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Giorno: 4 Novembre 2016

La Chiesa Arcipretale di Bondeno. Storia, archeologia e restauri convegno

Da: Organizzatori

Sabato 5 novembre 2016, dalle 16 alle 18,30
Sala 2000, viale Matteotti 10 a Bondeno (Fe)

La Chiesa arcipretale dedicata alla Natività di Maria Vergine è il principale edificio di culto di Bondeno. Costruita nel 1114 per donazione di Matilde di Canossa, è dotata di una coeva torre campanaria ed è stata di recente oggetto di importanti interventi di restauro conservativo.
Ai saluti del Sindaco di Bondeno, Fabio Bergamini, e dell’Arciprete di Bondeno, Mons. Marcello Vincenzi, seguono gli interventi di
Andrea Calanca (storico)
Introduzione storica
Mauro Librenti (Università di Venezia)
Le ricerche archeologiche
Giovanni Santarato, Samuel Bignardi, Nasser Abu Zeid (Università di Ferrara)
Le indagini geofisiche
Patrizia Polastri (architetto)
Il restauro della Torre Matildea
Mauro Sorpilli (restauratore)
Il restauro del crocifisso
Le conclusioni sono affidate a Chiara Guarnieri, archeologa della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, direttore scientifico delle indagini archeologiche
L’iniziativa è promossa da Comune di Bondeno, Associazione Bondeno Cultura, Gruppo Archeologico di Bondeno, Rotary Area Estense e Lions Club Bondeno con la partecipazione della Sabap-Bo
Ingresso libero

Continuano gli incontri di ‘Parliamodimare’

Da: Organizzatori

    Prossimo incontro della rassegna ‘Oceani..Mari..Fiumi..le vie dell’acqua, voluta ed organizzata da Enrico Dalpasso e Francesca Alvisi (Ismar-Cnr) come promotori del progetto ‘parliamodimare’, una sorta di ‘banchina di condivisione’ aperta a tutti, per parlare di storie ed esperienze di gente di mare, di ambiente ‘Acqua’, favorendo la diffusione della cultura nautica e scientifica, e culturale sul tema a noi caro.
    Questa breve rassegna, ha il patrocinio del Comune di Ferrara e dell’Istituto di Scienze Marine – Cnr e con la collaborazione delle principali associazioni nautiche del territorio.
    Gli incontri ancora in programma sono:
    -Sabato 5 novembre ore 17,30 con Fabio Fiori, scrittore e marinaio, biologo marino ed insegnante, che  ci presenterà ‘Respiro Mediterraneo’, un reading originale, la cui lettura riguarderanno alcuni brani scelti dai libri ‘Anemos’ e ‘Thalassa’.La voce narrante di Fabio, dialogherà con le note musicali di Angelo Lorenzo Pastorini, allievo del conservatorio di Ferrara, attraverso le sonorità della fisarmonica.
    Un dialogo narrativo – musicale, ricco di suggestioni e spunti…
    L’ultimo incontro sarà:
    -Sabato 12 novembre ore 17,30 ‘Sul Fiume Lentamente’ il titolo della presentazione con Giacomo De Stefano, navigatore, comunicatore e Film-maker, da anni alla ricerca di nuovi modi per sviluppare economie sostenibili e resilienti, legate alle vie di comunicazioni fluviali. L’incontro sarà occasione per vedere parte del film ‘Man On The River’ un eco viaggio slow, a remi e vela da Londra ad Istanbul.
    Dove: C/O la ‘Sala Della Musica’, Chiostro di San Paolo, in via Boccaleone,19- Ferrara

Inaugurazione della mostra ‘Franco Guberti e l’amico Annibale Zucchini”

Da: Organizzatori

Domenica 6 novembre alle ore 17,00 presso la Pinacoteca Civica di Bondeno verrà inaugurata la mostra di disegni e sculture ‘Franco Guberti e l’amico Annibale Zucchini’.

Franco Guberti è nato a Bondeno il 10 giugno 1927; frequenta il Dosso Dossi sotto la guida di Laerte Milani, abbandonando al quarto anno per ‘scappare’ a Parigi negli anni post bellici.
A Parigi si arrangia facendo lavoretti di fortuna e nel frattempo frequenta l’Accademia di Belle Arti parigina; nella capitale francese viene raggiunto da un altro artista bondenese, Alberto Cavallari, poi successivamente anche da Galileo Cattabriga.
Nel 1950 rientra in Italia per fare il servizio militare, per ritornare, appena finito, di nuovo a Parigi; nella città francese rimaneva sei/sette mesi all’anno, poi ritornava a Bondeno dove collaborava con Galileo Cattabriga, per il quale sceglieva le opere da vendere.
A Ferrara conosce Annibale Zucchini con il quale allaccerà una amicizia duratura, sia a Ferrara che a Parigi; insieme realizzeranno opere e si scambieranno consigli e suggerimenti.
A Ferrara apre uno studio dove realizza ceramiche, e dove fa amicizia con Silvan, nel 1954 vince la Medaglia d’oro per la scultura in un concorso a Copparo, mentre nel 1956 vince la Medaglia d’oro alla ‘IV mostra d’arte Premio Bondeno’.
Questa che viene realizzata a Bondeno è la prima mostra di sue opere, accompagnata da alcune sculture di Annibale Zucchini.
Franco Guberti è morto a Bondeno il 4 febbraio 2002.
Orari di visita: sabato, domenica e festivi ore 10,30-12,30 e 15,00-18,30
Comune di Bondeno – Assessorato alla Cultura
Associazione Bondeno Cultura

INSOLITE NOTE
“Vizi, peccati e debolezze”, il nuovo album di Luca Burgio e Maison Pigalle

In questo periodo si moltiplicano i debutti discografici, una scelta quasi obbligata per chi vuole proporsi e avere opportunità di visibilità ed esibizioni dal vivo.
Quasi sempre queste produzioni riguardano artisti con alle spalle anni di lavoro ed esperienza, una dimostrazione ulteriore del talento e della volontà degli autori nostrani. Luca Burgio non smentisce questa tendenza e si propone con la forza di chi ha respirato parole e musica nei bar della movida madrileña, tra jazz manouche improvvisato, ballate popolari e i clienti assetati da servire.

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Luca Burgio e Maison Pigalle

Il musicista siciliano ha pubblicato “Vizi, peccati e debolezze”, la sua opera prima realizzato con La Maison Pigalle, il gruppo di supporto che riassume nel nome le atmosfere dei jazz club parigini, così come la vita notturna ai tempi del proibizionismo americano.
Le nove canzoni del disco riportano ai scapigliati, a quella parte del movimento espressione di eccentricità e anticonformismo, di sognatori e poeti viscerali che reclamavano un più intimo contatto con la vita. Le similitudini ci sono, così come le differenze ma l’accostamento realizza le atmosfere della musica di Burgio.
“75cl di brindisi” apre l’album con una bicchierata, il modo migliore per augurarsi buona fortuna: “Ed oggi resto a casa a fare i conti con la vita, sigarette e una bottiglia da coccolare come una figlia…”. La ballata esprime amare considerazioni e una visione della vita istintiva e disincantata, rivelata senza veli e metafore.
I racconti di Burgio hanno il gusto del vissuto, tra candida ironia e la voglia di descrivere le persone della sua vita, con toni e suoni epici che in qualche passaggio ricordano Fabrizio De Andrè, come nei brani: “La rondine e l’inverno” e “Il sordo”: “Vostro onore io lo ammetto sono stato un gran bugiardo da vent’anni non ci sento e mi affido ad ogni sguardo, io del mondo non so niente io non sento discussioni solo gli occhi della gente e le mie cieche sensazioni…”.

“La cicala e la formica”, in veste di ballata popolare, utilizza la metafora per raccontare gli aspetti meno nobili dell’arte: “… un mondo di arrivisti sfruttatori opportunisti che succhiano al midollo la passione degli artisti ma dentro una formica si volle pronunciare ognun della sua vita faccia quello che gli pare, lasciatela alla porta fin quando non è morta con lei ci nutriremo per tutto un mese intero…”.
“La Sindrome di Dorian Gray” invita a godersi la vita tra vizio, eros, gioco d’azzardo e vanità, citando il famoso romanzo di Oscar Wilde e rivisitando gli aforismi di Lord Wotton, il diavolo tentatore di Dorian; uno specchio che si riflette nell’intero album.
“Un bicchiere fra di noi” inizia a ritmo di tango per poi velocizzarsi con suoni folk nostrani e lontani, preambolo alla bellissima “Un fegato in più”, dall’anima gipsy, e chiudendo con la tromba jazz di “Buscavidas”.

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La band

“Vizi, Peccati e Debolezze” è un lavoro solare, energico e anche un po’ cupo, in cui si intrecciano fisarmoniche “avvolgenti”, chitarre manouche, fiati mariachi, mandolini e tanta voglia di suonare e raccontarsi. Fisarmonica e mandolino sono un aereo su cui viaggiare nei paesi del mediterraneo e anche un po’ oltre, il costo del biglietto è quello di un CD.

La Maison Pigalle: Andrea Scimè – contrabbasso / Armando Fiore – percussioni
Marco Macaluso – fisarmonica – Mauro Schembri – mandolino / Ettore Baiamonte – chitarra

Luca Burgio e Maison Pigalle – La Sindrome di Dorian Gray

Il punto di rottura: un mondo diviso fra turisti e vagabondi

L’impressione è terribilmente simile a quella del film “The day after tomorrow” del 2004, ossia che non siamo lontani dal punto di rottura. Sullo schermo però il crack è climatico (tutt’altro che lontano, peraltro), mentre qui è sociale, quasi antropologico.
A Gorino, perché dovevano arrivare dodici profughe, è successo il finimondo. “Non è razzismo, ma non ci vanno le decisioni calate dall’alto”; “Si comincia così, poi ci tolgono tutto”. Sono solo alcune frasi della protesta che ha costretto il Prefetto di Ferrara a dirottare altrove le dodici donne, grazie al sì di chi, anch’egli all’ultimo minuto, stringendosi ha trovato per loro un tetto.

Andando oltre l’esercizio che appassiona tanti di tirare una riga per dividere i buoni dai cattivi, come si faceva a scuola quando la maestra usciva di classe, forse non è tempo perso riflettere su un un’ondata migratoria che, spinta dalla disperazione, è disposta a oltrepassare ogni ostacolo e frontiera pur di sopravvivere e cercare una speranza per sé e per i propri figli. Tanto che il sociologo polacco Zygmunt Bauman, fra le ultime declinazioni della globalizzazione, scrive di un mondo diviso fra turisti e vagabondi.
Se non si vuole ascrivere quest’umanità al fenomeno turistico, è bene innanzitutto guardare in faccia una realtà che a tutti gli effetti è un dramma di proporzioni epocali, prodotto di squilibri non naturali e col quale occorrerà fare i conti ancora a lungo.
Questo è già un primo elemento che fa temere il punto di rottura, se si pensa che fra coloro che si mettono nelle prime file della protesta c’è chi ha già dato prova di avere più a cuore la sorte dei tritoni di palazzo Specchi (cui è stato trovato un ricovero idoneo in un centro specializzato), rispetto a esseri umani ai quali non è rimasto altro che la vita, peraltro densa di ricordi che pesano come macigni.
Il problema è che le migliaia di sbarchi avvengono in un momento storico nel quale ciò che è percepito dalla pancia dei popoli europei non è più l’orizzonte di solo pochi anni fa. Conta poco se anche le paure della piccola comunità di Gorino siano più percepite che reali. Si rischia la discussione inconcludente fra la temperatura percepita rispetto a quella reale, durante il caldo martellante dell’estate.

E’ l’hic et nunc di un Occidente senza utopie, come scrivono nel loro libro Paolo Prodi e Massimo Cacciari (2016) e di un’Unione europea che sembra dilapidare le grandi ragioni della propria esistenza, preferendo compiacersi in atti di autoerotismo contabile, piuttosto che cogliere un’occasione storica per fare sintesi fra tradizioni laiche e religiose sul comune principio del rispetto per la vita e la dignità umana.
Come non vedere la clamorosa contraddizione del presidente francese Hollande, che sullo stretto della Manica cerca di farsi in quattro per favorire l’esodo dei migranti verso la Gran Bretagna (che nel frattempo ha scelto la Brexit invece della pur claudicante Europa), mentre con l’altra mano spedisce la gendarmeria ai confini con Ventimiglia per sigillare porte e finestre della Francia? Senza contare che ci stiamo assuefacendo anche all’indifferenza dei termini, quando è comunemente chiamata “Giungla” l’insediamento di Calais: nella giungla stanno gli animali e i selvaggi, a eccezione di Tarzan.

In questo contesto diversi osservatori prendono a prestito il linguaggio usato nei terremoti per dire che viviamo un tempo nel quale si stanno producendo pericolose faglie di paure e timori, che presagiscono tremendi scontri, prima o poi, tra le placche umane e sociali, mentre mai come ora ci sarebbe bisogno di soglie per facilitare incontri.
A complicare la scena contribuisce un Islam, che nell’atavico scontro sciiti-sunniti riporta in Europa gli spettri della lotta tra cattolici e luterani e della Guerra dei Trent’anni dopo la defenestrazione di Praga (1618). Religione che nella propria essenza, ricorda Paolo Prodi nello stesso libro scritto con Cacciari, fatica ad accettare la distinzione tra legge divina e legge umana e mette in discussione la laicità come conquista storica dell’Occidente.

In mezzo a un oggi desolatamente senza bussola, la politica sembra impotente ad andare oltre un contingente che affoga nell’emergenza. Ezio Mauro, ospite da Lilli Gruber, ha detto che c’è bisogno di risorse politiche.
Come anche il caso di Gorino pare dimostrare, non serve a un granché continuare a fare appelli alla buona volontà, ripetere il mantra della solidarietà e del multiculturalismo, se non si avverte che c’è un problema di domanda di protezione e di sicurezza, rispetto a un futuro percepito come sempre più incerto. Specie dalla parte più fragile della popolazione (anziani, persone sole, senza lavoro, precariato, periferie), che si trova il mondo rovesciato già sulla porta di casa.
Per l’ex direttore de La Repubblica, se la sinistra non si china sull’entità di questa inquietudine e se non si cerca una fuoriuscita democratica (attenzione all’aggettivo), allora l’unica soluzione diventa la “politica a specchio”, le cui stesse parole – muri, filo spinato, ruspe – non fanno che fissare un orizzonte di paura. Così ha buon gioco la destra che sta facendo breccia ovunque in Europa, che oppone slogan semplici a chi non riesce più a bucare lo schermo con il senso di responsabilità e con gli appelli a tenere botta in una situazione – nazionale e internazionale – che fa acqua da tutte le parti (devastante lo stallo tra potenze sospettose su Aleppo, mentre l’inerme popolazione civile è quotidianamente vittima di una strage).
Una destra, e non solo, che cavalca cinicamente la paura, incurante dei fuochi che accende e del suicidio a cui porta il piano inclinato dell’antipolitica.

Si percepisce l’avvicinarsi del punto di rottura, perché il fiume umano della disperazione fatalmente si infrange su un tornante storico nel quale l’ingresso non avviene nel paese dei balocchi, ma in un mondo in profonda crisi economica e di speranze. E le stesse dimensioni del fenomeno accrescono timori, insicurezze e ansia del caos. Ancor più quando la gestione dei flussi, per essere teneri, presenta margini di miglioramento evidenti, a cominciare da Bruxelles.
Se il mare in tempesta che abbiamo di fronte non è pura fantasia, un punto di appoggio lo ha indicato Enzo Bianchi nel suo libro “L’altro siamo noi” (2010).
L’altro siamo noi perché se si comincia a tracciare una linea per stabilire a chi riconoscere diritto di vivere, rispetto e dignità, allora la storia dimostra ampiamente che prima o poi può toccare a ciascuno di noi. Perché dipende sempre da chi traccia quella linea. E’ solo questione di tempo.
Se si comincia quindi a stare alla larga da chiunque pretenda di tracciare quella maledetta linea, è già un passo avanti che ciascuno fa innanzitutto nel proprio interesse.
Si viene poi a sapere (La Nuova Ferrara 27 ottobre) che nell’emergenza di Gorino, sindaci e amministratori, di notte, si sono messi alla guida di auto e pullmini, ciascuno col proprio carico di umanità bisognosa, alla ricerca di una sistemazione.
E’ un altro punto d’appoggio da non liquidare cinicamente come semplice buonismo, perché nel buio e nella concitazione di quell’emergenza possono nascere più cose che in decine d’interpellanze, con tanto di numero di protocollo. Quasi un’aritmetica e ostinata consapevolezza, come diceva Teresa di Calcutta, che se quella è solo una goccia nell’oceano, senza quell’aiuto all’oceano mancherebbe una goccia.

La catena alimentare: pesci grandi e pesci piccoli

Esiste una catena alimentare tra gli esseri umani in cui il più debole è sacrificato sull’altare del benessere personale dell’elemento più forte. Se poi entra in circolo nella catena alimentare anche il tema dell’immigrazione, l’altare in cui si offriranno più sacrifici sarà quello del dio denaro. In una sequenza infinita di dare e avere, c’è chi offre un servizio a chi, per ripagarsi dei soldi spesi, ne offrirà un’altro, lucrandoci, al proprio vicino più svantaggiato. Ne sono pieni i titoli dei giornali: lavoro in nero, falsi certificati, fittizi contratti di lavoro tutti finalizzati ad ottenere l’agognato permesso di soggiorno. Si è aperta a settembre, presso il Tribunale di Ferrara, la prima udienza preliminare che vede imputate un’impiegata della Prefettura, un’avvocatessa ferrarese e tre imprenditrici cinesi accusate di aver gestito un’organizzazione che, dietro pagamento di sette mila euro da parte di connazionali cinesi, presentava domande di permesso di soggiorno prodotte sulla base di falsi contratti di lavoro e di affitto di immobili.
Ci guadagnano professionisti e operatori italiani, ma ci guadagnano anche cittadini stranieri che, a loro volta, trovano il modo di lucrare alle spalle dei propri connazionali. Il lavoro in nero è la prima e più frequente delle piaghe indotte da questo sistema: che sia la badante per il genitore anziano o il muratore che costa una miseria per il proprio cantiere, la casistica vuole che il cittadino italiano si metta in tasca diverse migliaia di euro risparmiate non regolarizzando il lavoro del proprio dipendente. Dipendente che spesso è un cittadino irregolare che non può aspirare a niente di meglio, data la propria situazione ai margini della legalità. Una illegalità che persiste proprio per l’impossibilità ad ottenere un contratto di lavoro regolare che, di fatto, regolarizzerebbe un’intera esistenza.

Come detto, ci guadagna il cittadino italiano ma, spesso, ci guadagna anche il cittadino straniero, in un sistema di truffe incentivato proprio dalla lotteria “permesso di soggiorno”, il titolo che autorizza la presenza dello straniero sul territorio dello Stato Italiano e ne documenta la regolarità. In sostanza si tratta di trovare una persona dotata di partita iva o attività commerciale, che dichiari di assumerti e ti fornisca un alloggio. Da qui nasce il fenomeno dei “referenti nazionali”: stranieri già presenti in Italia che, dietro il pagamento di laute somme di denaro, fanno da intermediari con i propri connazionali per fornire loro i requisiti di lavoro e alloggio richiesti. Da qui nasce la tragedia dei lavoratori cinesi, stipati in piccoli laboratori-dormitori, costretti a vivere per lavorare e ripagare così il proprio “permesso d’oro”. E sempre da qui nascono le liti tra condomini che vedono un via vai, nella propria palazzina, di famiglie nigeriane sempre diverse tra di loro, fatti passare per ospiti ma in concreto subaffittuari del medesimo appartamento. Lo fanno per disperazione? Lo fanno per cattiveria? Lo fanno perché, in un sistema malato che li costringe ai margini della società, non gli resta che rispolverare l’atavica legge della giungla sui più deboli (i nuovi arrivati) dei loro connazionali? Le voci di critiche si susseguono: “sono troppi, ci rubano il lavoro, rubano in casa nostra, portano le malattie”. Le malattie però non fanno paura se “quello lì”, l’immigrato, ti offre quattro mila euro in contanti per portarti all’altare. La situazione è molto più complessa e trasversale del “noi con loro” o “noi contro di loro”. Se i carnefici fossimo solo noi la situazione sarebbe paradossalmente più tranquillizzante, ma se i carnefici sono anche “tra loro”, se a sfruttare i nuovi arrivati sono gli immigrati stessi, quelli di lungo corso, la situazione diventa ben più destabilizzante.

In una disputa in cui in palio è il permesso di soggiorno o l’asilo politico, a seconda delle situazioni, si combatte senza esclusione di colpi. Persone fuggite dalla guerra e dalla povertà, in cerca di un futuro migliore per sé e i propri familiari, diventano pedine, perdenti fin dall’inizio, di un sistema che non riesce ad arginare i suoi fenomeni di criminalità. Lo status di rifugiato viene riconosciuto dalla Commissione territoriale competente, in seguito alla presentazione della domanda di protezione internazionale, nel caso in cui lo straniero possa dimostrare il fondato timore di subire nel proprio paese una persecuzione personale, ai sensi della Convenzione di Ginevra. Sacrosanto diritto. Ma la maglia di protezione, spesso, si dimostra troppo larga se, consigliati da competenti addetti ai lavori, spesso avvocati, si riesce ad incasellare un percorso di vita in uno dei requisiti richiesti per ottenerlo. Molti “omosessuali” tunisini sono entrati in Italia per poi sposarsi successivamente con proprie connazionali.

Le numerose domande sulla giustezza di tutto ciò dovrebbero orientarsi, oltre che sul valore della persona, anche sulla correttezza del sistema. Gli immigrati, identificati in un qualsiasi paese della comunità europea, hanno l’obbligo di rimanere in quel paese fino al chiarimento della propria posizione. Mesi in cui la vita è sospesa, ospiti invisibili in attesa di un giudizio finale. Una condizione di vita che abbruttirebbe qualunque essere umano che si vedesse costretto a dormire in un ostello, a bivaccare in una panchina, passando intere giornate in attesa del nulla. Qualsiasi essere umano, appunto: noi come loro.

L’omone

Antonio è un uomo sui quaranta, alto e imponente. Quando lo abbiamo incontrato la prima volta, mia nipote di 4 anni l’ha osservato incuriosita volgendo lo sguardo verso l’alto e sgranando gli occhi come per poterlo contenere tutto. L’omone – così è stato soprannominato per simpatia e così è ormai classificato nella mia rubrica dell’iphone – sa fare molti lavori: trasportatore, imbianchino, muratore, riparatore. Lo abbiamo conosciuto per caso, sulla pressione di un obiettivo impellente: sgomberare un’ampia cantina da una montagna di oggetti stipati e accatastati a segnare – come ere geologiche – il tempo di una vita. Prima di Antonio, abbiamo incontrato l’ottusa irrazionalità del servizio pubblico di Hera che per lo sgombero pretende che i cinque pezzi – che rappresentano il limite di prelievo per ogni servizio concordato – siano accuratamente elencati e comunicati preventivamente per telefono. In pratica l’operazione di sgombero della cantina avrebbe richiesto mesi, impiegati nell’improbabile redazione di liste di oggetti come assi, parti di motori inceppati, attrezzi di lavoro minuti e pesanti allo stesso tempo, vecchi elettrodomestici, e molto altro. In un primo tempo ci siamo rassegnati a questa regola irrazionale – anche se con desolazione – ma la difficoltà di dare i nomi a frammenti di oggetti sconosciuti è stata insuperabile!
Per questo l’omone ci ha salvato. Rapido e silenzioso ha sgomberato tutto, ci ha aiutato via via a smaltire i molti ingombranti e spesso pesanti oggetti non recuperabili e a donare quelli ancora utilizzabili. Sollevava gli oggetti come piume per metterli nel suo furgone capiente. Tornava ogni volta che ne avevamo bisogno. Così per un mese. Dovevamo dipingere il garage e lui si è offerto di farlo, dovevamo aggiustare mobili da montare nella cantina e lo ha fatto, gli abbiamo affidato il compito di imbiancare la casa e lui lo ha fatto in un giorno, ha riparato tutte le piccole cose che non andavano, ha aggiustato cassetti, ha piantato chiodi, limato porte anodizzate, aggiustato ante traballanti, sistemato serrature e cerniere dei mobili, spostato e montato pensili, stuccato e levigato là dove c’era bisogno. Tutto questo in pochissimo tempo e con un garbo che contrastava la corporatura imponente.
Involontariamente un giorno abbiamo buttato via la sua radio, credendo che facesse parte degli oggetti da smaltire, lui era sgomento “comeee, l’hai buttata viaaa? C’erano registrate le musiche del mio paese? Io come faccio adesso?” Il giorno dopo ci ha detto che ne ha trovato una nuova – che conteneva le musiche come l’altra – ovviamente gliela abbiamo pagata ed è stato un grande sollievo per noi sapere di non avere fatto un danno irreparabile.
Antonio viene dalla Moldavia, non so altro di lui.
Possiamo considerare questo un esempio di possibile concorrenza tra lavoratori italiani e lavoratori extracomunitari? Forse. Ma per fortuna per noi molti lavoratori extracomunitari che svolgono i più disparati lavori con impegno, flessibilità e intelligenza, hanno scelto di abitare nelle nostre città.

La storia ai raggi ‘K’: l’uomo ritorna alle caverne

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Raffaele Rinaldi, direttore dell’associazione Viale K

di Raffaele Rinaldi* La Ferrara di sotto

“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri,
allora io reclamo il diritto di dividere il mondo
in diseredati e oppressi da un lato,
e privilegiati e oppressori dall’altro.
Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri”.
(Don Lorenzo Milani)

Non è passato molto tempo da quando è arrivata a Ferrara Samantha Cristoforetti per raccontarci il suo straordinario viaggio nello spazio mostrando al pubblico le immagini mozzafiato proiettate sullo schermo gigante. Il campo visivo si riempiva di panoramiche universali, di metropolitane come grumi di luci che resistevano alla notte e di distese immense di acqua e terra. E chissà se avvicinandosi ancora un po’ non avremmo potuto vedere su questo pianeta anche le cicatrici del passato e le ferite aperte del presente.
Nell’era dei viaggi interplanetari continuano a sorgere muri di cemento armato, confini respingenti costruiti con il filo spinato e le reti elettrificate. Barriere di una umanità contro un’altra parte di umanità: quella più povera. E chissà se oggi ‘zoommando’ ancora di più con le sofisticate strumentazioni di monitoraggio presenti a bordo della navicella non sia capace di vedere anche i nostri piccoli paesi fabbricare le piccole barricate per scacciare uomini, donne e bambini.

Sono tornate le piccole patrie dove ognuno pensa di recintare un micro territorio, innalzare delle bandiere, per dichiarare guerra agli altri illudendo gli abitanti che, rinchiudendosi come cavernicoli, si possa guadagnare ricchezza e benessere, pur tuttavia essendo consapevoli – forse non fino in fondo – che l’umanità ha cominciato a raggiungere benessere e ricchezza quando è uscita dalle caverne.
Effetto della crisi economica, della paura di perdere quel benessere costruito ieri proprio sulla pelle di quelli che arrivano oggi, una difesa contro l’ineluttabile legge del contrappasso con cui fare i conti. I muri di oggi, a differenza che nel passato, non sono difese militari, ma contro la povertà.
Nel quotidiano di operatore sociale vedo gli effetti devastanti di una crisi economica, che prende carne in uomini e donne (italiani e stranieri) che bussano alla porta dei nostri centri di accoglienza e della nostra mensa, ma ancor di più quelli di una crisi generalizzata che permea i livelli più profondi della cultura e dell’ethos sociale, poiché risale dalla viscere della storia il repertorio della demonizzazione e della caccia al diverso considerato nemico e invasore. Si rilega con l’odio la nuova edizione di un vocabolario del cinismo, dove gli interventi di accoglienza vengono squalificati tout-court a pura attività di business, l’etica viene derubricata a ‘patetica’, i soprassalti della legge morale sull’istinto di sopravvivenza vengono liquidati come ‘buonismo’, come se il conio di questi e altri neologismi possa spostare più in avanti la frontiera degli egoismi personali e nazionali. Il tutto in palese spregio dei valori fondanti della cultura ebraico-cristiana, delle categorie della riflessione filosofica sulla persona, e delle convenzioni internazionali sui diritti umani sorte dalle ceneri del XX secolo che hanno modellato quest’Europa andata in frantumi all’urto della prima e vera prova umanitaria (ad intra ed extra). Penso se non abbia avuto ragione Enzensbergher quando affermava: “quando più un paese costruisce barriere per difendere i propri valori, tanto meno valori avrà da difendere”.

L’immigrazione dei nostri giorni è l’unico fenomeno di massa dal dopoguerra, ci troviamo davanti a una svolta epocale. L’accoglienza è una risposta a questa sfida che bisogna affrontare poiché, se da una parte il grado di civiltà consiste nella capacità di intrecciare rapporti, se è vero – come è vero – che nella relazione e nell’incontro nasce il futuro, dall’altra parte implica comunque e necessariamente un dialogo costruttivo, intelligente, faticoso, esigente, che va al di là delle posizioni estreme come lo spontaneismo dell’apertura illimitata oppure la chiusura e il respingimento. Forse l’accoglienza è il tempo e lo spazio privilegiato per avvicinarsi alla storia e alle storie dove di fronte all’epifania dei volti e delle singole biografie cadono quegli stessi stereotipi che una volta offesero e umiliarono i nostri padri in terra straniera e che noi oggi rovesciamo su di ‘loro’ con la rivalsa di una vendetta storica o per la rimozione del nostro recente passato migratorio. Chissà se poi alla fine dei conti questa prossimità non si riveli una carta vincente anche per le politiche di sicurezza.

Ed è nella precisa prospettiva della promozione della persona che possiamo vedere e distinguere meglio da una parte la necessità di tutelare la dignità umana di chi è accolto e di chi accoglie, dall’altra le criticità del ‘sistema accoglienza’ che vanno superate in una corresponsabilità etica e sociale. Per quanto riguarda i richiedenti asilo sarebbe auspicabile avere delle micro-accoglienze per favorire le relazioni in un determinato contesto sociale (ma bisogna che si allarghi il numero delle comunità accoglienti), l’aumento delle commissioni e la riduzione dei tempi di valutazione, fare una legge per non consentire un’accoglienza passiva, ma impegnata al servizio della comunità accogliente, superare l’atteggiamento assistenziale e insistere sulla ridistribuzione equa sul continente e sulle politiche di sviluppo vero e non ipocrita nei paesi di provenienza.

Certo è difficile. Ma è il compito che ci spetta qui e ora, ed è una questione non solo di fenomeni epocali, ma di scelte davanti a questi ‘incontri ravvicinati del primo tipo’.

Sarebbe più semplice cacciarli via tutti, si farebbe prima a respingerli con l’urlo mostruoso: – Via! Via! Via! – fino ad avere la voce sempre più rauca e perdere le parole, il suono si disarticola progressivamente in insulti e poi scendere ancora per rientrare nella stalla della storia dove poter appoggiare la clava e riposare l’unico occhio stanco.

*Direttore dal 2012 dell’ Associazione Viale K – ONLUS e responsabile dello sportello ferrarese di “Avvocato di strada”.

La criminalità in città aumenta, ma gli esperti dicono che è solo “percezione”

In occasione della Festa della Legalità, l’incontro avvenuto all’Arengo la scorsa settimana getta le basi per una riflessione su ciò che viene detto e ciò che viene invece trascurato dell’argomento criminalità. Ecco un’ulteriore interpretazione legata al nodo, oggi più delicato che mai, dell’immigrazione.

Il crimine si può tradurre come un delitto grave, ovvero un reato, un illecito che provoca conseguenze particolarmente rilevanti e nocive alla vittima che lo subisce. Per capire di cosa parliamo occorre spiegarsi e chiarire bene le cose che diciamo, pertanto se parliamo di crimine, criminalità e affini dobbiamo sapere cosa significano e soprattutto come influenzano le nostre vite: è a questo che servono le parole. Anche se all’Arengo si è scelto di privilegiare i numeri.

Quando vado all’incontro pubblico tra gli addetti ai lavori e la cittadinanza sul tema della sicurezza nel nostro territorio, mi trovo in mezzo ad una platea di giornalisti in attesa dei relatori che arriveranno di lì a poco.
Così, mentre la deliziosa saletta dell’Arengo si riempie di gente, mi sistemo in prima fila ad armeggiare col registratore e a controllare il mio taccuino. Sono insolitamente puntuale, tanto che ho scelto il posto migliore che potevo, subito dopo un collega seduto al mio fianco apre il suo portatile e un giovane tecnico del comune accende il proiettore delle slide puntandolo sullo schermo alla mia sinistra. Poi finalmente arrivano.
Sono quattro: c’è l’addetto stampa del comune, Alessandro Zangara, che precede il responsabile regionale alla sicurezza Nobili, li seguono il vice questore Crucianelli e l’assessore ai lavori pubblici Modonesi. Quindi, a parte l’ospite, ci sono un funzionario della regione, un funzionario di polizia e un politico. Quale parterre più adatto per parlare di crimine e criminalità? Magari un commissario (e quello più o meno c’era), un sociologo, un antropologo, uno psicologo, un criminologo, un giudice… chissà.

Dopo le presentazioni capisco subito che la serata si tradurrà molto probabilmente in una lunga elencazione di numeri e statistiche, di tabelle e percentuali, il tutto puntualmente condito di considerazioni su ciò che è stato in passato e su ciò che è nel presente. E per il futuro? Non si sa, non ci sono i dati…
Vabbè, ma almeno qualche previsione potevano azzardarla però!
Comunque, plaudo all’onestà intellettuale dei tecnici che, non avendo sfere di cristallo, generalmente evitano per mestiere di parlare di cose che non siano comprovate da dati certi. Evviva le certezze dunque!
Ma di quali certezze stiamo parlando? Ebbene ve lo dico subito: la più eclatante è che l’Italia è il paese più mite e sicuro del mondo!
Proprio così. L’ha fatto intendere Nobili, l’ha confermato con tanto di tabelle luminose e illuminanti Crucianelli, l’ha ribadito alla fine Modonesi, aggiungendo che il vero problema sta nella “percezione”.
Ma “percezione” è comunque una parola e delle parole tratterei alla fine, concentriamoci pertanto sui numeri (che in ogni caso non trascriverò).

Da qualche anno, in Europa, così come in Canada e Stati Uniti, i crimini più violenti contro la persona, ovvero gli omicidi, sono in calo. L’Italia segue il trend di tutti gli altri paesi occidentali, col pregio di essere tra i paesi a più basso indice di violenza d’Europa. Se a questo aggiungiamo che l’Europa è il continente col più basso indice di violenza di tutti e cinque i continenti, l’equazione dei nostri esperti “Italia uguale isola felice” non fa una grinza.
La questione si fa più delicata e complessa quando spostiamo lo sguardo su altri tipi di crimini, come gli stupri e le lesioni gravi, ma soprattutto sui crimini contro la proprietà, come i furti e le rapine.
In questo caso, purtroppo, il panorama appare invece preoccupante: i numeri infatti ci dimostrano che sono in costante aumento i furti commessi nelle proprietà private (appartamenti, ville, luoghi di lavoro), ed è soprattutto il fenomeno delle rapine effettuate all’interno delle abitazioni che desta più sconcerto. Si tratta ormai di una pratica criminosa sempre più frequente che prende di mira le case isolate di campagna, magari abitate da persone anziane che hanno scarse possibilità di reagire e difendersi. Lo sconcerto aumenta quando al furto si aggiunge il pestaggio delle vittime inermi, spesso gratuito, immotivato e inferto con inaudita violenza, che qualche volta ha provocato la morte dei rapinati.
Questa generale tendenza al rialzo dei reati di tipo predatorio (termine usato dagli esperti), ossia contro la proprietà, inizia e prosegue costante da vent’anni ad oggi e, dai dati evidenziati, la prospettiva di un’inversione di tendenza non lascia molto margine all’ottimismo. Quindi, a metà serata, la domanda che mi pongo è se l’Italia sia davvero un’isola felice, o forse si profili l’ipotesi di qualcosa simile alla rassegnazione ad accettare un progressivo peggioramento delle proprie sicurezze con l’idea (ribadita con insistenza dalle istituzioni presenti) che altrove sia stia decisamente peggio.

E Ferrara? La nostra città e il nostro territorio rispecchiano sostanzialmente l’andamento nazionale con una “piccola” differenza in controtendenza, ovvero l’aumento degli omicidi: nella nostra provincia, nel 2015 ci sono state quattro uccisioni! Il dato è comunque del tutto eccezionale poiché, si affretta a dire Crucianelli, la casistica di omicidi nel nostro territorio resta talmente bassa (in media zero o un omicidio all’anno) che quest’ultimo dato non può rappresentare un valore di tendenza utile a fini statistici. In pratica, nel nostro futuro, la possibilità di essere più o meno ammazzati lo scopriremo solo vivendo.
In aggiunta a queste considerazioni e grazie alle domande di alcuni giornalisti meno annoiati di altri, è poi emerso che, restando sempre in ambito ferrarese, è avvenuto un progressivo spostamento degli equilibri nelle attività di smercio e spaccio della droga, mercato che da qualche tempo è passato nelle mani della comunità nigeriana, relegando al secondo posto gli spacciatori magrebini che ne detenevano il controllo da anni. Resiste qualche outsider italiano che spaccia facendo concorrenza a proprio rischio e pericolo agli africani. Risulta, tra l’altro, che gli stessi nigeriani gestiscano il racket della prostituzione delle ragazze di colore, all’interno di un apparato organizzativo che allunga le sue maglie ben oltre i confini del nostro territorio.
A questo punto, all’esplicita richiesta di qualcuno di poter avere qualche informazione più precisa sulla provenienza della droga che viene smerciata nelle nostre strade, Crucianelli si trincera in un ben collaudato “Non posso rispondere perché sono informazioni riservate e le indagini sono tuttora in corso”, che personalmente ho inteso in questo modo: “Accontentatevi di quel poco che vi ho detto perché lì in mezzo ci sono nostri infiltrati che rischiano la pelle”.
Con tutto ciò, resta da dedurre che il mercato della droga è e rimane un affare tra extracomunitari, e questo già si sapeva.

Ma c’è dell’altro. Sempre negli ultimi anni, per quanto riguarda le lesioni personali, gli stupri e altri reati come scippi e borseggi, i dati oscillano tra alti e bassi in un sostanziale equilibrio verso l’alto, cioè in una generale tendenza ad aumentare. Anche se i fattori che portano a questo risultato sono diversi e necessitano di approfondimento. In altre parole, se il tendenziale aumento delle aggressioni e delle violenze personali viene motivato da un aumento della litigiosità tra le persone (a questo punto sarebbe stato opportuno capirne pure le cause, magari coinvolgendo sociologi e antropologi, o no?), l’aumento degli stupri e delle molestie sessuali ai danni delle donne viene spiegato con una maggiore sensibilità al problema che è all’origine di un aumento delle denunce, come dire: siccome sappiamo che spesso in passato tali stupri non venivano denunciati, non possiamo affermare con certezza che rispetto a prima ci sia stato un oggettivo aumento dei reati oppure solo un aumento delle denunce.
Viene poi fatta un’ulteriore considerazione che delinea un generico identikit di chi commette questi crimini: sono giovani maschi di età compresa tra i quindici e i trent’anni circa!
Ebbene sì, avete letto bene, sono giovani maschi… Io mi sarei aspettato che dicessero che erano vecchiette psicopatiche o casalinghe frustrate, o mariti cinquantenni in piena crisi di mezza età. In pratica una rivelazione sorprendente!
Nonostante il generale clima di ottimismo e buona volontà che si respira all’Arengo, posso dire, a mio modesto e insignificante parere, che le prospettive per il futuro appaiono desolanti.

Certo è vero, rispetto agli altri paesi occidentali, il nostro rimane tuttora in una condizione privilegiata a basso indice di criminalità violenta, è un fatto indiscutibile. Guardando però meglio quali sono gli altri paesi con cui ci confrontiamo, alcune cose mi appaiono più chiare: se lasciamo da parte il caso di Stati Uniti e Canada che hanno contesti storici e sociali assai differenti dal nostro (e che comunque stanno registrando negli ultimi anni, a differenza di noi, un repentino calo del tasso di criminalità), vediamo che in Europa al primo posto tra i paesi più violenti c’è il Regno Unito (che peraltro, come oltre oceano, sta avendo anch’esso un notevole calo di criminalità), seguito da Francia e Germania. Paesi dunque con una componente multirazziale assai più radicata e diffusa della nostra, ma anche con un’economia più stabile e florida di quella italiana.
All’incontro si è pure accennato ad una maggiore devianza giovanile di questi paesi rispetto al nostro, fenomeno ad esempio testimoniato dall’incredibile divario del numero di giovani attualmente nei riformatori inglesi rispetto a quelli italiani (circa quarantamila in Inghilterra contro gli appena millecinquecento in Italia), certo occorre anche dire che l’ordinamento giudiziario britannico è assai diverso rispetto al nostro e simili differenze andrebbero analizzate in modo più serio e approfondito.

A questo punto mi assale una serie di dubbi e quesiti, il guaio è che ho la spiacevole consapevolezza che gli esperti interlocutori che ho di fronte non possano soddisfare le domande che mi faccio e vorrei far loro, semplicemente perché rispondere a tali domande non rientra nelle loro competenze. Per cui non mi resta che esporle adesso, sperando che qualche lettore più illuminato di me abbia le risposte.
Per quanto ancora resteremo un paese a basso indice di criminalità violenta se il nostro apparato statale persevera nella sua politica di accoglienza d’emergenza, senza cioè un serio ed accurato programma d’inserimento sociale e lavorativo duraturo dell’immigrato? Voglio dire: è logico accogliere fiumi di disperati, ospitarli in strutture provvisorie (spesso creando contrasti con le popolazioni che entrano forzatamente in contatto coi rifugiati), accudirli, affidarli a organizzazioni di assistenza sociale per un periodo di tempo limitato, e, scaduto il tempo, abbandonarli a se stessi, senza lavoro né soldi, in una società che li vede come degli intrusi? Accogliere persone e sistemarle come pacchi qua e là senza un programma di inserimento sociale serio e complesso a lungo termine non genera il rischio di aumentare malcontento e frustrazione sia tra coloro che arrivano che tra coloro che già abitano nel territorio? Non è forse questo modo di concepire l’accoglienza che ha causato il proliferare di enclave etniche chiuse, terreni fertili per la criminalità, come l’esempio della comunità nigeriana di Ferrara starebbe a dimostrare? Non è forse vero, ad esempio, che gran parte dei furti e delle rapine nelle ville sono commessi da persone originarie dell’est europeo?

Credo che abbiamo di fronte un problema serio: ovvero la tendenza da parte delle istituzioni a mettere in conto un progressivo innalzamento del livello di criminalità come un fatto inevitabile e fisiologico. Fatto generato da un contingente mutamento sociale in direzione di quel melting pot previsto e preventivato da certa parte politica. Se a questo aggiungiamo la difficoltà del paese ad uscire da una crisi economica che si trascina da anni e, contrariamente ai proclami di ripresa occupazionale che puntualmente vengono annunciati dal governo per essere poi subito smentiti dalla realtà, continua a rilasciare per strada migliaia di disoccupati, si comprende quanto questa compressione sociale stia evolvendo in un potenziale e pericoloso teatro di nuovi conflitti tra poveri.
E ribadisco il concetto di “guerra tra poveri” che di implicazioni razziali ha poco o nulla, poiché, a proposito di percezioni più o meno motivate dai fatti, è un fatto che molti pregiudizi si siano concentrati in comunità come quelle slave e rumene che, almeno da un punto di vista “razziale”, sono assolutamente identiche agli italiani. In effetti un italiano non è più razzista di un rumeno, di un albanese, di un serbo, o di un nigeriano, di un pakistano, di un cinese, eccetera. E nigeriani, tunisini, filippini e tutti gli altri non sono più violenti di noi italiani.
Da sempre, la tendenza è di guardare agli individui e alle comunità giudicando le loro azioni e i loro comportamenti per etichettarli e trasformarli in strumenti di propaganda ideologica in un senso o nell’altro. E da sempre l’errore è quello di trascurare le cause profonde all’origine di tali comportamenti che sono uguali per tutti, a prescindere dal colore della pelle e dalla provenienza.
Se creiamo le basi per generare malessere sociale, ovvero un abbassamento generalizzato della qualità della vita (l’aumento della disoccupazione e della soglia di povertà, la concentrazione nel territorio di altri gruppi etnici percepiti come possibili minacce, un sempre più diffuso sentore comune di ingiustizia sociale seguito da una conseguente mancanza di fiducia nel futuro), corriamo il grave rischio di trasformare la nostra società in una polveriera di conflitti e violenze dalle conseguenze inimmaginabili.

Concludo tornando all’argomento criminalità: secondo gli esperti della serata quindi, il nodo non sarebbe tanto nel pericolo concreto corso dal cittadino, ma nella “percezione” che quest’ultimo ha del pericolo. In altre parole trattasi più di pericolo paventato che reale! Vuoi vedere che siamo tutti diventati dei timorosi visionari, palesemente insicuri e pure un po’ vigliacchi? Può darsi, ciò non toglie che quando si “percepisce” qualcosa, spesso e volentieri ci si azzecca.

Emergenza immigrazione: un cul de sac tra demagogia e realtà

Ma dove ci siamo infilati? C’è sgomento, rabbia, sfiducia, sospetto; una fila di interrogativi che cercano disperatamente una risposta plausibile che non c’è. Siamo arrivati al parossismo, che non è una bella posizione. Manca chiarezza, manca un faro, una bussola, un timone che convinca che quello che stiamo facendo è giusto, condivisibile, intelligente e onesto. Non è più sufficiente quel ‘politically correct’ che metteva tutte le coscienze a posto, dava quelle garanzie pseudo-morali che occorrevano, fino poco tempo fa, a sentirsi bene, brava gente, buoni esponenti di un’umanità più fortunata, cittadini retti e esseri umani solidalmente presenti. No, non basta più. La solidarietà vera nasce spontanea perché deve essere sentita nel profondo e può nascere solo se una collettività ci crede, si regolamenta, prevede conseguenze, anticipa bisogni, provvedimenti, necessità e risorse reali. E soprattutto se i responsabili di una collettività hanno la necessaria ed equilibrata visione del problema e dell’impatto su sensibilità, sentimenti e sentori diversi che ne complicano o ne rallentano la risoluzione. Non è facile né scontato dire di sì a un’accoglienza totale incondizionata di un’ondata di immigrazione di cui non si sa nulla, come non è semplice negare accoglienza e ospitalità a esseri umani che arrivano nel nostro Paese in condizioni di ‘ecce homo’. Si sta chiedendo una consapevolezza, una fiducia, una predisposizione che a volte stride con i problemi che stiamo vivendo al nostro interno e rischiano di farci implodere. Non è così che ci si appresta a ricevere gente che lascia i propri Paesi devastati dalla guerra, privi di prospettiva e pianificazione sensata, rovinati da dittature deposte da giochi internazionali e lasciati al caso, ombre di società allo sbando. E rimangono sospetti e oscurità su chi ha ‘diritto’ ad un’ospitalità dovuta e chi, invece, rappresenta un ‘pericolo’ clandestino. Legittimo, se si pensa che siamo in stato di allerta, ma non totalmente giustificabile moralmente. Si stanno creando dinamiche di convivenza che si prestano a qualunque interpretazione e i mass media sguazzano implacabili in questo mare mosso cavalcando onde e sfruttando venti per vendere ciò che più è spendibile. Demagogia e populismo mediatico da incantatori di serpenti fomentano un malumore ormai al limite e tengono in mano una grande rappresentanza dell’opinione pubblica diffidente, scettica, impaurita, arrabbiata, spesso rancorosa che manca ormai di una visione dei problemi che lasci spiragli a sana reattività e positività. Occorre informazione onesta per creare opinione onesta, serve un dibattito che sia realmente costruttivo e non il ring al quale siamo ormai abituati per quel quotidiano assistere allo screditamento ingiurioso reciproco per appartenenza a correnti di pensiero ed opinione differenti. Una mediazione difficile, utopica per molti, ma percorribile nei termini di rispetto dell’essere umano in condizioni di disperato bisogno. Un principio che superi le bieche strumentalizzazioni molto facili da assecondare e che garantisca allo stesso tempo il cittadino che chiede solo di essere tutelato e ascoltato. Responsabilità nazionali e transnazionali, coordinamento e corrette relazioni tra governi, proporzionalità nella condivisione dell’emergenza, riconoscimento e autentico sostegno a coloro, come l’Italia, che affrontano in prima linea questa guerra tra poveri senza soluzione di continuità, ecco le grandi sfide che ci attendono nell’immediato futuro e che chiedono urgentemente risposte concrete e non vaghe giustificazioni.

Emergenza immigrazione: e se non fosse proprio così?

Le uniche due certezze che emergono dai dibattiti politici e mediatici sul tema migrazione e politiche d’accoglienza sono che siamo di fronte a una ‘emergenza migranti’ e a una ‘invasione di immigrati’. E’ davvero così?
E se vi dicessimo che nel 2007 gli immigrati giunti in Italia sono stati 512.000, mentre nel 2015 sono scesi a 250.000? E se aggiungessimo che su 500 milioni di europei, solo il 6,9% è costituito da immigrati, con una quota di stranieri che varia dal 45,9% del Lussemburgo allo 0,3% della Polonia, mentre l’Italia con l’8,2% è allineata agli altri grandi paesi – Germania (9,3%), Regno Unito (8,4%) e Francia (6,6%)?
Sono i dati del rapporto “Governance delle politiche migratorie, tra lavoro e inclusione sociale” redatto dai Radicali Italiani su dati Eurostat, presentato a inizio ottobre a Roma al Senato della Repubblica.

Particolarmente interessante è il dato sul numero degli ingressi annuali degli immigrati (gli stranieri iscritti all’anagrafe per trasferimento di residenza dall’estero). L’Italia, si legge nel documento, “si colloca al terzo posto” dietro Germania e Regno Unito, ma “registra una netta flessione: da circa 512 mila ingressi del 2007 a 248 mila del 2014 (-267 mila, pari a -51,8%)”.
Sempre secondo i dati presentati dai Radicali italiani, gli arrivi complessivi di migranti per mare nel nostro paese sono stati 170 mila nel 2014, 154 mila nel 2015 e 48 mila nei primi cinque mesi del 2016, in linea con gli sbarchi degli stessi primi cinque mesi del 2015. Complessivamente dunque non presenta alcun carattere di eccezionalità, di emergenza o di invasione, diversamente da quanto sostenuto da alcuni.

Le cose cambiano se si parla delle richieste d’asilo. Nel 2015 i rifugiati riconosciuti e le persone alle quali è stata concessa una forma di protezione internazionale, secondo l’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) citata dal rapporto, sono complessivamente 16,1 milioni: solo 1,3 milioni sono ospitati nei 28 paesi dell’Unione europea, l’8,3% del totale. Di questi l’Italia ne accoglie 118 mila, pari allo 0,7%.
I paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia (2,5 milioni), il Pakistan (1,6 milioni), il Libano (1,1 milioni) e la Giordania (664 mila), non esattamente i più ricchi quindi. Per quanto riguarda la provenienza, invece, il paese con il maggior numero di rifugiati è la Siria (4,9 milioni), seguita da Afghanistan (2,7 milioni), Somalia (1,1 milioni), Sudan del Sud (779 mila) e Sudan (629 mila). Da sottolineare anche che se la crescita del loro numero nel mondo negli ultimi cinque anni è stata molto intensa (+52,8%), nel totale dei paesi dell’Unione si registra una lieve flessione (-4%). L’Italia con il suo +109,3% a quanto pare rappresenta quindi un’eccezione, ma certo non ci si può lamentare in confronto alla Grecia: +1,994,1%.
Il rapporto dei Radicali prende in considerazione le richieste d’asilo ai vari paesi dell’Unione Europea da maggio 2014 a maggio 2016: il loro numero è in continuo aumento, “con un picco nel mese di ottobre del 2015 (172 mila unità)”. Con però una parziale sorpresa: “nei primi cinque mesi del 2016 subisce una netta flessione, probabilmente – scrivono gli estensori del rapporto – a causa della chiusura delle frontiere sulla rotta balcanica e degli accordi con la Turchia, con un numero delle domanda di asilo del mese di maggio molto contenuto (66 mila)”.
Nel 2015 sono state presentate nei paesi dell’Unione europea circa “1,3 milioni di domande di asilo, con un aumento del 236,8% rispetto al 2013”. La percentuale italiana è del 6,6%, pari a 83 mila domande, con un aumento certamente rilevante: il “223,7%”. Un fenomeno che si spiegherebbe con “il numero tradizionalmente basso delle richieste d’asilo nel nostro Paese, determinato probabilmente dalla volontà prevalente dei migranti sbarcati in Italia di trasferirsi in un altro paese dove presentare la domanda”. Dal 2013, invece, complice la più rigida applicazione del trattato di Dublino prima e poi i rigidi controlli alle frontiere con Francia e Austria, molti “hanno preferito fare domanda d’asilo in Italia e avere così un titolo per potervi rimanere legalmente fino alla conclusione dell’iter”. Il problema sta proprio qui: a differenza di quanto dichiarato da alcuni zelanti politici e opinion maker nostrani, che affermano che ‘facciamo entrare tutti’, “sta crescendo in modo preoccupante il numero di coloro a cui è stata rifiutata la richiesta d’asilo”. Secondo le cifre riportate dai Radicali, tre quarti degli immigrati a cui è stata respinta la domanda d’asilo provengono da nove paesi: Nigeria, Pakistan, Mali, Gambia, Bangladesh, Ghana, Senegal, Tunisia e Costa d’Avorio, ma anche da paesi in guerra come la Nigeria, l’Afghanistan e l’Eritrea.
Oltre la metà delle domande d’asilo presentate in Italia nel 2015 è stata respinta: il 58,6%. Solo il 41,5% è stato accolto. Il tasso di non accoglimento del nostro Paese, si legge nel documento, “è superiore di 10 punti percentuali rispetto a quello della media europea (48,1%)”. Inoltre, sottolineano gli estensori, quello dell’anno scorso non è un dato isolato, ma l’ultimo segnale di un trend pluriennale. L’aumento tra 2008 e 2015 dei dinieghi da parte dell’Italia di più della metà delle domande d’asilo, in cifre circa 119 mila migranti secondo il rapporto, si traduce “nella probabile presenza nel nostro paese di decine di migliaia di persone che, una volta non ammesse alla protezione, non hanno più titolo per rimanere sul territorio legalmente né possono regolarizzare la propria posizione anche se in possesso di una proposta o di un contratto di lavoro”. Dunque il nodo centrale non sarebbe in quanti arrivano e da dove arrivano, ma cosa ne è di loro una volta che sono qui perché con la chiusura delle frontiere rimangono qui anche se vorrebbero andare altrove e nello stesso tempo, se la loro domanda d’asilo viene rifiutata, non hanno possibilità di rimanere in modo legale sul nostro territorio.

Popolazione straniera al 1 gennaio per paese dell’Unione europea (incidenza percentuale sul totale), Anno 2015, Fonte: Rapporto Radicali Italiani su dati Eurostat
Popolazione al 1 gennaio per cittadinanza in alcuni paesi dell’Unione europea (valori assoluti e percentuali), Anno 2015, Fonte: Rapporto Radicali Italiani su dati Eurostat
Ingressi annuali degli immigrati in alcuni paesi dell’Unione europea (valori assoluti in migliaia), Anni 2005-2014, Fonte: Rapporto Radicali Italiani su dati Eurostat
Ingressi annuali degli immigrati in alcuni paesi dell’Unione europea (valori assoluti e percentuali), Anni 2005-2014, Fonte: Rapporto Radicali Italiani su dati Eurostat

È dagli anni Novanta che i transiti in Europa e le stabilizzazioni dei cittadini non europei sul territorio sono sempre state vissute come un’emergenza e come una questione che attiene solamente alla sicurezza, allora erano albanesi e kosovari, oggi sono siriani, afghani, nigeriani, somali. Ma se ci confrontiamo con gli sbarchi sulle nostre coste da ormai vent’anni, si può parlare di emergenza? Con un 6,6% di tutte le richieste d’asilo dell’Unione Europea e con un tasso di non accoglimento di dieci punti superiore alla media del continente, possiamo parlare di invasione?
È necessario superare le narrazioni retoriche sul tema migranti e politiche di accoglienza, sia quelle buoniste sia quelle razziste. È necessario uscire dall’ottica emergenziale, che in questo come in altri campi non fa che alimentare distorsioni e corruzione, e considerare politiche strutturali di lungo periodo, che coinvolgano ogni livello istituzionale, dal governo del territorio all’Unione, bisogna smettere di cercare forme di gestione tecnocratiche e costruire ragionamenti politici, di trasformazione sociale. Come ha scritto lo scorso febbraio su Internazionale Kenan Malik del Guardian: “La storia degli ultimi 25 anni ci dice che a prescindere da quanto si rafforzi la fortezza Europa, recinti e navi da guerra non fermeranno i migranti. Né controlli più rigidi modificheranno la percezione del problema tra l’opinione pubblica. Trasformare ancora di più l’Europa in una fortezza non contribuirà ad attenuare il senso di frustrazione così diffuso. Gli “idealisti”, d’altro canto, cercano di promuovere politiche sull’immigrazione più etiche, ma sembrano disposti a fare a meno della volontà democratica per applicarle. Questo approccio non è più attuabile o più etico di quello realistico. Nessuna politica a cui l’opinione pubblica è ostile potrà mai funzionare”.

Leggi il rapporto “Governance delle politiche migratorie, tra lavoro e inclusione sociale” dei Radicali Italiani

Decadenza di una nazione

L’Italia, un paese che spreca le proprie risorse intellettuali e professionali costringendole a trasferirsi all’estero, mentre accoglie indiscriminatamente manovalanza priva di specializzazioni e senza un progetto occupazionale. E’ il sintomo di una crisi irreversibile?

Non è possibile ridurre la complessità del fenomeno migratorio ad una ideologica apertura o ad un altrettanto ideologica chiusura senza considerare la sua straordinaria complessità. Per iniziare a capirci qualcosa è indispensabile “smontare” questa complessità ed analizzarne le variabili costitutive senza mai perdere di vita l’insieme. Diamo dunque un’occhiata rapida a qualche numero, selezionando tra le fonti più attendibili: secondo l’ISTAT la popolazione complessiva residente in Italia al primo gennaio 2016 è pari a 60.665.551 (51,44% femmine) di cui 5.026.153 stranieri (8,29%). Indicativamente è straniero 1 soggetto su 12. Sono circa 200 le nazionalità presenti nel nostro Paese; per oltre il 50% (oltre 2,6 milioni di individui) si tratta di cittadini di un Paese europeo in particolare rumeni (22,9%) ed albanesi (9,3%).
Per completezza va tuttavia segnalato che negli ultimi cinque anni è più che triplicato il numero di cittadini non comunitari diventati italiani (che hanno cioè acquisito la cittadinanza e il passaporto italiano) e sono dunque usciti dal computo del numero totale degli stranieri residenti: sono passati da meno di 50.000 nel 2011 a quasi 130.000 del 2014 per superare i 160.000 nel 2015. Negli ultimi 5 anni si può stimare con una certa prudenza in almeno 600.000 il numero di questi nuovi italiani.

Oltre a questi dati ragionevolmente assodati la situazione appare ampiamente fuori controllo: se si limita l’attenzione al fenomeno più eclatante, quello degli sbarchi (che non sono tuttavia l’unica modalità di accesso in Italia), i dati pubblicati dal Ministero dell’Interno e reperibili in rete, indicano un numero pari 69.692 nel 2011, 13.267 nel 2012, 42.925 nel 2013, 170.100 nel 2014, 153.842 nel 2015; sempre secondo il Viminale gli sbarchi a fine settembre 2016 hanno già superato quota 153.000; si tratta complessivamente di oltre 600.000 esseri umani che sono approdati sulle coste italiane. Quanti di questi fuggano da guerre e carestia, seguano rotte che li portino verso nord o siano attratti da improbabili opportunità di lavoro in Italia è tema di accanite polemiche. Quanti tra i migranti sbarcati abbiano diritto di asilo e vengano definiti ufficialmente come rifugiati, dopo un periodo che può arrivare a due anni di attesa, è altrettanto dubbio. Secondo la onlus CIR – consiglio italiano per i rifugiati – nel 2015 solo il 5% delle domande è stata accolta positivamente, mentre il 58% si è risolta con un diniego e le rimanenti hanno portato ad un esito di protezione umanitaria e sussidiaria.

Questi dati vanno inquadrati e letti nel più vasto contesto mondiale che vede una crescita demografica inesorabile: 1,64 miliardi nel 1900, 1,88 nel 1925, 2,51 miliardi nel 1950, 3,86 nel 1975, 5,99 miliardi nel 2000, 7,44 oggi ed una stima di almeno 8,5 miliardi di persone nel 2030. Questi dati in se inquietanti sono resi drammaticamente più acuti dalle clamorose differenze nel tasso di natalità delle popolazioni, degli stati, delle etnie e dei gruppi religiosi; queste dinamiche da sole, sono in grado di portare alla rottura in tempi molto rapidi di equilibri sociali che potrebbero apparire a prima vista sicuri. Diventano esplosive quando si intersecano con altre variabili di tipo ambientale, sociale, economico e finanziario. C’è chi vede in tutto questo il fallimento totale sia del modello capitalistico finanziario che delle politiche umanitarie e di natalità, della cooperazione internazionale e dei cosiddetti aiuti ai paesi in via di sviluppo.

L’italia però non è solo un paese di accoglienza e di transito dei migranti provenienti dai paesi ad alta tensione demografica, più poveri o meno sicuri. Accanto a questo flusso crescente vi è un massiccio flusso che si rivolge in direzione contraria: quello degli italiani che emigrano verso paesi che sembrano offrire più opportunità. Dal confronto tra questi due flussi emerge un quadro davvero inquietante.

Nel periodo 2006 – 2015 gli italiani residenti all’estero sono passati da 3,1 milioni a 4,7 milioni con un incremento di quasi il 50%.
Dall’Italia emigrano spesso persone, soprattutto giovani (20-45 anni), che non riescono a trovare nel Belpaese né soddisfazione né lavoro. Secondo i dati dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire), nel 2013 sono uscite 94.126 persone, mentre nel 2014 sono stati 101.297 i connazionali emigrati. Nel 2015 secondo il rapporto Migrantes il numero di italiani espatriati ha superato le 107.000 unità, un dato che quasi raddoppia se si osservano i dati direttamente dai paesi di destinazione: solo nel 2014 ad esempio sono emigrati in Germania 70.000 persone. Oltre il 60% degli italiani migranti è costituito da laureati e diplomati, medici, ricercatori, ingegneri, tecnici. Miliardi di euro spesi per la formazione di persone che portano all’estero le loro capacità e competenze per arricchire altri paesi come Regno Unito, Svizzera e Stati Uniti. Aumenta anche il numero di immigrati di seconda generazione che lasciano l’Italia non più in grado di offrire lavoro.

Il confronto con il flusso in entrata è impietoso: quest’ultimo è composto per la stragrande maggioranza da persone di cultura e lingua diversa, con bassa specializzazione e scarsa competenza, che possono coprire solo posizioni non di interesse per gli italiani, su piccola scala e in settori non strategici come il piccolo commercio, l’edilizia e i servizi più elementari.

L’Italia non è dunque solo un paese con gravissimi problemi di immigrazione ma anche un paese dove l’emigrazione è diventata un grave problema; un paese dal quale escono o propriamente fuggono cervelli e competenze che il sistema Italia è ancora in grado di costruire ma non è in grado di valorizzare; un paese nel quale entrano mediamente, persone di dubbia identità, di scarse competenze, di ignote capacità, in cerca di qualsiasi tipo di lavoro o dei benefici di quel che è rimasto dello stato sociale.

Per alcuni osservatori è questa la fotografia di una nazione e di uno stato ormai allo sfascio, incapace di regolare i flussi in entrata, incapace di dare speranza ai propri cittadini, incapace di trattenere i propri talenti, incapace di formare ed indirizzare i migranti verso occupazioni di cui ci sarebbe grande bisogno (ad esempio la produzione alimentare di qualità legata al territorio) e perfino di impiegare i migranti in lavori socialmente utili; un posto dove troppe persone non riescono più a vivere con l’orgoglio di sentirsi italiani o con la speranza di diventare nuovi italiani. E’ la testimonianza di un duplice e drammatico fallimento dell’intera classe dirigente italiana.
Ma non solo: ai loro occhi esiste il dubbio drammatico che si stia attuando una strategia assolutamente suicida e fallimentare che nello scacchiere internazionale porta a collocare l’Italia tra i paesi a bassa specializzazione, dal quale i talenti fuggono per andare a rafforzare con le loro competenze paesi, come la Germania, che hanno deciso di fronteggiare il loro calo demografico attirando talenti e manodopera specializzata ed investendo sulla loro qualificazione.

Per altri osservatori questa fotografia rappresenta il chiaro trionfo dell’ideale neoliberista dove ognuno, fatto imprenditore di se stesso, gira per il mondo alla ricerca della propria opportunità all’interno di un mercato sostanzialmente infinito e privo di barriere. Ecco gli eroi nomadi della classe creativa globale descritti dal sociologo Richard Florida, ed ecco i miserabili dell’esercito industriale di riserva attratti dalla chimera del lavoro e del consumo. C’è chi lo fa a suo rischio e pericolo sui barconi che attraversano il Mediterraneo e chi lo fa, assai già comodamente in business class.

IL PERSONAGGIO
Pio D’Emilia, l’inviato Sky che racconta con umanità l’odissea dei migranti

E’ diventato per tutti un volto noto e familiare. Pio D’Emilia ha scardinato la maniera tradizionale, un po’ impettita e distaccata, di fare informazione televisiva. Inviato da Sky alla frontiera fra la miseria e la speranza per raccontare l’esodo dei migranti, è riuscito a trasformare la loro vicenda da un fatto a una storia. Nei suoi servizi traspaiono le emozioni. Il suo modo di narrare questa epopea è fuori dagli schemi e richiama la sensibilità di grandi reporter quali Ryszard Kapuscinski o Tiziano Terzani.

Si ritrova nella loro concezione di giornalismo?
Assolutamente sì – replica convinto D’Emilia, che ha accettato di raccontarsi a Ferraraitalia -. Non ho conosciuto il primo, mentre ho avuto il piacere – e talvolta lo ‘spiacere’ – di incrociarmi spesso con Tiziano. Ma ce ne sono tanti altri, che ammiro e rispetto, sia italiani che stranieri. Purtroppo sempre di meno: scarsa preparazione umana e professionale, pigrizia fisica e mentale, censura e soprattutto autocensura stanno uccidendo un certo tipo di giornalismo…

Di Kapuscinski condivide l’idea che il giornalista non possa essere neutrale ma debba schierarsi e dare voce a chi voce non ha?
L’obiettività nel senso di neutralità non esiste, né nelle parole, né tantomeno nelle emozioni. Pensiamo solo all’Afghanistan, a quando gli attuali terroristi e ‘tagliagole’ erano chiamati, dalle grandi agenzie, “combattenti per la libertà”, eccetera eccetera. Certo, bisogna sempre cercare di essere il più possibile precisi nel fornire dati e descrivere situazioni, ma poi l’analisi e anche il giudizio – perché no – deve esserci e deve essere sincero. Poi da che parte stare dipende: io preferisco, da sempre, stare dalla parte del ‘torto’…

Prima di decidere se rendere pubblica un’informazione valuta sempre l’effetto che la notizia sortirà? E, nel caso, questo condiziona la sua scelta?
In genere no. Solo in alcuni casi di cronaca nera, in cui per esempio sono coinvolte famiglie, bambini… Ma per fortuna non mi capita spesso di dovermene occupare.

I suoi servizi su Sky evidenziano una grande preparazione e insieme una forte empatia nei confronti dei migranti di cui riporta vicende, storia personali, speranze, delusioni, drammi. Qualcuno in redazione o nell’ambiente professionale ha espresso critiche per questo sue essere partecipe?
Beh, la ‘preparazione’ dovrebbe essere uno dei doveri dei giornalista, tenuto a documentarsi prima di affrontare un argomento o vicenda e poi, se si occupa di un particolare settore (nel mio caso, l’Asia orientale) aggiornarsi continuamente. Io dei migranti sapevo poco o nulla, ma appena sono partito ho cercato di documentarmi attraverso letture e contatti personali. Nello stesso tempo cerco di restare aggiornato sulla ‘mia’ materia: in questi giorni ad esempio sono successe delle cose in Cina e Giappone di cui ovviamente non mi sono potuto occupare (anche se me l’avevano chiesto!) ma mi sono sempre tenuto aggiornato. Ma non è un peso, è una cosa che fai volentieri, di cui senti il bisogno, e di cui ahimè si sente sempre più la mancanza. Lo vedo in molti colleghi, che prendono questa professione come qualsiasi altra: dalle ore alle ore… E quando sono ‘fuori turno’ o in vacanza, staccano la spina. Io non riesco mai, a staccarla.
Quanto all’empatia e alle eventuali critiche: su Facebook e sul sito di Sky ricevo quotidianamente centinaia di commenti. Diciamo che per l’80% sono positivi, 10% negativi e 10% veri e propri insulti. Mi sta più che bene. Per quanto riguarda i pareri all’interno di Sky – una redazione dove si tende a dare una immagine di neutralità – debbo dire che la stragrande maggioranza dei colleghi mi sta esprimendo, almeno a parole, grande sostegno e solidarietà. Direttora compresa. La quale pare che un giorno, durante la riunione di redazione, mi abbia additato a esempio di “Inviato” e di come si possa prendere posizione. Ma per farlo, pare abbia detto, occorre avere una certa età e sopratutto credibilità. E Pio le ha entrambe… (ride di gusto)

Qualcosa che ha letto o sentito sui media, in relazione ai fatti di cui è testimone, l’ha particolarmente infastidita?
In questi giorni non ho davvero avuto tempo di leggere la ‘concorrenza’. Confesso di non aver molta stima per la stampa italiana, tranne rare eccezioni. C’è molto pressappochismo, superficialità, per non parlare di plagio e molta fantasia. Mi dispiace dirlo perché conosco molti colleghi in gamba che ci lavorano, ma Repubblica è il simbolo di questa dilagante cialtroneria

Quali risposte auspicherebbe dalla politica e dalle istituzioni?
La creazione immediata di una task force. Uomini e risorse da inviare sul luogo per creare un corridoio umanitario efficace e logisticamente sostenibile. L’Europa dovrebbe europeizzare la vicenda, toglierla dalle mani dei singoli Paesi e approvare immediatamente il famoso “asilo politico europeo”. Chi ci sta ci sta, gli altri fuori, a cominciare dai neo-unni ungheresi.

Riesce a tracciare un sommario affresco dell’umanità che si muove intorno a lei in queste settimane?
La cosa più importante è uscire dal concetto di “rifugiato”, “profugo” etc etc e puntare su quello di “migrante”. Non so se si è notato, ma io cerco sempre di usare questa parola. Migrare è un sacrosanto diritto umano: un diritto esercitato nei secoli da vari popoli, compreso il nostro. Il resto sono chiacchiere, strumentalizzazioni, banalizzazioni. Tra la gente che ho visto e frequentato in queste settimane c’è un unico elemento in comune: quello di voler/dover andarsene dalla propria terra/casa/paese e andarsene in un altro. Le motivazioni sono varie, ma l’obiettivo è comune. E va compreso e rispettato. Chi si esce con frasi come “ci possono essere potenziali terroristi” o è idiota o è in malafede. Spesso, entrambe le cose. Uno non abbandona la propria casa, la propria ‘terra’, le proprie radici senza un valido motivo. Chiediamolo ai nostri nonni.

Infine una nota personale: vivere in Giappone, ormai da molti anni, è una scelta di vita o professionale? E come mai proprio lei, dal Lontano Oriente, è stato chiamato a seguire questa epopea dei migranti nel cuore antico dell’Europa?
Personale inizialmente, poi anche professionale. Ci sono andato nel lontano 1979, appena laureato in legge, con una borsa di studio per un master di procedura penale internazionale. All’epoca ero avvocato, avevo conosciuto una donna giapponese (che poi scoprii essere una terrorista…) e volevo entrare in uno studio penale internazionale. Ma sul posto ho cambiato idea e professione. Ho cominciato a scrivere degli articoli per l’Espresso e… da cosa è nata cosa. Troppo lungo per raccontarlo qui, ma se vuoi e se ci sarà occasione di una mia visita lo farò volentieri (raccogliamo al volo l’opportunità e gli rivolgiamo l’invito a Ferrara per un incontro pubblico). Ho avuto la fortuna di vivere una vita molto interessante. E sopratutto di fare – più o meno ben pagato (in passato non sempre) – un lavoro che avrei fatto gratis. Lo dico sempre ai miei figli: vi auguro di poter fare altrettanto, ma la vedo molto difficile.
Quanto al perché abbiano mandato proprio me, beh è stato per caso. Anche se un po’ me la sono cercata. Io ero in vacanza a Misurina, dove ho il mio buon ritiro montano, e vedendo in tv gli improvvisi sviluppi della vicenda e non vedendo un nostro inviato, ho spedito un messaggio alla direzione dicendo che forse era il caso di mandare qualcuno. Erano tutti in vacanza, anche loro e chi era al ‘timone’, in quei giorni forse aveva sottovalutato la cosa. Il giorno dopo mi chiama il capo degli esteri, ringraziandomi per la segnalazione e dicendomi: “Perché non te ne occupi tu? Sei il nostro inviato delle catastrofi”, riferendosi al fatto che in passato mi sono occupato di guerre, tsunami, emergenze nucleari, tifoni vari e rivolte. A me le sfide piacciono e ho accettato, anche se francamente pensavo fosse una trasferta di qualche giorno. Ora è quasi un mese che sto in giro. E confesso di essere anche un po’ provato, fisicamente. Ma poi penso ai migranti, e mi vergogno di sentirmi stanco.

(intervista originale pubblicata su Ferraraitalia il 21 settembre 2015)

“Io fuggito da Boko Haram e poi venduto dalla polizia agli scafisti”
Ecco Lynus, 19 anni, uno degli ‘invasori’ che fa tremare l’Europa

“Gli agenti della polizia libica facevano affari con gli scafisti. Una notte mi hanno detto: Svegliati, vai in Italia. Io avevo paura di salire sulla barca perché non sapevo nuotare. Poi mio fratello mi ha preso per mano’. Qui il racconto di Lynus Efosa, nigeriano di 19 anni, in Italia da due, si interrompe per l’emozione, il dolore ancora vivo del ricordo. Un’altra pausa quando parla di sua madre, Gladys, e di sua sorella, Fatima. Gli occhi si fanno lucidi. Sempre fieri però. Coraggiosi. A una settimana dai fatti di Gorino abbiamo scelto di vedere quella che è stata definita “invasione” dal punto di vista opposto. Con Lynus abbiamo ripercorso le tappe di un viaggio disperato, da quando iniziò a entrare nella milizia a nove anni fino al suo affidamento a Camelot, che si è occupata di lui insieme all’istituto don Calabria di Ferrara.

Lynus, è molto giovane, quanti anni aveva quando è arrivato in Italia?
Ero minorenne, circa 17 anni, è stato nel luglio del 2014.

Le piaceva stare in Nigeria?
No, non mi piaceva molto. Certo la Nigeria è una terra ricca, ma la ricchezza è nelle mani di pochi che con quel tesoro possono fare tutto, permettersi ogni tipo di sopruso sugli altri, cioè la maggioranza povera. Chi ha i soldi in Nigeria, compra la politica, le istituzioni, persino la polizia.

Anche la polizia?
Se vai in Nigeria con i soldi ti trattano come un re. Sei bianco, sei ricco, la polizia ti fa da guardia del corpo costantemente. Ma se non puoi pagare, anche se uccido una persona a te cara non puoi fare niente, specialmente se chi l’ha uccisa ha amici ricchi. I soldi significano sicurezza.

Tutto è iniziato quando sua madre è stata uccisa, giusto?
Sì.

Capisco che è difficile parlarne, ma può essere importante per inquadrare meglio quello che sta avvenendo in Italia. Se non se la sente andiamo oltre.
No va bene. Mia madre lavorava in una zona del villaggio di Dogo Na Hawa, nel nord della Nigeria, abitata soprattutto da cristiani, infatti lì c’era una chiesa cristiana. Era il 7 marzo del 2010. L’anno in cui è arrivato il gruppo di Boko Haram (il soprannome dell’organizzazione terroristica di matrice islamica ‘Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e per la Jihad’, significa letteralemente ‘Educazione occidentale vietata’, ndr). Mia madre stava lavorando. Tutto andava normalmente e nessuno sospettava niente. Finché non è esplosa una bomba potente. Mia madre è morta. Avevo circa 13 anni.

Poche ore dopo l'attentato a Dogo Na Hawa, il 7 marzo 2010. Quel giorno il grido delle donne nigeriane è arrivato fino al cielo. Una di loro ripete in inglese: "Dove sei? Dove sei andato?" Non sappiamo a chi sia indirizzata la domanda. Forse a Dio. L'Occidente quanto ha ascoltato quell'urlo?
Poche ore dopo l’attentato a Dogo Na Hawa, il 7 marzo 2010. Quel giorno il grido delle donne nigeriane è arrivato fino al cielo. Una di loro, ripresa da un cellulare, ripeteva in inglese: “Dove sei? Dove sei andato?”. Non sappiamo a chi fosse indirizzata la domanda. Forse a Dio. L’Occidente quanto ha ascoltato quell’urlo?

Dove si trovava quando è successo?
Ero fuori paese a comprare roba da mangiare con mio fratello. Mia sorella invece era in giro a vendere cibarie.

Lei è il più piccolo di tre fratelli, giusto?
Sì, piccolo ma coraggioso.

Perché dice coraggioso?
Perché quando avevo dieci anni sono entrato in un gruppo paramilitare per la difesa del mio Paese. Non avevamo le armi, ma controllavamo notte e giorno la nostra zona e sorvegliavamo che tutto andasse bene.

Ha deciso liberamente di entrare nell’organizzazione?
Sì perché quando eri uno di loro, la gente ti rispettava, nessuno poteva farti niente. Ti sentivi sicuro.

Ma non andava a scuola?
Sì ma ho smesso a nove anni.

Perché?
Problemi economici. Mio padre Emanuel è morto quando avevo tre anni. Ha avuto un incidente stradale. Faceva il camionista per la Guiness, la birra. Dopo questo fatto, mia madre è stata costretta ad andare a lavorare e ha aperto un negozietto di alimentari, mia sorella l’aiutava a vendere.

Quando una donna con bambini rimane vedova come può vivere, non c’è nessuno che l’aiuta?
Sì di solito i parenti del marito e i suoi genitori. Ma nel nostro caso non è stato così perché per potersi sposare i miei si sono dovuti mettere contro le rispettive famiglie. I parenti di mio padre non volevano perché mia madre veniva dal nord. Una volta il nord e il sud non erano amici.

Pare che questo avvenga in tutti gli Stati del mondo. Ma torniamo alla sua storia. Chi vi ha avvisato dell’accaduto?
Nostro zio. Noi lo chiamavamo zio, ma era un vicino di casa che ci aiutava. Era musulmano. È venuto da noi, ci ha presi con sé, ci ha portati a casa e ci ha detto: “E’ finita. Qui non è più sicuro per voi. Partiamo e andiamo in Niger, lì conosco qualcuno”.

Il 7 marzo sembra un giorno come tanti. Invece in un batter d’occhio per lei è cambiato tutto. Cosa è avvenuto immediatamente dopo l’attentato?
Sì ho perso mia madre, si chiamava Gladys. E sia io che mio fratello abbiamo perso i contatti con mia sorella Fatima. Da allora non sappiamo cosa le sia successo, se sia viva o no, o dove sia andata. Fatima è un nome musulmano. Prima vivevamo vicini cristiani e musulmani. Il giorno della bomba è scoppiata una guerra civile, perché dopo sono arrivati i militari nigeriani con i fucili e sono iniziate le sparatorie.

Da qui in poi comincia un viaggio di quattro anni che culmina con la salvezza, che ha il volto della Marina Militare Italiana. Prima di arrivare a questo però, Lynus dovrà affrontare un viaggio di più di due anni dalla Nigeria alla Libia, poi la prigionia nelle carceri libiche. Infine verrà venduto dalla polizia agli scafisti e verrà portato in alto mare, a pochi chilometri da Lampedusa, dove non sbarcherà mai a causa dell’enorme quantità di profughi presenti sull’isola. Lui e il fratello Erik saranno condotti direttamente a Napoli. È il giugno del 2014. Ma facciamo un passo indietro.

La persona che voi chiamavate zio vi ha portati da alcuni amici in Niger, giusto?
Sì, siamo rimasti lì parecchio più di un anno, credo, non ricordo bene. Davamo una mano in campagna. Ma eravamo stranieri in mezzo a stranieri e la situazione del Niger non era buona. Un giorno lo zio ci ha detto che in Libia c’era possibilità di lavorare e che là c’erano molti nigeriani. Così ci siamo aggregati, questa volta da soli, ad un gruppo di persone che con jeep e camion stava attraversando l’Africa per andare in Libia. Su quei camion c’era gente di ogni nazionalità e gruppo etnico, tutti stipati. C’era gente dalla Costa d’Avorio, dal Cameroon, dal Mali, eccetera.

Quindi finalmente arrivate in Libia.
Sì, ma quando siamo arrivati, gli autisti ci hanno chiesto i soldi del viaggio. Noi non ne sapevamo nulla. Non sapevamo se nostro zio li avesse già pagati. E in più non avevamo niente di niente. E quelli ci hanno detto: Se non pagate chiamiamo la polizia. I poliziotti sono arrivati e ci hanno portato subito in prigione.

Qui il racconto si interrompe, le parole faticano ad uscire, sono bloccate da un nuovo nodo di dolore.

Se la sente di parlarci del periodo della prigione?
È stato molto brutto. Ci hanno divisi, io con i piccoli e mio fratello con i grandi, anche se abbiamo solo due anni di differenza. A me hanno trattato abbastanza bene perché ero piccolo per loro, a mio fratello no.

Ha subito violenze?
Mio fratello non è stato fortunato come me.

Quanto siete rimasti in prigione?
Circa un anno e mezzo. Mese più mese meno.

Lei aveva circa 15/16 anni. Perché vi hanno tenuto così tanto?
Perché aspettavano che qualcuno ci reclamasse. C’erano molti ragazzi in prigione, quando le famiglie se ne accorgevano, pagavano per farci uscire. Ma per noi nessuno ha pagato.

Quindi cosa è successo?
Un giorno un poliziotto viene e parla con me e mio fratello. Ci chiede cosa ci facciamo lì dentro e poi ci dice: Ok, trovo il modo di mandarvi fuori. Ma noi abbiamo risposto: Non sappiamo dove andare. Nessun problema, dice lui, vi aiuto io.

E vi ha aiutato?
Ci ha aiutato. Ci ha portato a casa sua. Poi una notte ci ha detto venite con me. Ci ha portato in una città che non conoscevamo, di nome Tripoli. Siamo andati sul mare. Diceva: “Vi faccio vedere una cosa”. Noi avevamo paura, ma non avevamo scelta.

Cosa c’era là sul mare?
Un gruppo di persone e una barca. Ha detto: “Vedete quelle persone lì? Vanno in Italia. Voi andrete con loro”. Ma io non volevo andare e piangevo. Piangevo perché non sapevo nuotare e avevo paura. Ma mio fratello mi ha preso per mano e mi ha fatto coraggio. Così mi sono ricordato che io ero quel ragazzo piccolo, ma coraggioso.

Ma chi ha pagato?
Non lo sappiamo. Ma abbiamo capito che la polizia dà agli scafisti gente sempre nuova per il viaggio. E molti sono reclutati dalla galera.

Come è stata la traversata in barca?
Per fortuna il mare era calmo, anche se comunque io non ho fatto altro che vomitare. Da dove ci avevano messi non vedevamo fuori. Ad un certo punto ci siamo accorti che non c’era nessuno a comandare, c’eravamo solo noi. Non ho mai capito chi guidasse. Infatti quando è arrivata la Marina Italiana non ha trovato nessuno a guidare. Qualcuno ci deve essere stato, poi si sarà confuso tra la gente.

Quanto siete stati in mare?
Ci siamo imbarcati la notte, tutto il giorno abbiamo navigato e alla notte successiva è spuntata la nave italiana.

Cosa ha provato?
Mi sono sentito contento. All’inizio piangevo e avevo paura perché ero rimasto da solo, mi avevano portato in salvo e mio fratello era rimasto in barca, ma poi nel giro successivo è arrivato anche lui. Siamo rimasti tre giorni nella nave militare: ci hanno detto che bisognava andare a Napoli perché a Lampedusa c’era troppa gente.

Poi una volta a Napoli qualcuno si è occupato di voi?
Sì, siamo stati subito trasferiti a Bologna. Siamo rimasti lì una settimana e poi siamo arrivati a Ferrara con Camelot. Siamo stati sistemati alla Città del Ragazzo, istituto don Calabria.

Lynus Efosa, 19 anni, sta svolgendo il servizio civile presso la biblioteca di Tresigallo
Lynus Efosa, 19 anni, sta svolgendo il servizio civile presso la biblioteca di Tresigallo

Sentire che ci sono problemi con gli stranieri, sapere i fatti di Gorino e tutto quello che si dice come la fa sentire? La fa arrabbiare?
No, mi dispiace che la gente ha paura. Però penso alla questione del grattacielo: la gente ha ragione. È normale non volere nella tua città cose come droga e violenza. Ed è vero che molti nigeriani gestiscono il traffico di droga. È una cosa che fa male anche a me. Mi danno fastidio spesso.

In che senso?
Mi capita spesso che qualche signore italiano mi fermi per strada e mi chieda: “hai la droga?”. Io mi arrabbio moltissimo, rispondo: “Cosa credi che siccome siamo nigeriani siamo tutti uguali?”

E loro?
Loro mi mandano a quel paese e se ne vanno.

Qual è il suo sogno, Lynus?
Vorrei lavorare, magari fare il parrucchiere, un lavoro che facevo anche da piccolo in Nigeria e per cui ho fatto anche un corso qui in Italia. Poi con il tempo una donna e una famiglia.

Non vuole tornare in Africa?
No assolutamente. Prima devono morire tutti i presidenti corrotti, deve cambiare la situazione. E credo che anche se sono giovane non farò in tempo a vederla cambiare.

Lei è stato accolto come minore alla Città del Ragazzo, poi sempre sotto Camelot è passato in una comunità per neo maggiorenni a Tresigallo. E ora?
Ora sono in scadenza. Dopo Natale dovrò lasciare la comunità, ma non so cosa farò, dove andrò ad abitare. Per pagare l’affitto mi servono un po’ di soldi. Al momento grazie all’aiuto di Camelot sto facendo il servizio civile nella biblioteca di Tresigallo, e sono molto contento di lavorare lì, ma ovviamente se dovessi pagarmi vitto e alloggio i soldi non basterebbero.

C’è stato un momento felice, spensierato nella sua vita?
Quando ero bambino e giocavo, prima di dover andare a lavorare a nove anni. Ero troppo piccolo per capire cosa succedeva, ed ero felice.

Strategia della vongola

Da una parte la paura, dall’altra la speranza. A rappresentare con efficacia il contrasto, ecco il montaggio (non casuale) di un servizio del Tg3 che, nei giorni di Gorino, mostra in rapida sequenza prima i volti tirati dei residenti che sibilano “noi siamo buoni e pacifici, finché non ci invadono…”; e di contrappunto l’espressione serena di una ragazza di Sarajevo – che gli invasori li ha conosciuti davvero -, la quale racconta come la sua casa sia crollata sotto le bombe e lei, fuggita dal dramma a un passo dalla laurea, abbia ricominciato tutto daccapo a Ferrara e abbia poi raggiunto il traguardo degli studi nel nostro ateneo pur dovendo ripetere tutti gli esami. E lo dice senza rancore per nessuno, con lo sguardo limpido, auspicando un futuro migliore per tutti, parlando con consapevole lucidità dei problemi che ci attraversano.

E’ racchiuso in queste due immagini contrapposte il senso della tragedia che stiamo vivendo. C’è chi sbarra occhi, cuore e cervello davanti a una realtà che, piaccia o non piaccia, va affrontata con raziocinio e non con i forconi. E c’è chi invece si prodiga, non si arrende, persevera nella ricerca e caparbiamente insegue l’orizzonte di un’esistenza degna.

Occorre forse rispolverare un post-it della memoria per comprendere davvero il dramma attuale. Lo sfruttamento coloniale delle potenze occidentali in Africa ha causato duecentocinquanta milioni di morti. A proposito di invasi e invasori… Un giogo durato più di quattro secoli (di cui permane tuttora la sudditanza economica) segnato da schiavitù, barbarie, feroci ingiustizie, depauperamento selvaggio di ogni risorsa mineraria e agricola (basti pensare a diamanti, rame, oro, zucchero, cotone, cocco, té, caffé, caucciu che hanno fatto la fortuna degli imperi d’occidente e dei suoi mercanti). I contrasti di oggi sono figli delle nostre colpe, non possiamo ignorarlo. Frutto della sopraffazione nei confronti di popolazioni inermi. Non dimentichiamolo.

Poi, con questa consapevolezza ben fissata in testa, possiamo ragionare dell’oggi e valutare seriamente, accanto al dovere di solidale accoglienza, anche le problematiche che spesso s’accompagnano ai fenomeni migratori, a cominciare dal dramma della criminalità, e le conseguenti necessarie forme di tutela da adottare. Ma senza scivolare nella massificazione dei giudizi e senza dimenticare lo sfruttamento operato dalle cosche nostrane (gente italica, per intenderci) che speculano su questi drammi e sulla fragilità di chi ne è protagonista; ricordiamoci dunque anche delle vergognose ruberie perpetrate di frequente pure dai colletti bianchi di casa nostra, che prosperano sulla miseria e fanno business a tutti i livelli, dall’accoglienza, all’assistenza, all’inserimento lavorativo, con caporali e generali sempre all’opera…
E poi consideriamo che se questo risulta per molti il tratto più appariscente dell’immigrazione, non è però quello dominante. In media si macchia di reati un immigrato su quattro: non è poco ma non ci deve far scordare dei tre che si comportano correttamente. Pensiamo quindi anche alla maggioranza dei migranti che fra mille difficoltà vivono pacificamente fra noi, contribuendo con il loro lavoro al soddisfacimento di nostri bisogni, svolgendo spesso occupazioni che noi e i nostri figli rifiutiamo.

Certo, lo sappiamo: al fondo, in tanti prevale l’irrazionale timore dello straniero. E questo è un baratro pericoloso perché obnubila la mente. Il coraggio, si dice, genera eroi. E la paura, invece? Quando prevale non c’è da attendersi nulla di buono. La paura si nutre di mostri e da essa scaturiscono altri mostri. La paura induce chi ne è preda a rinserrare il chiavistello e a premere il grilletto al primo rumore sospetto. E’ successo, succederà sempre. Nella comunità impaurita il singolo smarrisce la propria umanità e si annulla in una moltitudine berciante, popolata di sceriffi, giustizieri fai da te pronti a emettere sentenze ed eseguire condanne. Per questo il grido “restiamo umani” è ben più di uno slogan. E’ un’invocazione all’intelletto, l’antidoto al terrore che si genera a ogni strage e in ogni frangente in cui l’individuo sente insidiate le proprie sicurezze. L’istinto di vendetta è atavico, la volontà di sopraffare per non essere sopraffatti, pure. Ma secoli di storia e di progresso ci devono rendere più forti degli impulsi. E aiutarci a comprendere che, se non vince la razionalità, tutti perderemo tutto, in un titanico scontro che lascerà solo macerie fumanti sulla crosta di un mondo già agonizzante, segnato da violenza, sopraffazione, guerre sanguinose. Un mondo ormai al limite del collasso civile e ambientale, a causa della miopia e degli egoismi di quella specie mai estinta che è l’uomo-rapace, di ogni razza, credo o colore che sia.

Gorino: lo spazio vitale

Lo spazio vitale è quello che ci consente di difenderci dagli altri. Ma quando la cultura divorzia dalla natura nulla più ci divide dalle bestie che difendono il loro territorio. Questo è accaduto a Gorino.

Cosa spinge un paese a schierarsi contro dodici donne, l’ignoranza, l’egoismo, la paura? Tutte queste risposte sono solo sintomi, manifestazioni delle cause, ma non la causa.
Noi non ci accontentiamo della cronaca dei fatti e neppure dei giudizi, vorremmo tentare di capire, non per fare della sociologia, ma per andare alla radice delle nostre condotte e di quello che siamo.
La paura dell’altro è un archetipo, come lo spazio vitale: lo space life. Quell’area di vuoto intorno a noi che non consentiamo agli altri di oltrepassare, di invadere, per tutelare la nostra sicurezza, la nostra libertà, la nostra presa di distanza dall’altro.
Gli space life individuali moltiplicati per quanti sono gli abitanti di un paese finiscono per tradurre questo sistema di autotutela individuale in una cintura sanitaria intorno al proprio paese per respingere ogni corpo estraneo. È quello che è accaduto a Gorino. I singoli space life si sono compattati tra loro per creare una invalicabile barricata contro l’arrivo dei corpi estranei: ben dodici donne!
Si è lasciato libero sfogo non al ragionamento, ma agli istinti atavici della natura, come bestie che difendono il proprio territorio.
Questo è accaduto, di naturale e disumano nello stesso tempo, perché sulla ragione ha preso il sopravvento l’istinto, sono prevalsi gli strati più profondi del cervello umano.
La causa allora è da ricercare in un alterato rapporto tra natura e cultura che sempre più si sta traducendo in una risposta patologica all’immigrazione.
Qui la natura ha tradito la cultura. La cultura, le conoscenze, l’educazione, l’apprendimento, la religione non sono stati in grado di prevalere sugli istinti, sull’irrazionale. È la sconfitta dell’uomo e della sua civilizzazione se la cultura non è più in grado di prevalere sulla natura.
Questo sta succedendo non solo a Gorino, ma in Austria, in Ungheria, in Polonia e ancora altrove.
Questa sarebbe la società della conoscenza vagheggiata dall’Unione Europea? La società dei capitali umani senza umanità? Proprio cultura e conoscenza ci tradiscono, vengono meno, cultura e conoscenza divorziano dalla natura, dalle condotte umane.
Neppure più categorie come il razzismo reggono per spiegare questo fenomeno, perché di razzismo non si tratta. Non è perché sei diverso che non ti aiuto, che ti respingo, è perché il mio territorio è mio e non si oltrepassa il confine, la linea tracciata per terra, come se fosse un gioco tra bambini. È questa regressione che spaventa molto di più di ogni razzismo, è la chiusura nella propria riserva e la visione di un mondo costruito a riserve: tutti uguali, ma ciascuno a casa propria. E neppure c’entra lo sciovinismo. Il fenomeno è del tutto nuovo.
Potremmo nominarlo come il fenomeno della chiusura a riccio, della risposta a carciofo, è il ritorno al proprio luogo, al proprio borgo, non è temere la cultura, ma quanto della tua natura, del tuo spazio vitale l’altro ti può sottrarre.
Ma se le cose stanno così non si è responsabili da soli, la responsabilità è collettiva, ben al di là delle masse che vi partecipano. Non basta prendere le distanze e denunciare. Bisogna pensare, capire cosa c’è da cambiare e darsi da fare, diversamente quello che è accaduto a Gorino, i muri che si innalzano in Ungheria sono anche responsabilità nostra. O è troppo tardi e la malattia si è già ampiamente propagata?
Non si può scoprire, ormai avanzati nel terzo millennio, che la nostra cultura occidentale, democratica e illuminista alla prova dei fatti non funziona più, che ha perso gli effetti per cui era nata, tanto da renderci barbari, stranieri tra noi.
Qui educazione e istruzione non sono più qualcosa che riguarda solo i ragazzi, ma anche e soprattutto gli adulti. Tra chi ha opposto il rifiuto alle donne migranti, in fuga dal sopruso, dalla violenza, dalle guerre, c’erano anche educatori, insegnanti, persone di cultura, gente impegnata nel sociale? O perché non sono stati in grado di opporsi, di far sentire anche la loro voce? È la prima domanda che viene da chiedersi. Se così fosse, è la cultura e la sua trasmissione che costituiscono l’emergenza dell’epoca che viviamo. La cultura è la grande questione del nostro tempo. Si è spezzato un equilibrio e quando la cultura non funziona più si preparano nuovi secoli bui.
È una responsabilità che portiamo tutti, anche le anime belle, correre subito ai ripari non è mai troppo presto.
Pare che parlare di istruzione, di apprendimento il più diffuso possibile sia un ozio che solo pochi si possono permettere, invece si tratta della vera emergenza del nostro tempo, complesso, difficile e proprio per questo quanto mai urgente più di ogni altra crisi economica.
Ecco il senso della città della conoscenza, dell’incontro tra natura e cultura, affinché crescano, si nutrano e si reggano a vicenda di fronte alle nuove e sempre più inedite sfide, se non si inizia ad abitare per davvero questa nuova dimensione a tramontare sarà ogni forma di cittadinanza vera e ciascuno sarò cittadino solo di se stesso, occupato a difendere il proprio spazio vitale, il proprio territorio, ognuno per sé contro tutti gli altri.

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