igiene, impermeabilità e sostenibilità ambientale in innumerevoli aspetti della vita quotidiana.
Ma c’è un problema: dal rottame di vetro di colore misto – il solo generato in Italia dalla raccolta differenziata – non è possibile creare contenitori di colore bianco-trasparente. Infatti, per quanto riguarda la raccolta del solo vetro bianco siamo ancora molto indietro rispetto a paesi come Germania e Francia, costringendo così le nostre aziende ad importarlo.
Il Comune di Ferrara e la società Hera, con il patrocinio di Coreve, hanno avviato nel febbraio 2007 un progetto pilota per la raccolta monocolore del vetro, prevedendo la separazione del vetro bianco o incolore, dalle altre tipologie di vetro colorato. Non credo che il progetto abbia avuto successo.
Alle vetrerie conviene utilizzare il vetro usato, perché consente di risparmiare il 25% circa di energia nel processo di produzione. Il vetro usato è certamente un materiale di qualità, ma non consente di avere ricavi elevati. Per poter avere delle opportunità di vendita sul mercato internazionale, è necessario operare una raccolta differenziata per colori. Esportare vetro frantumato ha senso solo se può essere riutilizzato per la produzione di bottiglie. A questo scopo, si utilizzano preferibilmente cocci di vetro separato per colori. Sul mercato del vetro usato sono particolarmente richiesti cocci di vetro marrone o bianco.

Dall’ultimo rapporto Ispra sui rifiuti urbani (novembre 2015) risulta che il costo medio di gestione per kg di materiale, valutato a livello nazionale, è di 11,15 eurocent, in corrispondenza di un conferimento pro capite di 31,3 kg/abitante per anno, mentre il costo annuo pro capite risulta di 3,49 euro/abitante per anno. Nella Rd del vetro di imballaggio (Cer 150107) i costi di raccolta e trasporto incidono per il 90,1% sui costi totali.
Un altro problema è dato dalla presenza indesiderata della ceramica. Ci sono, infatti, materiali che sembrano vetro, ma vetro non lo sono. Il caso più insidioso è forse quello dei materiali inerti che fondono a temperature più alte del vetro, come la vetroceramica. È però importante ricordarsi di tenere la vetroceramica (tipo il “pirex”) – così come i piatti, le tazzine in ceramica o porcellana – ‘alla larga’ dal vetro perché è sufficiente un solo frammento di questi materiali mescolato al rottame di vetro pronto al forno per vanificare il processo di riciclo, dando origine a contenitori destinati irrimediabilmente a infrangersi. Per questo tra Coreve e Anci è stato siglato un accordo per abbattere i quantitativi di ceramica nella raccolta del vetro, annunciando la temporanea modifica delle le specifiche tecniche previste dall’Accordo Quadro, relativamente alla quota di inerti presenti nella raccolta differenziata del vetro.
In Emilia Romagna nel 2014 sono state raccolte in maniera differenziata 153.912 tonnellate di vetro, che corrispondono a 35 kg per abitante. Di queste, 152.503 t sono state raccolte dai gestori del servizio pubblico (60.868 t monomateriale e 91.635 t nel multimateriale) e 1.409 t sono rifiuti vetrosi assimilati che il produttore ha avviato direttamente a recupero. Una prima analisi dei flussi evidenzia che, rispetto al totale raccolto, pari a 153.912 t, il 5% dei rifiuti vetrosi ha seguito la via del libero mercato, mentre il 95% è stato avviato a effettivo riciclo tramite il sistema consortile CoReVe (Consorzio Recupero Vetro).

Poi c’è l’alluminio. Il vetro e l’alluminio riciclati mantengono quasi del tutto inalterate le proprie qualità, consentendo di risparmiare sia le materie prime sia l’energia necessaria a produrli. Per questo in molti casi si raccolgono insieme. Per la raccolta e il riciclo dell’alluminio è stato costituito uno specifico consorzio, il Cial. L’alluminio – identificato con il simbolo Al – è un elemento comune che costituisce l’8% della crosta terrestre e si presenta in natura sotto forma di minerale: la bauxite. E’ un metallo fondamentale dell’era dello sviluppo tecnologico. Da molti anni ormai l’industria italiana del riciclo dell’alluminio detiene una posizione di rilievo nel panorama mondiale per quantità di materiale riciclato. Il nostro Paese è infatti terzo nel mondo, insieme alla Germania, dopo Stati Uniti e Giappone.

Leggi il rapporto Il riciclo del vetro e i nuovi obiettivi europei per la circolar economy: Dossier-Assovetro

Quando il riflesso è lo specchio dell’anima

Se Ferrara avesse ancora canali e corsi d’acqua, se acque fresche e pulite zampillassero in grandi fontane, o se solo fosse piena di specchi, la città si moltiplicherebbe in un gioco di caleidoscopiche figure: riflessi infiniti di mattoni in cotto si susseguirebbero come in un labirinto, le immagini dei monumenti in marmo e travertino scivolerebbero sull’acqua e i palazzi aristocratici potrebbero pavoneggiarsi con i loro fregi di frutti, piante e animali fantastici. E allora potremmo vedere più facilmente tutte le immagini della città e della sua anima.

Clicca sulle immagini per ingrandirle.

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In foto: un muro in cotto di viale Alfonso d’Este si riflette in una grande pozzanghera.

Immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

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Marzo

Dal tempo atmosferico di questi giorni non si direbbe, ma sta arrivando la Primavera. Ecco come ve lo direbbe un vero scrittore.

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Théophile Gautier

Mentre che dietro pensieri malvagi
corre la gente con gran bramosia,
Marzo sghignazzando tra i nubifragi
schiude ai fiori di nascosto la via.

(Théophile Gautier)

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

Lou Reed, rock e poesia

Il 2 marzo 1942 nasceva a Brooklyn Lewis Allan Reed, diventato qualche decennio dopo noto a tutti semplicemente come Lou Reed. Grazie alla band da lui fondata, i Velvet Underground, e la sua fortunata carriera da solista, Lou Reed è stato uno dei musicisti più influenti della storia del rock n’ roll, contribuendo significativamente a lanciare generi quali la new wave ed il punk. Tra i pochissimi in grado di rendere il rock davvero poetico, scrisse brani intramontabili spesso riguardanti tematiche tra le più difficili e disagiate: simbolo di questo stile Walk on the Wild Side, contenuto nell’album Transformer del 1972.

Ogni giorno un brano intonato a ciò che la giornata prospetta…

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