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Giorno: 26 Gennaio 2017

A Comacchio il Giorno della Memoria

Da: Comune di Comacchio

Anche quest’anno Comacchio celebra il ‘Giorno della Memoria’ con una serie di significativi appuntamenti, previsti per questo sabato 28 gennaio e dedicati al ricordo delle vittime della Shoah. Si comincerà alle ore 9 presso il ‘Parco della Resistenza’ di Via Garibaldi con un omaggio ai martiri della resistenza. Dopo la consegna da parte degli allievi delle scuole di Comacchio di un tricolore e dopo il relativo alzabandiera, un corona di alloro verrà deposta sul luogo dell’eccidio in ricordo del 72° anniversario della fucilazione di Giuseppe Ghirardelli, Giovanni Farinelli, Edagardo Fogli (MOVM) e Vittorio Bulgarelli.
Dalle 9:30 in poi, invece, l’appuntamento è in Sala Polivalente S. Pietro con l’incontro pubblico sul tema ‘Non dimenticare…’. Interverranno il Sindaco di Comacchio, Marco Fabbri, il Presidente ANPI di Comacchio, Vincenzino Folegatti, la Dirigente dell’Istituto Comprensivo di Comacchio, Roberta Monti e la Prof.ssa Anna M. Quarzi Direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Fearra
Durante la giornata commemorativa, infine, spazio anche per gli allievi della Scuola Media ‘A. Zappata’ di Comacchio, che sempre in Sala Polivalente, proporranno l’intervento ‘Les enfants du Vel d’Hiv…’ (I bambini del velodromo di Parigi).

Presentazione audio libro ‘Una notte del ’43’

Da: Organizzatori

Oggi, 26 gennaio, a Palazzo del Vescovo – Biblioteca Comunale ‘Giorgio Bassani’ – Codigoro (Riviera F. Cavallotti), alle ore 15.00/17.00, in occasione del Giorno della Memoria, verrà presentato in prima nazionale il cofanetto ‘Una notte del’43’ (audio libro più libricino contenente tre saggi), ideato e diretto dall’attore ferrarese Stefano Muroni, prodotto da EMONS, leader nel settore degli audio libri.
Cinque attori, cinque voci ferraresi di oggi rileggono il celebre racconto di Bassani che narra di un eccidio emblematico della guerra civile italiana. Lucida lettura del Ventennio fascista e del conflitto interiore di una città, Una notte del ’43 tuttora ci parla, denunciando coloro che preferirono il conforto e la sicurezza del conformismo e della viltà. Quinto racconto della raccolta Cinque storie ferraresi, ispirò il film La lunga notte del ’43 (1960) di Florestano Vancini.
Gli attori che hanno preso parte al progetto sono Monica Chiarabelli, Massimo Malucelli, Fabio Mangolini, Stefano Muroni e Marco Sgarbi.
All’interno: un volumetto con saggi inediti di Giuseppe Muroni, Eleonora Rossi e Anna Maria Quarzi.
Si ringraziano gli eredi Paola ed Enrico Bassani.
Con il patrocinio di fondazione Giorgio Bassani, Istituto di storia contemporanea di Ferrara e Comune di Ferrara.

Carife: parole a vanvera del PD e Lega che rilancia con lo ‘sportello finanziario’

Da: Ufficio Stampa Lega Nord Emilia-Romagna

Carife: parole a vanvera del PD e Lega che rilancia con lo ‘sportello finanziario’, di intesa con i ‘consumatori’
Alan Fabbri (LN): «Parlamentari Pd fanno un dietrofront tristissimo sugli effetti del salva-banche. Andiamo avanti con la Lega dei consumatori e apriremo a breve uno sportello finanziario per tutelare il cittadino»

«Le uscite recenti dei parlamentari del Pd sono l’esempio dello stato confusionale del Partito Democratico. Come nel caso dell’on. Bratti, fino a ieri avulso dal dibattito sulla Cassa di Risparmio, ed ora alle prese con un dietrofront imbarazzante (dopo il referendum) sugli effetti del Slava-Banche. Da parte nostra, andiamo avanti con la richiesta dei risarcimenti e le azioni di tutela dei cittadini, trattati in maniera differente rispetto al caso Monte dei Paschi». Procede dritto lungo le proprie posizioni, il capogruppo regionale della Lega Nord, Alan Fabbri. Convinto che, sulla pelle dei risparmiatori di Carife, si sia fatta un’operazione di ‘macelleria sociale’; sperimentando sui cittadini ferraresi le insensate regole del Bail-in voluto dall’Ue, mentre un discorso diverso è stato fatto per la banca del territorio del Pd, nella regione Toscana: ovvero, Mps. «Il Governo deve dare ancora risposte, a nostro giudizio, ai 28mila azionisti, ed ai tanti obbligazionisti per i quali chiediamo risarcimenti.» Ma, parallelamente, mentre il Pd invia ogni giorno informazioni contraddittorie, la Lega Nord prepara la sua campagna, che comincerà da febbraio: «Metteremo in campo a giorni la nuova fase della nostra programmazione territoriale, che andrà dall’Alto al Basso Ferrarese – anticipa Alan Fabbri -. Iniziando con una campagna informativa, che toccherà i vari comuni, e con l’apertura di uno ‘Sportello finanziario’, gestito con la collaborazione esperta della Lega Nazionale dei Consumatori.» Lo scopo sarà quello di «dare un servizio di prossimità, vicino al cittadino – spiega Enrico Scarazzati della Lega Consumatori – in tutte le amministrazioni comunali che si renderanno disponibili ad aprire un punto di ascolto. Per dare una voce alternativa ai risparmiatori, rispetto a quella delle banche.» Un servizio di pubblica utilità, in sostanza. Mentre per il tour informativo, sono già calendarizzate alcune tappe (da Ferrara a Comacchio, a Bondeno, per fare alcuni esempi). Intanto, una novità è che dal 9 gennaio è attivo l’arbitrato Consob: «un’alternativa alla strada della giustizia ordinaria, ma che necessità di assistenza esperta per orientare e gestire le pratiche.» Anche in questa direzione, i punti di ascolto offriranno un supporto al cittadino.

Viaggio legale a Ferrara

Da: Cgil Ferrara

Venerdì 27 gennaio farà tappa nella nostra città ‘Il viaggio legale’ un progetto con l’obiettivo di realizzare un percorso di cittadinanza e contrasto alle mafie che attraversando la via Emilia miri a creare cittadini consapevoli e responsabili attraverso percorsi culturali, di formazione ed informazione. Un obiettivo condiviso anche da Giancarlo Siani, che da giovane giornalista del ‘Il Mattino’ di Napoli, ogni giorno lavorava con passione e senza sosta per descrivere la realtà in cui viveva, brutalmente ucciso dalla camorra nella sua Citroen Mehari, nel 1985.
La Mehari di Siani unitamente ad una mostra, verrà allestita in Piazza Municipale e visitabile nella giornata di venerdì 27 gennaio (ore 10-17.30) come simbolo del contrasto alle mafie, all’illegalità ed un impegno a costruire nuove relazioni nella società civile e del lavoro.
Al mattino si terrà un incontro di formazione rivolto ai volontari del Servizio Civile sul tema ‘Cittadinanza e partecipazione: la libertà di informare ed essere informati’ a cura di Alessandro Zangara, responsabile Ufficio Stampa Comune di Ferrara, al quale seguirà la visita alla mostra dedicata a Siani (Iniziativa del Comune di Ferrara in collaborazione con il Copresc di Ferrara)

Alle ore 15.30 Cgil Ferrara organizza l’iniziativa pubblica dibattito nella Sala dei Comuni del Castello Estense (accesso dalla scala elicoidale) “Testo unico sulla legalità e la sua rilevanza nel contrasto alle economie criminali, al lavoro irregolare, allo sfruttamento e per una maggiore qualificazione del tessuto socio economico produttivo” con gli interventi di Gian Guido Nobili dirigente Regione ER, Mirto Bassoli segretario Cgil ER, Donato La Muscatella del Coordinamento di Ferrara di Libera e Tiziano Tagliani sindaco di Ferrara. Coordinerà l’evento Cristiano Zagatti segretario provinciale Cgil Ferrara.

Paola Parodi parla di ‘Il puzzle delle origini’

Da: Centro Documentazione Donna

Biblioteca del Centro Documentazione Donna
Via Terranuova 12/b – Ferrara
venerdì 27 gennaio 2017 ore 17
Paola Parodi parla di ‘Il puzzle delle origini’

Con questo secondo incontro del progetto sostenuto dall’Assessorato alla cultura del Comune di Ferrara ‘Alle origini della diversità’, dopo il primo in cui se ne sono chiariti gli scopi, si entra nel vivo del discorso risalendo agli inizi del patriarcato.

Sarà un’esplorazione tra le testimonianze archeologiche e il patrimonio mitologico per risalire alle origini della cultura patriarcale/dominio dell'area euroasiatica: indizi, conseguenze e le recenti ipotesi sulle dinamiche formative.

Paola Parodi, ricercatrice, si occupa delle culture neolitiche matricentriche e del loro incontro-scontro con le successive culture patriarcali. Autrice di articoli e recensioni, è coautrice del testo ‘Dalla Spirale alla Croce, storie di simboli’, che si avvale delle esperienze ricavate dai numerosi viaggi sui luoghi in cui esistono siti archeologici, dalla partecipazione a convegni e laboratori specifici e da studi pluriennali. Con Franca Bragliani ha pubblicato anche ‘Il seno. Sacro, materno, dannato’. Collaboratrice della rivista ‘Leggere Donna’, è stata invitata più volte al Centro Documentazione Donna dove, nel 2016, ha tenuto due incontri sui temi della trasformazione dei significati dei simboli.

In occasione della Giornata della Memoria “I giusti: le scintille di luce nella notte della Shoah”

Da: Comune di Tresigallo

In occasione della Giornata della Memoria, martedì 31 gennaio, alle ore 21.00, presso la Casa della Cultura, presentazione della conferenza “I Giusti: le scintille di luce nella notte della Shoah”; ne parla Luciana Roccas Sacerdoti, Comunità Ebraica di Ferrara, introduce Anna Quarzi, Istituto di Storia Contemporanea.
L’inziativa è stata organizzata dalla Biblioteca, dall’Assessorato alla Cultura in collaborazione con L’Istituto di Storia Contemporanea.

Commissione respinge risoluzione della Lega Nord

Da: Gruppo Lega Nord Emilia-Romagna

Alan Fabbri (LN): «Sul commercio degli ambulanti, la volontà UE è quella di danneggiare un settore prettamente italiano. La giunta regionale non penalizzi gli operatori»

«Sul decreto Milleproroghe, il Governo ha agito in modo frettoloso, mentre il comportamento della Regione è stato ambiguo, cercando di tutelare le amministrazioni pubbliche, piuttosto che i lavoratori del settore del commercio su strada. La nostra risoluzione in commissione chiedeva una sospensione, fino alla conversione definitiva del decreto, ma la maggioranza l’ha respinta. Siamo dell’opinione che l’Europa, con l’assurda direttiva Bolkestein, intenda smantellare un settore tipicamente italiano, come quello del commercio su strada.» E’ stato questo il monito del capogruppo regionale della Lega Nord, Alan Fabbri, durante l’audizione in Commissione 3, di fronte all’assessore competente, Corsini. «Partiamo dal presupposto che la direttiva europea ed anche il decreto Milleproroghe del Governo siano sbagliati – ha puntualizzato Fabbri – e, pertanto, la Regione avrebbe dovuto accogliere la nostra proposta, attendendo la conversione in legge del decreto. Invece, come sempre, si aggiungono errori ad errori. Ad ogni modo – continua – non ci spostiamo dalla convinzione che questo settore, minacciato da normative che vorrebbero esporlo alla concorrenza di operatori internazionali con maggiori possibilità economiche, vada difeso, poiché accomuna 8000 aziende per lo più a conduzione familiare.» La Commissione regionale ha dibattuto sui contenuti dell’emendamento già votato dalla Conferenza Stato-Regioni, che punta a sollecitare il Governo a prorogare la scadenza per la presentazione dei bandi da parte dei comuni, fino al 31 dicembre 2018, poiché molti degli enti locali non sono attualmente pronti. Ma questo apre un altro fronte, secondo Fabbri: «molte concessioni andranno a scadenza tra maggio e luglio e verranno riassegnate nei termini vigenti, mentre per i comuni inadempienti le proroghe per la pubblicazione dei bandi verranno slittati alla fine del 2018. In questo scenario, chiediamo che la durata delle diverse concessioni siano uniformate (con un atto formale), per non penalizzare gli operatori che si vedranno assegnare le nuove ‘licenze’ in tempi diversi. Il comportamento dell’assessore Corsini, anche in questo, ci è parso fumoso, poiché sembra più interessato a tutelare le amministrazioni pubbliche dimostratesi poco virtuose, piuttosto che i commercianti ambulanti, su cui già si accanisce la direttiva Bolkestein.»

Prevedere terremoti, malattie e tsunami? La tecnologia c’è, ma non è umana

di Natasha Fikri

È capitato a chiunque, inevitabilmente, di sentirsi raccontare misteriose storie – più o meno veritiere – su come gli animali, che contrariamente agli umani sono rimasti legati alla natura e sono parte integrante di essa, riescono non solo a captare le emozioni umane, avendo loro stessi un ampio spettro emotivo, ma addirittura a percepire avvenimenti naturali di vario tipo, dai terremoti alle inondazioni. Dicerie popolane e superstizioni alla ‘gatto nero’ a parte, viene spontaneo chiedersi se il mondo animale non sia veramente in grado di prevedere una calamità naturale come quella che ha colpito e messo in ginocchio il Centro Italia in questi ultimi mesi, e se grazie a questo “sesto senso” animale, l’uomo non possa riuscire a salvare la vita di molte persone. Per trovare una risposta a questi quesiti non poco controversi, è indispensabile prendere in considerazione le numerose testimonianze che la storia ha da offrirci.

Sapevate, ad esempio, che a Messina, prima del sisma del 1783, l’intera città si riempì di cani, i quali, scappati dalle loro dimore, ulularono così tanto che non si riuscì a farli smettere in nessuna maniera? Gli anziani del luogo interpretarono questo fatto come l’indizio di un qualcosa che sarebbe accaduto di lì a poco. Alcuni decenni più tardi, un altro insolito comportamento coinvolse stavolta delle cavallette, che a frotte abbandonarono la città e si diressero verso il mare. Accadde a Napoli nel 1805, e di fatto, questo atto così atipico fu seguito da un forte terremoto.

Sono emblematiche anche le testimonianze dal resto del mondo. Nel 1896, a Sanriku, Giappone, numerose anguille si gettarono sulla spiaggia. Fu il preludio di un fortissimo sisma, seguito da uno tsunami. Nel 1910, a Landsberg, Germania, le api abbandonarono i loro alveari due minuti prima di un evento sismico e tornarono soltanto quando esso terminò. Incredibile, poi, il caso del 1964, in Alaska, quando i cacciatori locali si accorsero che i grandi orsi kodiak erano usciti prematuramente dal loro letargo. Successivamente, ci fu il terzo megasisma più forte del mondo – il terzo più potente mai registrato negli Stati Uniti d’America – con una magnitudo momento di 9,2.

Tutto questo fa presupporre che, in qualsiasi parte del mondo ci si trovi, i comportamenti inusuali nel mondo animale possano essere considerati veramente come delle spie che ci avvertono di devastanti eventi naturali che stanno ancora per accadere.

La scienza ci spiega che gli animali riescono a “prevedere” i terremoti grazie ai loro sensi, di molto più sviluppati dei nostri. I cani, per esempio, sono capaci di percepire le più piccole vibrazioni attraverso i loro ‘baffi’, o vibrisse, e non è un caso che durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, si mostravano spesso irrequieti davanti ai loro padroni, tentando di allontanarli dai punti più pericolosi e salvando in molti casi la loro vita. E mentre per l’udito umano sotto i 20 hertz è il silenzio, sia gli elefanti che i pipistrelli possono sentire gli infrasuoni a diverse centinaia di chilometri. Percepiscono, infatti, i movimenti all’interno della crosta terrestre e a causa di ciò si possono mostrare irrequieti e nervosi, diventando, senza saperlo, veri e propri strumenti di prevenzione di calamità naturali.

A questo proposito, è degno di nota il progetto ICARUS, lanciato dall’agenzia spaziale tedesca nel 2013, il cui obiettivo primario è osservare e registrare le rotte migratorie di circa 1000 uccelli e pipistrelli, e così facendo, annotare tutti i movimenti anomali per poter prevedere gli eventi sismici imminenti, ma non solo. Grazie a questo complesso sistema satellitare, collegato alla Stazione Spaziale Internazionale, gli scienziati potranno monitorare la diffusione delle zoonosi, ossia le malattie infettive che possono contagiare anche l’uomo, i cambiamenti climatici globali e lo stato di salute dei diversi ecosistemi locali.

Secondo Martin Wikelski, capo del progetto ICARUS, nonché direttore del Dipartimento di Migrazioni e Immuno-Ecologia dell’Istituto Max Planck per l’Ornitologia e professore dell’Università di Konstanz, Germania, “l’idea di fondo è quella di avere un sistema di osservazione mondiale che permetta di collegarci alla vita del pianeta, per utilizzare gli animali come delle sentinelle per la nostra sicurezza”.

Insomma, la civiltà ha fatto passi da gigante, disponendo di tecnologie sempre nuove, ma non dobbiamo mai dimenticare che anche la natura fa la sua parte. Certe volte, sono proprio i suoi “messaggeri” ad avvisarci di certi pericoli. Prestiamo più attenzione al comportamento degli animali, a partire da quelli domestici, e cerchiamo di capire: ma cosa ci vogliono dire?

Un sassolino di nome Giulio Regeni negli ingranaggi degli interessi mondiali

Giulio Regeni è scomparso da un anno. Se ne è andato tra le vie del Cairo: rapito, torturato, ucciso. Nel frattempo gli equilibri del mondo intero sono cambiati. Al Sisi, presidente egiziano, si è schierato con Donald Trump, il nuovo inatteso successore di Obama, ma è anche ben voluto da Vladimir Putin che lo appoggia nel tentativo di accaparrarsi in Libia un’area influente come la Cirenaica.

Ma non è tutto. È molto amico dell’Arabia Saudita e allo tempo di Israele e dell’Europa, soprattutto dell’Italia, con cui intraprende accordi importanti, non solo commerciali, come il riprendersi i migranti espulsi nei territori egiziani. È evidente che l’atteggiamento del regime del Cairo, soprattutto con noi, sia al quanto elusivo in merito alla morte del ricercatore friulano. Coi soldi in arrivo dagli Usa, dalla Russia, dai sauditi e persino dal Fmi, l’Egitto non ha di certo bisogno di inchinarsi al governo di Roma che, anzi, cerca di accaparrarsi i favori di Al Sisi per poter lavorare su appalti statali e parastatali.

In patria il regime gode di ottima salute, nonostante il premier sia detestato dagli islamisti e dai connazionali che si battono per avere un Paese laico e democratico; ci sono diverse faide interne, è vero, ma sono state molto spesso soffocate sul nascere. Forse esse stesse avrebbero potuto farci arrivare qualche notizia in più su Regeni, ma il governo è riuscito a mettere tutti a tacere, come fosse normale amministrazione. Non si può dire che l’Italia non abbia provato a fare luce su uno dei misteri più cupi degli ultimi anni, ma Al Sisi è sempre stato troppo impegnato nel far funzionare bene i nuovi rapporti con Trump, attraverso lunghe telefonate e accordi sulla lotta al terrorismo.

Non è affatto un caso che dopo aver sentito i più grandi leader mondiali, come quarto interlocutore nel suo primo effettivo giorno da presidente, il magnate americano abbia scelto proprio di comporre il prefisso del Cairo per elogiare il nuovo amico nelle sfide economiche più recenti ponendo così le basi per una futura visita dello stesso generale su territorio a stelle e strisce. L’agenda del regime sembra essere così, almeno per il nuovo anno, fitta di impegni anche con i governi europei, stando alle dichiarazioni della Merkel che non disdegnerebbe di fare un salto nella patria dei faraoni per discutere un po’ di lotta al terrorismo e sottoscrivere qualche impegno per il rimpatrio degli immigrati illegali. Sembra che l’intrattenere buoni rapporti con l’Egitto faccia comodo a molti. Anche all’Italia, ci mancherebbe. Basti pensare che le forze di polizia egiziane si addestrano grazie alle forniture che arrivano dai confini tricolori e rispondono, inevitabilmente, a Magdi Abdel Ghaffar, decano della sicurezza interna, per molti vero responsabile dei depistaggi su caso Regeni.

Ma non si tratta solo di trattati internazionali o forniture, come abbiamo già affermato: il Paese egiziano è una fucina di strutture e infrastrutture pronte per essere realizzate, e tutte rappresentano opportunità irrinunciabili per le imprese europee a caccia di commissioni. Fanno a gara, oltre l’Italia, anche la Francia e la Germania. Piazzare più imprese possibili significa avere un indotto importante per rimanere a galla coi parametri europei e di certo per sviluppare la propria economia interna. L’Italia, con l’Egitto, ha in trattativa miliardi di euro di appalti, disse Renzi, con un centinaio di aziende impegnate, grandi nomi, ma anche ditte in ascesa nel mondo dell’energia e delle costruzioni. L’interscambio tra i due Paesi è stato altresì importante e proficuo per entrambi: nel 2016 palazzo Chigi annunciava di voler toccare almeno i 6 miliardi euro.

La morte di Giulio Regeni ha modificato tutti i piani ed ha costretto il governo italiano a procedere con più cautela e meno ottimismo, richiamando l’ambasciatore al Cairo e sospendendo la fornitura di ricambio per gli F-16. Lo scorso ottobre l’ente del turismo egiziano è sbarcato a Roma con l’obiettivo di mettere una pezza al crollo dei viaggi seguito alla turbolenta primavera araba. Da 12 milioni di visitatori all’anno prima del 2011, nel 2016 i turisti erano scesi a 130mila. Per questo, e tanti altri altri motivi, Al Sisi ha preferito dare il via ad un piano con cui poter dare una svolta al Paese, una sorta di “socialismo” che tutelerà la popolazione senza lasciarla ostaggio del libero mercato.

L’Italia, dopo un anno di indagini, continua a sostenere di volere verità di comodo e apprezza che il procuratore generale egiziano Nabil Ahmed Sadeq abbia preso l’impegno di non chiudere le indagini finché non saranno trovati i responsabili. Si parla anche di un futuro ritorno dell’ambasciatore italiano e le trattative con la procura cariota stanno pian piano smontando le macchinazioni della polizia. Da pochi giorni il primo canale egiziano (sarà un caso?) ha diffuso un video originale di Regeni risalente a pochi giorni prima della sua scomparsa che lo vede a colloquio con il sindacalista sospettato di averlo venduto. Il filmato presenta però dei tagli e non si hanno certezze sulla sincerità di Sadeq. Un punto di rottura tra la magistratura e i servizi segreti è lampante, ma chi dei due ha ragione?

Nel 2016, secondo Amnesty International, Al Sisi ha consolidato il proprio sistema repressivo indebolendo la società civile e criminalizzando il lavoro dei difensori dei diritti umani. La sicurezza egiziana ha torturato decine di detenuti e fatto scomparire centinaia di persone. Giulio Regeni era uno di loro. Sono tantissimi, nel mondo, a voler vedere cambiato il modo di governare un Paese come l’Egitto. Peccato però che molte nazioni facciano affari più o meno sottobanco con il generale egiziano e il suo torbido governo.

Mentre scriviamo in Italia ci si prepara a grandi fiaccolate in memoria di Giulio, molti sono stati i minuti di silenzio proclamati in suo ricordo, ma forse l’unica cosa da rimasta da fare è gridare, forte e senza paura: verità per Giulio Regeni!

Tutto quello che avreste voluto sapere sui travestiti… Laura Schettini, autrice de ‘Il gioco delle Parti’, ci racconta due secoli di stereotipi e di ribellione

C’è stato un periodo, a cavallo tra Otto e Novecento in cui, con sempre maggiore frequenza, le donne si travestivano da uomini e viceversa. Per le donne, oltre che espressione di orientamento sessuale era, soprattutto, un mezzo di emancipazione: il primo tentativo di poter affermare le proprie competenze in ambiti, lavorativi e sociali, prima riservati unicamente al sesso maschile. Gli uomini, al contrario, lo facevano per esprimere la propria omosessualità e vestire, in senso stretto, i panni femminili che sentivano propri.
Il tema del travestitismo non è mai stato così attuale. E’ di gennaio la discussa copertina ‘Gender Revolution’ che il National Geographic ha dedicato, con un numero monotematico, al tema dei diversi orientamenti sessuali e dei transgender (leggi anche il nostro articolo http://www.ferraraitalia.it/gender-revolution-la-copertina-del-national-geographic-che-fara-la-storia-115598.html).
Di tutto questo parliamo con Laura Schettini, autrice del libro “Il Gioco delle Parti. Travestimenti e paure sociali tra Otto e Novecento”. Da sempre il tema dell’identità di genere è presente nei saggi e nella attività professionale della professoressa Schettini: dopo il Dottorato di ricerca in Storia delle donne e dell’identità di genere presso l’Università ‘L’Orientale’ di Napoli, è stata docente a contratto di Storia contemporanea presso La Sapienza, Università di Roma. Ha pubblicato numerosi saggi sulla storia della psichiatria, degli internamenti femminili, dei modelli di genere e della sessualità.

Come mai si è concentrata sul fenomeno del travestitismo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento?
So che dovrei averla, ma non ho una risposta immediata per questa domanda. Direi che è stato per un insieme di ragioni, alcune biografiche/personali che provengono dall’essere stata una bambina a cui per lunghi periodi è piaciuto passare per maschietto, altre di carattere politico e scientifico. Ho scoperto la passione per la storia a vent’anni grazie ad un’amica, con la quale ho incontrato anche il femminismo, e da subito la mia è stata una passione per i soggetti ‘senza storia’ e che però allo stesso tempo avevano posto e rappresentato sfide importanti. In questo senso il travestitismo mi è sembrato una questione chiave, attraverso cui si poteva parlare delle paure che attraversano la nostra cultura, ma anche di uomini e donne che hanno attaccato al cuore una società fondata sulla rigida divisione tra maschile e femminile.

Il travestitismo divenne un vero fenomeno sociale: mezzo di emancipazione e sfida sociale? Cos’altro?
Certamente il travestitismo, soprattutto quando e perché agito all’interno di reti di relazioni, ha rappresentato un mezzo di emancipazione straordinario, sia individuale che collettiva. Nel mio lavoro ho compreso che il travestitismo divenne così importante tra Otto e Novecento perché è stato anche un simbolo. Il simbolo del cambiamento sociale, in un momento in cui la realtà era in rapida trasformazione e antiche strutture sociali si andavano sgretolando (pensiamo all’impatto dell’urbanizzazione, dei progressi nella scolarizzazione, ecc.). In questo senso si comprende come esso sia stato ad un tempo per alcuni l’emblema dei mali che la modernità portava con sé, per altri l’espressione di nuovi modelli e stili di vita.

Era percepito in maniera differente il travestitismo femminile rispetto a quello maschile?
Si, ma bisogna dire anche che le ragioni, le aspettative che portavano uomini e donne a travestirsi non erano le stesse. Così come i modelli retorici che la stampa popolare o la letteratura scientifica adottava per raccontare gli uni e gli altri casi erano differenti. Le donne ebbero storicamente molteplici motivi per impersonare un uomo (erotismo, miglioramento della propria condizione sociale, gusto per la performance, ragioni di sicurezza personale). Le tradizioni di travestimento maschile ricostruite per i Paesi europei rimandano, invece, quasi esclusivamente al reame delle relazioni omosessuali o dell’adozione di un’identità femminile per svolgere mansioni e compiti femminili. Anche la stampa, d’altra parte, trattava diversamente i casi a seconda che si trattasse di uomini e donne. Prima di tutto si tendeva a raccontare quelli femminili, iscrivendoli nel perimetro delle scelte obbligate, fatte per sopravvivere o servire la patria, mai per desiderio o per assecondare una propria tensione: nei quotidiani di fine Ottocento o inizio Novecento, dunque, abbondano le storie di donne che hanno vestito l’uniforme e si sono finti soldati per difendere la propria nazione, o che si sono finte marinaio, dottore, poliziotto per migliorare la propria condizione. Diversamente le storie di travestimenti maschili sono quasi assenti, e quando ci sono vengono calcate le tinte forti, la componente di dissipatezza sessuale. Questo, ci tengo a dirlo, non ci racconta molto delle storie dei travestiti e delle travestite, ma rappresenta molto bene le ossessioni, i quadri concettuali, di un’epoca. In quel periodo venne messa in atto una vera e propria caccia al travestito.

Quale storia, tra le tante che racconta, l’ha colpita di più?
Quella di Soccorsa. Anche perché di lei alla fine si perdono le tracce, autorizzandoci a sperare in un lieto fine. Aveva quindici anni nel 1911 e si era già distinta numerose volte a Napoli dove viveva travestita da ragazzo, perché voleva fare il barbiere, l’autista di automobili di piazza, la comparsa nei teatri di varietà in ruoli maschili. Fermata molte volte dalla polizia, studiata da medici e aspiranti tali, alla fine la ragazza decise di tentare un nuovo inizio a Roma, sostenuta – e questo è il dato più interessante – da una fitta rete di conoscenti che l’aiutarono, pur sapendola una travestita, a trovare alloggio e lavoro.

Cosa succedeva a queste persone perseguitate socialmente e giuridicamente? Ho letto dei suoi studi sull’internamento femminile. Si finiva nei manicomi per ciò che veniva intesa come ‘devianza sessuale’?
Potevano succedere tante cose diverse e ad essere influente per il destino di queste persone era anche il sistema di relazioni in cui erano immersi: alcuni finirono in manicomio, soprattutto quelli che non erano sostenuti dalle famiglie; altri, in maggioranza i maschi travestiti che avevano relazioni omosessuali, potevano finire in carcere; altri finirono al confino. Altri ancora sono sfuggiti alle maglie della ‘repressione’.

A gennaio il National Geographic ha fatto uscire una monografia sul tema ‘Gender Revolution’ e negli Stati Uniti la copertina è stata dedicata ad Avery Jackson, transgender di 9 anni. Cosa ne pensa?
Credo sia intanto necessario chiarire che la copertina con il giovane Avery è quella che compare sul fascicolo riservato agli abbonati, e la cosa non è irrilevante. In generale non amo le immagini dei bambini come spot delle cause. E’ anche vero che in questo caso il tema forte del numero è prevalentemente l’infanzia e l’adolescenza delle persone transgender e quindi la foto ha una funzione che non direi banalmente strumentale, ma anche esplicativa, che racconta una esistenza, una presenza. E lo fa con una foto che rappresenta un bambino molto fiero e coraggioso.

Quanto gli stereotipi di genere influenzano tutt’ora la nostra cultura?
Purtroppo direi tantissimo. Dalla prima infanzia all’età adulta siamo ancora sottoposti con forza a sollecitazioni continue che ci dicono cosa una vera donna o un vero uomo dovrebbe essere, che essenzializza i caratteri della mascolinità e femminilità, lasciandoci pochi margini di manovra per inventare liberamente noi stesse/i. Allo stesso tempo, non dobbiamo dimenticare che gli stereotipi di genere cristallizzano convinzioni relative a modelli, anche di relazioni, che si alimentano molto delle asimmetrie di potere e della discriminazione. Sono un danno, ovviamente, non solo culturale, ma sociale.

(Le foto, tratte dal libro “Il Gioco delle Parti”, sono state gentilmente concesse dall’autrice Laura Schettini)

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Una poesia, un disegno, un’amicizia.
Storie di ordinaria bellezza nella “banalità” del Male

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La Memoria va preservata affinché il passato possa diventare lezione presente e futura, e ci aiuti a “superare” certi fatti di cronaca che, purtroppo ancor oggi,raccontano l’odio inspiegabile verso un popolo, dimenticando, troppo spesso, che nei campi di sterminio il popolo ebraico ha segnato col sangue la via verso la pace e l’amore tra gli uomini. Il sacrificio non sarà stato consumato inutilmente se i figli capiranno che togliere la libertà e uccidere sono manifestazioni dei peggiori istinti umani. L’odio antisemita è un motivo conduttore del nazismo. Che cosa si nasconde dietro l’antisemitismo? Secondo lo scrittore tedesco Hesse l’odio contro gli ebrei è un complesso di inferiorità mascherato: rispetto al popolo molto vecchio e saggio degli ebrei, certi strati meno saggi di un’altro gruppo etnico sentirebbero nascere dalla concorrenza invidia e inferiorità umiliante.

Va custodita la Memoria della Shoah, e non solo il 27 gennaio, ma ogni giorno, senza dimenticare i figli, i nipoti di queste vittime, che vivono in mezzo a noi. Dobbiamo smuovere le coscienze affinché non solo la memoria di un passato in cui il mondo è tornato ad essere foresta di ombre e belve, ma anche la contemporaneità infinita dei tempi e dei destini, sia finalmente percepita. “Del male si può essere forzatamente vittime, ma non forzatamente autori”. La Shoah intende ammonirci e invitarci alla riflessione, divenendo il simbolo della tragica divaricazione che spesso si verifica tra le leggi della politica e della storia e le esigenze naturali della coscienza e della morale dei singoli individui, quando, come scrisse Goya, “il sonno della ragione genera mostri”.

Insieme alla Shoah vanno ricordati anche tutti coloro che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte e quanti, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio e, a rischio della propria vita, hanno protetto i perseguitati. Fra i Giusti è doveroso ricordare Giorgio Perlasca che a Budapest, fingendosi Console spagnolo, riuscì a salvare dallo sterminio nazista migliaia di ebrei ungheresi.

La politica nazista nei confronti dell’infanzia fu ancor più crudele e devastante che rispetto al resto della popolazione. I bambini erano i primi a dover essere eliminati. Purtroppo in guerra, i bambini sono le vittime più indifese della persecuzione e dello sterminio, come sta accadendo da alcuni anni anche in Siria. La guerra, la fame, ma soprattutto la distruzione fisica e psicologica sono i mali che da sempre gettano buio sul mondo.

Sono stati più di un milione e mezzo i bambini uccisi nei campi di sterminio nazisti. L’unica colpa era quella di essere ebrei! Ricordando l’assassinio di questi poveri innocenti, si evince in quale abisso il mondo possa precipitare quando a dominare oltre all’odio è l’indifferenza. Quindicimila furono i bambini “ospitati” nel campo-ghetto di Terezìn, situato a circa 60 km da Praga. In questo “speciale” campo di concentramento venivano raggruppati i bambini ebrei prima dello smistamento nei vari campi di sterminio. I sopravvissuti sono meno di un centinaio. La maggior parte dei bambini trovò la morte nelle camere a gas di Auschwitz.

Quattromila disegni e poesie sono stati recuperati in questo campo di Terezìn, dove i bambini, seppur in condizioni terribili, riuscivano a dare sfogo alla loro fantasia e spontaneità come risposta al progetto criminale nazista.

Dei 776 bambini ebrei italiani di età inferiore ai 14 anni che furono deportati ad Auschwitz, corre l’obbligo citare, tra i pochissimi sopravvissuti, Samuel Modiano (detto Sami) e Piero Terracina, diventati amici proprio nell’inferno di Auschwitz, dove avvenne anche l’incontro con Primo Levi, più grande di loro di circa dieci anni e morto suicida nel 1987.

Primo Levi è l’autore della più celebre testimonianza sulla “vita” nel campo di Auschwitz-Birkenau, “Se questo è un uomo”. “C’è acqua ad Auschwitz, ma non è potabile. Ci sono le docce, gelate, ma in alcune esce il gas…berretto su, berretto giù, correre alla zuppa, andare alla latrina. Andare a morire correndo”.
L’immensa sofferenza di tante crudeltà è conservata nelle parole di questi testimoni che hanno avuto il coraggio di condividere le terribili esperienze attraverso la scrittura. Descrivere l’indescrivibile affinché tutti sappiano e tutti si chiedano “perché?”.

Scrive Modiano:”Quel giorno ho perso la mia innocenza. Quella mattina mi ero svegliato come un bambino: la notte mi addormentai come un ebreo”. Questa frase si riferisce alla promulgazione delle leggi razziali: frequentava la terza elementare e si vide espulso in quanto ebreo. Per molti anni, da sopravvissuto, Modiano è rimasto in silenzio. In che modo dar voce al dolore di un’adolescenza bruciata, di una famiglia dissolta, di un’intera comunità spazzata via? Nato a Rodi,un’isola nella quale ebrei, cristiani e musulmani convivono pacificamente da secoli, Modiano non conosce la lingua dell’odio e della discriminazione. Ma all’indomani delle leggi razziali,all’improvviso si trova bollato come “diverso”.

Piero Terracina:”Ci misero in sessantaquattro in un vagone. Fu un viaggio allucinante, tutti piangevano, i lamenti dei bambini si sentivano da fuori, ma nelle stazioni nessuno poteva intervenire, sarebbe bastato uno sguardo di pietà. Le SS sorvegliavano il convoglio. Viaggiavamo nei nostri escrementi: Fossoli, Monaco di Baviera, Birkenau-Auschwitz”.

Degli otto componenti della sua famiglia, Terracina sarà l’unico a fare ritorno. “Dove sono i miei genitori? chiesi a un altro sventurato nel campo di Auschwitz-Birkenau. E lui rispose: Vedi quel fumo del camino? Sono già usciti da lì”.

(Le opere di Laura Rossi sono tratte dalla Collezione ‘Shoah’, 1984)

Scopriamo il Target 2 e il surplus commerciale.
Le pretese di Draghi e l’opinione dell’economista Giovanni Zibordi

Il sistema Target 2 è quel sistema che registra i pagamenti tra le banche commerciali e le rispettive banche centrali dei vari paesi dell’eurozona, pagamenti garantiti dalla Banca Centrale Europea che supervisiona. Sostituisce il vecchio Target dal 2007. Quindi immaginiamo una piramide alla cui base ci sono le banche commerciali, poi le banche centrali dei vari paesi aderenti ed infine la Bce. Le banche centrali operano attraverso le riserve, cioè i conti corrente delle banche commerciali accreditati presso di loro. Ogni banca ha un conto corrente presso una Banca Centrale, come i cittadini ne hanno uno presso la loro banca. La differenza è che i conti corrente delle banche presso le Banche Centrali si chiamano riserve. Le riserve possono essere manipolate dalle Banche Centrali, cioè aumentate o diminuite per determinati motivi. Nel 2008 la Fed aumentò le riserve dell’Aig di 130 miliardi, schiacciando un tasto e senza toccare i soldi dei contribuenti, per salvarla dal default.
Altro concetto importante è che le Banche Centrali non possono finire i soldi (su questo rimando alle dichiarazioni di Draghi in un mio precedente articolo: leggi).

In sintesi il Target 2 funziona così: se acquistiamo un paio di scarpe prodotte in Germania il corrispettivo passa da una banca italiana a una banca tedesca. L’operazione viene registrata ai sensi appunto del Target 2, di conseguenza la registrazione certifica una fuoruscita di soldi dall’Italia verso la Germania e le riserve delle Banche Centrali dei due Paesi vengono diminuite o aumentate.
Ma cosa succede se l’Italia compra troppe scarpe dalla Germania e nessuno compra, invece, i calzini che noi produciamo? Che cominciamo ad avere problemi di liquidità e per continuare a comprare scarpe in Germania, ma anche prodotti in altre parti del mondo, una Banca Centrale ci deve mettere a disposizione della liquidità oppure, nel nostro sistema monetario, bisogna trovarla sui mercati ai prezzi correnti.
Fino al 2008 la liquidità veniva trovata attraverso la vendita dei btp, poi la crisi del 2008 ha cambiato un po’ le percezioni degli investitori e fino al 2011 si sono fermati gli acquisti, per cui questa liquidità ha cominciato a essere automaticamente fornita dai paesi in surplus, come la Germania e l’Olanda, senza che questi potessero rifiutarsi. A quella data questi paesi vantavano crediti Target 2 per circa 1.000 miliardi di euro.
Il Target 2 prevede l’intervento automatico della Banca Centrale del Paese in surplus commerciale, nel nostro caso la Bundesbank, e quindi che la Germania finanzi gli altrui deficit, cioè fornisca liquidità per poter continuare a comprare eventualmente le loro stesse scarpe, ma anche le macchine giapponesi e le noccioline americane.

Teniamo sempre presente che l’economia reale, mentre le Banche Centrali sviluppano questi conti e aumentano o diminuiscono riserve, continua a vivere indipendentemente: chi deve ricevere, riceve i suoi crediti e chi deve pagare, paga i suoi debiti. Quindi il Target 2 procede sulla sua strada e l’economia monetaria gira, o piuttosto si è bloccata proprio quella dei Paesi a cui è stata imposta l’austerità (espansiva) per rimettere a posto queste benedette riserve.
È importante comprendere quindi che la liquidità agli utenti viene fornita e l’azienda che ha effettivamente venduto incassa il suo credito nella sua banca, mentre chi ha comprato effettivamente si vede scalare quella cifra dal suo conto. Questo perché le Banche Centrali hanno fornito la credibilità necessaria all’operazione attraverso aumento e diminuzione delle riserve detenute.
Del resto, mi chiedo, come potrebbe essere diversamente? Se si uniscono Paesi con differenti capacità produttive, competitive, tecnologiche e quant’altro, bisognerebbe accettare anche di compensare gli squilibri esistenti. Non si può fare un’unione monetaria con il Burkina Faso e pretendere che produca quanto produciamo noi, sia competitivo e presente sul mercato mondiale, senza che nemmeno abbia le infrastrutture o il Know how per poterlo fare. Se facciamo questa unione la portiamo a termine accettando dall’inizio di dover sacrificare qualcosa a meno che non lo facciamo solo per sfruttare lo sfruttabile e poi buttare il resto a mare.
Rifiutarsi di fornire liquidità ai Paesi aderenti che ne hanno necessità, dopo che questi hanno rinunciato alla possibilità di creare liquidità sul mercato dei cambi o attraverso le operazioni della propria Banca Centrale, avrebbe significato far saltare l’euro con largo anticipo rispetto a quando salterà sul serio. Il fatto che si creino squilibri, come spiegato sopra, è del tutto naturale e non è attribuibile a nessuno, tantomeno ai paesi più deboli della catena. È uno squilibrio insito nelle differenze esistenti fra paesi diversi e risolvibile solo con una unione politica in cui sia ovvio che ognuno aiuti l’altro, insomma un sistema cooperativo e collaborativo, federale, tipo tra gli stati degli Stati Uniti, per capirsi.

Invece gli Stati ‘forti’ dell’eurozona hanno imposto dal 2011 l’austerità con tutte le conseguenze del caso agli stati ‘deboli’, altro che condivisione. Il senso è stato: non vogliamo rischiare di perdere crediti. Questo dimostra anche che, oltre alla diffidenza che male si addice a una eventuale idea di unione politica, il problema è sempre più del creditore che del debitore, in particolare quando le cifre sono consistenti.

Vediamo cosa ne pensa Giovanni Zibordi, economista e sicuramente uno dei migliori conoscitori del funzionamento di mercati finanziari e contabilità bancarie che abbiamo in Italia.

zibordi
Giovanni Zibordi

Questi crediti da una parte e debiti dall’altra sono soldi veri e vanno compensati come dice Draghi?
In realtà non si tratta di soldi come molti di noi sono abituati a pensare, si tratta di riserve presso la Banca Centrale Europea e presso le Banche Centrali dei vari Paesi. E le riserve gestite dalle banche centrali funzionano in maniera diversa rispetto alle transazioni che avvengono tra banche commerciali. Il Target 2 è una convenzione contabile, si registrano delle transazioni, ma non producono crediti esigibili, sono ‘soldi’ che vengono spostati da una Banca Centrale all’altra e tra Banche Centrali ci si fida. In più non esiste un termine per l’eventuale saldo, è come ricevere un mutuo senza scadenza e senza garanzia. Sono operazioni che servono per far funzionare il sistema soprattutto in virtù del fatto che non esiste più il mercato dei cambi e non abbiamo più le monete nazionali né una banca centrale che può fare in autonomo determinate operazioni.
Inoltre, le Banche Centrali sono degli Istituti che possono operare in negativo e letteralmente creano il denaro che viene usato poi nell’economia e quindi possono aumentare o diminuire le riserve delle banche commerciali. Una perdita di 356 miliardi di euro non rappresenta un problema per loro perché è solo una questione contabile e nessuna azienda o ditta tedesca fallirà per questo. Il buco è solo ed eventualmente a livello banca centrale.
Certo il discorso non piace ai tedeschi che vorrebbero moneta sonante, a loro piace pensare di avere dei crediti che qualcuno deve pagare, ma questo è un problema loro. Pensano di avere una perdita, ma in questo caso se una perdita esiste, la perdita è della Germania e non c’è nessun obbligo di ripagare quella perdita. Perché si è creata nell’ambito di accordi specifici presi quando il gioco è iniziato e nessuna persona sana di mente pretenderebbe una cosa del genere.
Draghi dice due cose sbagliate: la prima è che si tratta di una perdita reale e la seconda che ricade sull’Italia. In realtà dice ciò che probabilmente e politicamente piace alla Germania, cioè che quei debiti andrebbero ripagati, ma ha dimenticato di aggiungere “anche se nessuno può obbligarli a farlo”.
Del resto parliamo di una persona che ha affondato Monte dei Paschi spingendola a comprare Antonveneta a 13 miliardi quando ne valeva 3, ha spinto l’Italia a fare dei derivati sui tassi di interesse 12 o 13 anni fa per i quali ogni anno si pagano 4 o 5 miliardi di interessi.

Una annotazione per finire è d’obbligo: fanno parte del Target 2 anche sei Paesi che non sono nell’eurozona (Danimarca, Bulgaria, Polonia, Lituania e Romania). Se noi prima di uscire dobbiamo rimettere a posto le riserve della Bundesbank, questi che limiti temporali di pagamento hanno? E con quale valuta?

Per salvare il lavoro martirizzato dalla tecnologia (e dal capitale) bisogna convertirsi

Possiamo tranquillamente scommettere sul fatto che, in pochi anni, almeno la metà dei lavori che oggi consideriamo normali saranno spariti, diventati inutili o sostituiti da processi automatizzati e da macchine. L’intero percorso della modernità può essere visto come un grande processo di sostituzione di modalità di lavoro, che ha spostato milioni di persone dal lavoro agricolo a quello industriale prima e da quello industriale a quello del terziario poi. In un certo senso la tecnologia alimentata da una costante ricerca scientifica e affiancata da grandi miglioramenti nell’organizzazione delle catene di produzione, ha trasformato milioni di lavoratori spostandoli dall’uso diretto delle mani e della forza del corpo verso attività caratterizzate da una sempre più forte componente intellettuale.

Oggi, mentre i computer stanno velocemente sostituendo anche questo tipo di attività, ci si chiede se esista un altro settore dove spostare le persone in cerca di lavoro. E ci si domanda giustamente quale sia il futuro del lavoro e dell’occupazione per milioni di persone che proprio sul lavoro hanno costruito la loro identità e hanno ipotecato il loro presente e il loro futuro. Le trasformazioni economiche e culturali degli ultimi decenni hanno spinto il lavoro al margine della riflessione politica, facendolo diventare residuale rispetto alla finanza e al capitale, all’efficienza dei mercati, alla flessibilità, alle borse, alla crescita. In caso di conflitto ad essere sacrificato è sempre il lavoro o, meglio i diritti a esso associati; mai il (grande) capitale, raramente la (grande) rendita. Anche il pubblico dei media sembra assai più interessato all’andamento degli indici finanziari che alle oscillazioni del tasso di occupazione. Eppure è ancora il lavoro che garantisce alle famiglie la capacità di spesa indispensabile ad alimentare il consumo che traina l’economia. E’ il lavoro che garantisce alla stragrande maggioranza delle persone di strutturare la propria identità e dare senso compiuto all’esistenza. Ed è ancora il lavoro che sta alla base della nostra Costituzione.

Certo, in un nuovo ambiente dominato dalla produzione automatizzata di beni e servizi, è lecito supporre che il lavoro, così come abbiamo imparato a conoscerlo nel secolo scorso, sarà destinato a modificarsi radicalmente. Forse, come molti auspicano, le persone avranno diritto a un reddito di cittadinanza universale e la vera sfida sarà, per le future generazioni, quella di inventare modi creativi e generativi di usare il tempo e le risorse disponibili. Forse gli unici lavori indispensabili saranno quelli connessi allo sviluppo dei diversi settori della ricerca scientifica. O forse, in un mondo che ha risolto il problema delle produzioni e della equa allocazione dei beni essenziali, l’unico lavoro sarà quello relazionale, mentre quella che oggi chiamiamo genericamente spiritualità diventerà la frontiera da esplorare nella ricerca di senso e felicità. In attesa di un nuovo quanto urgente modello economico adeguato a una società allo stato nascente, ma che rischia di implodere sotto il peso delle sue stesse scoperte e del suo passato successo, per ora e nei prossimi anni, l’esigenza del lavoro resta fondamentale. E con essa la sfida di produrre milioni di nuovi posti che possano garantire una transizione più morbida verso una realtà di cui ancora non si intravvedono le forme e i confini. Si tratta di una sfida che, se sottovalutata e persa, rischia di portare alla fine della civiltà che conosciamo: le guerre attuali, le migrazioni bibliche, la scandalosa ripartizione delle ricchezze, l’ampia diffusione del malcontento e della infelicità nel bel mezzo dell’abbondanza materiale, sono chiari indici di una tendenza in atto che potrebbe portare velocemente al collasso.

La grande emergenza – che non è solo economica ma anche sociale, culturale e antropologica – va innanzitutto riconosciuta come tale e quindi va affrontata con mezzi straordinari: così fece Roosevelt nel 1933 lanciando il New Deal per superare i disastri sociali causati dalla crisi del 1929. Non saranno infatti la finanza, né i burocrati europei, né il mercato abbandonato a se stesso, a risolvere magicamente questi problemi; in questo mercato squilibrato giocano infatti troppi attori incappucciati (come affermava Federico Caffè), soggetti troppo grandi per fallire, lobby troppo potenti, automatismi impersonali troppo complicati, interessi di parte troppo radicati. Per vincere questa sfida serve ancora una politica che sia capace di proporre leggi e costruire alternative possibili, che si fondino su strategie ad alta intensità di lavoro, assolutamente non assistenzialiste, ma adatte a fronteggiare la disoccupazione, strategie che si affianchino ed usino anche i meccanismi del ‘normale’ mercato che non appare, in questo specifico momento, capace di garantire automaticamente l’equilibrio e l’equità.

Le possibilità in Italia di creare lavoro in questo modo sono straordinariamente alte e connesse a bisogni assolutamente prioritari: la messa in sicurezza del territorio, il recupero dei beni architettonici compromessi dall’incuria e dalle catastrofi naturali, la riqualificazione del patrimonio scolastico disastrato, la riconversione delle zone sfregiate dalla cementificazione e dalla speculazione edilizia, il recupero delle zone agricole di pregio e delle antiche colture, la pulizia dell’ambiente. Un impresa titanica ad alta intensità di lavoro finalizzata a ricostruire quei beni comuni dissipati dagli automatismi della modernità e del capitalismo imperante che sono invece il fondamento della società e dell’economia. Ma per avviare questo nuovo corso servono nuove organizzazioni efficienti, agenzie trasparenti e istituzioni snelle, leaders capaci ed operatori integerrimi, proprio quel tipo di persone che in Italia sembrano scarseggiare e che spesso sono state messe da parte da una politica clientelare superficiale e corrotta. Servono piani e progetti che si fondino sulla assoluta unicità culturale ed antropologica e sulle profonde differenze regionali che caratterizzano l’Italia.

Serve una profonda capacità di anticipare il futuro per individuare chiaramente quali saranno i settori sui quali investire. Servono politici visionari, con la statura degli statisti, capaci di guardare davvero al futuro e non alle prossime scadenze elettorali. E servirebbe un’ Europa all’altezza, capace finalmente di mostrare con i fatti di essere stata la più grande invenzione politica, sociale, civile ed economica degli ultimi due secoli. Servono a tutti nuovi occhi per guardare i problemi e vedere in essi nuove opportunità; bisogna liberare la creatività e la voglia di fare che, malgrado tutto, sono ancora parte del patrimonio e della cultura degli italiani.

Biennale Franco Patruno, vincono Luca Serio e Gianfranco Mazza. La mostra dei due artisti a Palazzo Turchi di Bagno

di Linda Ceola

biennale

Quattro grandi tele nere sospese, abitate da figure umane evanescenti, occupano la sala all’ingresso di Palazzo Turchi di Bagno. Un girotondo di composizioni grafiche circonda l’eterea installazione avviando un dialogo tra figurativo e astratto. La pittura di Luca Serio e le forme di Gianfranco Mazza si confronteranno presso la sede del Sistema Museale di Ateneo di Ferrara fino al 5 febbraio. Sono i vincitori della “Biennale Don Franco Patruno” che sceglie di premiare a pari merito i due artisti, provenienti dall’ambito accademico bolognese. “E’ molto importante per l’ateneo di Ferrara, che per vocazione si occupa di ricerca, ospitare due giovani artisti e gli esiti delle loro indagini” ha sottolineato Ursula Thun Hohenstein, presidente dello SMA (Sistema Museale di Ateneo) venerdì pomeriggio inaugurando l’esposizione che è l’ultima tappa per i vincitori della prima edizione 2015 del premio dedicato all’uomo di cultura e di fede ferrarese.

Don Franco Patruno
Don Franco Patruno

Questa Biennale, bandita in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Cento, è infatti un omaggio alla celebre figura poliedrica di Franco Patruno, indimenticato sacerdote, insegnante, artista e critico d’arte, scomparso nel 2007; protagonista per oltre vent’anni della vita artistica e culturale della città, nonché direttore di Casa Cini.
“Questa casa, Giorgio Cini, dedicata alla cultura e alla gioventù ferrarese è vivente e operante testimonianza di paterno e filiale amore”: recita così l’epigrafe collocata in cima allo scalone d’onore di Casa Cini, gestita da Don Franco Patruno dal 1984 al 2005. Tutto ebbe inizio dal progetto del conte Vittorio Cini: nel 1950 decise di dare vita ad un vivace centro culturale, teso alla formazione educativa e morale dei giovani, che prese il nome di suo figlio, Giorgio, vittima di un incidente aereo.
Grazie alla sua formazione eclettica, Don Patruno rese perfettamente merito all’idea originaria suggellata nell’epigrafe e Casa Cini diventò un magnifico centro culturale polivalente, che vide l’alternarsi della presenza di alcune delle intelligenze più vivaci della città.
Gli strascichi di questa robusta energia continuano a illuminare Ferrara grazie all’omonima Biennale d’Arte, che quest’anno cade nel decimo anniversario della morte di Don Franco Patruno e che si rivolge, come poche in Italia, ai soli giovani under 30 come Luca Serio e Gianfranco Mazza.

Opera di Luca Serio
Opera di Gianfranco Mazza

Luca Serio focalizza fin da subito i propri lavori sulla figura umana. Presenta per l’occasione quattro leggerissime tele nere che si librano nello spazio, solo una trova corrispondenza dalla parte opposta della sala: l’unica tela che vede un uomo e una donna timidamente insieme. La loro unione porterà all’immagine antistante, raffigurante una scena di impalpabile maternità, che attraverso il colore dirompe. Le altre pitture sospese vedono due figure di genere opposto, velatamente scultoree, che immerse nella loro solitudine non trovano corrispondenza alcuna. A completare il lavoro di Luca Serio vi sono una serie di carte materiche nelle quali la figura umana viene sensualmente violata, indagata, saccheggiata.
Gianfranco Mazza, invece, fortemente affascinato dal minimalismo americano degli anni Sessanta del Novecento, utilizza il legno per dare vita a moduli geometrici isolati che, collocati sulle pareti di Palazzo Turchi di Bagno, sembrano note su un pentagramma. Le forme elementari di Mazza simulano dei solidi che – dimessi – si proiettano nello spazio. A dare vita a queste sagome non è solo il gioco ottico dato dal taglio delle tavole, bensì anche il materiale di composizione dell’artista: il legno ricco di ‘vitalità’.

“Sono due artisti diversi, emblematici di due modi di intendere la pittura opposti”, ha affermato venerdì Massimo Marchetti, curatore nonché giudice dei lavori presentati alla Biennale. “Da un lato abbiamo una situazione quasi edenica, in cui l’unione di un Adamo e una Eva porta a una calda maternità”, continua il critico d’arte, “dall’altro abbiamo le fantasie geometriche di Gianfranco Mazza che irrompono nella sala”.
Il premio, attribuito ex-aequo, ai due giovani bolognesi dimostra dunque la volontà di approfondire la complementarietà di figurazione e astrazione, valorizzandole equamente.
Non resta che far visita all’esposizione presso Palazzo Turchi di Bagno per poter giudicare con i propri occhi il lavoro di questi piccoli grandi artisti.

Don Franco Patruno: una vita al servizio di Verità e Libertà

di Franco Cardini*

Pasqua-Patruno
Un’opera di don Franco Patruno

Non sapevo tutte queste cose, o non ne sapevo abbastanza, o le sapevo male, quando una trentina d’anni fa e forse qualcosa di più, nella “mia” Ferrara – che amavo da quando l’avevo scoperta adolescente visitando il Castello e Schifanoia; da quando l’avevo visitata studente universitario amando e leggendo i versi dell’Ariosto e del Tasso e le storie di Bacchelli e di Bassani: e infine da quando, nel ’67, vi avevo risieduto lunghi mesi espletando il mio servizio militare come sottotenente d’aeronautica – conobbi don Franco e da allora spesso tornai a visitarlo in Casa Cini o indugiai al suo fianco, per le belle strade volute da Ercole d’Este e qualche volta in auto con amici, per la campagna circostante, magari in cerca di qualche salama da sugo da gustare insieme. Dovrei e vorrei ricordare insieme con Franco, accanto a Franco, tanti amici ferraresi che hanno condiviso quei momenti che ormai cominciano ad avvicinarsi nel tempo ma che restano vivi e presenti nella memoria. Si discuteva di tutto: di storia e di cinema, di arte e di letteratura, di Girolamo Savonarola e di Italo Balbo, magari incontrando talvolta personaggi come Vittorio Sgarbi o Roberto Pazzi e talvolta i tanti amici valorosissimi dell’Università ferrarese alla quale, senza avervi mai insegnato, sono peraltro legatissimo da anni di ricerche comuni e di una serrata attività congressuale. Dovrei elencare molti nomi, alcuni dei quali anche illustri: e certamente ne dimenticherei qualcuno. Preferisco quindi accumunarli tutti in un grazie profondo e sincero: sono tutti parte di quella che davvero è stata, per me e per molti anni, una bella stagione.
Ma stati di grazie del genere sono molto rari: e, quando si presentano, ciò accade perché v’è sempre un fulcro, un centro propulsore e animatore, una presenza che qualifica e che fornisce un senso preciso a esperienze che, altrimenti, resterebbero volatili e disorganiche.
Don Franco credeva nell’arte e nella cultura: credeva nella possibilità di coltivarle, d’incentivarle, di farle amare. Ma soprattutto credeva nella libertà. Una libertà sinceramente e rigorosamente vissuta, nel nome della quale nulla e nessuno doveva mai, secondo lui, venir disprezzato o messo in disparte. Don Franco era coltissimo e sapeva di esserlo, ma proprio per questo non si comportava mai come chi ritiene di aver la verità in tasca o chi vuol far trionfare a tutti i costi il suo punto di vista.
Ѐ per tale motivo che questo prete sempre allegro e sorridente anche nella lunga e pesante malattia, questo critico d’arte che non riteneva alcuna forma d’arte estranea, aliena o indegna d’attenzione, quest’uomo che credeva sempre anzitutto l’umanità in chiunque lo avvicinasse o fosse da lui avvicinato senza badar al sesso, all’età, alla confessione religiosa, alle convenzioni politiche, finiva col far paura e col suscitare anche inimicizie. Era opinion maker ascoltato e rispettato, scriveva articoli e saggi su organi di stampa prestigiosi: eppure dava sempre l’impressione di restar un marginale non sempre valorizzato e – soprattutto – tollerato a fatica.
Era un uomo pericoloso, uno che faceva paura.
Sì, perché ogni uomo ha un prezzo: e quello di don Franco era vertiginoso. C’è chi si vende per denaro, chi per vanità, chi per amore d’un uomo o d’una donna, chi per vendicarsi di qualcosa. Don Franco Patruno era un venduto alla Verità e alla Libertà: e non esiste prezzo che avrebbe potuto mai riscattarlo dal servizio di quelle due potentissime ed esigentissime signore.
Ѐ difficile rimpiangerlo, perché è quasi impossibile non sentirlo ancora fra noi.
Ma ora che fisicamente non c’è più la sua e “mia” città, d’inverno, mi sembra più nebbiosa, il suo sole d’estate più rovente, le sue zanzare notturne più crudeli, la salama meno saporita, il panpepato meno dolce, gli affreschi astrologici di Schifanoia meno luminosi. Don Franco è stato un’epoca della città di Ferrara e della chiesa di Ferrara. Non sempre, lui vivente, esse hanno dato prova di esser consce del tesoro che egli rappresentava per loro. Ora ch’è sopravvenuto il tempo del ricordo, auguriamoci ch’esso non venga meno.

Franco Cardini
Franco Cardini

*da Franco Patruno, Sugerio e san Bernardo: una polemica teologica ed estetica. Per una storia dell’estetica benedettina, 2010
Franco Cardini è professore ordinario di Storia medievale presso l’Università di Firenze e professore emerito dell’Istituto Italiano di Scienze Umane alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Come giornalista collabora alle pagine culturali di vari quotidiani.

Le mille e una perplessità finanziarie
oltre la nebbia di complottismi e tecnicismi

In rete gira una voce attribuita al miliardario Jacob Rothschild, uno che per posizione e tradizione familiare si suppone la sappia piuttosto lunga in tema di finanza e di potere globale: “Il mondo vive il più grande esperimento di politica monetaria della storia”: un esperimento del quale non si sa quali potranno essere le conseguenze posto che “oggi ci troviamo in acque totalmente inesplorate”.

E’ sempre difficile esprimere considerazioni e giudizi quando si parla di finanza ed è arduo rimanere ancorati a qualche fatto concreto che pure potrebbe essere trovato se solo si selezionassero con molto discernimento le informazioni disponibili. Questo è invece il vero territorio del cosiddetto complottismo (termine sul quale bisognerebbe riflettere seriamente) e terreno di cultura delle ipotesi e delle teorie più fantasiose. Ed è proprio questo proliferare di discorsi e narrazioni sotterranee, che strisciano al di fuori del pensiero ufficiale, che rende ancora più difficile argomentare seriamente su un tema che diventa sempre più inquietante man mano che passa il tempo.
La celebrazione ufficiale e quotidiana della finanza ci presenta una realtà descritta con un proprio linguaggio – una neolingua – fatta di termini tecnici che i media diffondono a piene mani, che il pubblico orecchia, ma che solitamente non comprende: il glossario on line del Sole24Ore ad esempio, riporta centinaia di termini – la maggioranza, ovviamente, in inglese – che costituiscono un alfabeto alieno per i neofiti. Si va da ‘acid test’ e ‘advisor’ a ‘zero coupon bond’ passando per i vari ‘equity’, ‘junk bond’, ‘opa’, ‘takeover’, ‘trading’. E senza dimenticare ‘call, ‘warrant’, ‘blue chips’,’bond’, ‘Basilea2’, ‘hedge found’, ‘offshore’, con qualche concessione agli italianissimi e classici ‘aggiotaggio’, ‘tasso di interesse’, ‘manleva’, ‘sottostante’ e, udite udite, ‘speculazione’. Il possesso di questo linguaggio è il meccanismo attraverso il quale gli esperti e i professionisti ridotti a meri ruoli tecnici si riconoscono e si riproducono.
Contro questo muro di tecnicismi si schianta ogni tentativo di comprensione da parte dei non addetti ai lavori. Eppure, anche la finanza è un prodotto della creatività e dell’attività umana, che può e deve essere analizzato con le procedure intersoggettive trasparenti (o se si preferisce: scientifiche) di discipline quali la sociologia e l’antropologia e che, inoltre, deve essere sottoposta al vaglio di una razionalità discorsiva pubblica e non solo decisa nell’ambito di una razionalità esclusivamente tecnica.

Malgrado i tecnicismi, che la rendono impenetrabile ai più, la finanza appare però anche con un volto molto semplice ed accattivante: tutti sono in grado di capire se un indice relativo ad un prodotto finanziario sale o scende, guadagna o perde; e le azioni da compiere in questo mondo si riducono in fondo a due: comperare o vendere al momento giusto. Ciò che tutti capiscono fin troppo bene è che la salute dell’economia dipende dal comportamento dei numeri che stanno dietro a quei nomi, che povertà e ricchezza delle nazioni e delle famiglie sono determinati in buona parte dagli output generati da quel sistema che, dietro l’apparente semplicità che appare in superficie, si mostra quantomai opaco e poco trasparente; un sistema che si illustra quotidianamente attraverso grafici e statistiche digitali, che è mediato dalle parole di qualche ineffabile esperto, che è associato alle trame della speculazione (alzi la mano chi non ha mai sentito parlare di Soros), che è sempre ricondotto alla domanda delle domande che sembra assillare tutti, fino a condizionare pesantemente le scelte dei governi: a fronte di una decisione o di un evento, come reagiranno i mercati?

Eppure nel sistema finanziario globale lavorano centinaia di migliaia di persone che danno il loro piccolo o grande contributo a prescindere dai risultati e dalle conseguenze attese e inattese generate dal sistema. Il modesto cassiere di banca, il direttore della filiale sotto casa, l’assicuratore, il consulente finanziario e assicurativo con cui facciamo l’aperitivo, il banker, il trader, il quant, il broker (termini che fanno parte dello slang della city), il Ceo della grande banca, i manager e i dirigenti del FMI e della BCE, gli esperti delle agenzie di rating, gli avvocati specializzati non meno dei grandi speculatori fanno porte di questa grande industria finanziaria altamente interconnessa.
E inoltre informatici, matematici e fisici che in gran numero sono stati assunti per inventare gli algoritmi di calcolo che consentono di generare complicatissimi prodotti finanziarie e, minimizzando i tempi delle transazioni, permettono di estrarre profitti speculando sulle diverse piazze mondiali giocando sul filo dei millesimi di secondo.
Anche su molti di questi lavoratori cade la scure del licenziamento, in alto per l’alto rischio insito nel gioco, in basso sia per gli effetti dell’automazione che elimina posti di lavoro, sia per le strategie aziendali di taglio del personale che caratterizzano anche le imprese del settore finanziario (per massimizzare il valore in borsa nel breve periodo).

Non va dimenticato infatti che nel sistema agiscono soprattutto grandi capitali e imprese private (come banche ed assicurazioni) il cui scopo è appunto quello di massimizzare il profitto, ma agiscono anche centinaia di milioni di risparmiatori diventati piccoli speculatori e spinti. non di rado, da una insana avidità. Ma nella grande industria finanziaria che rappresenta il lato più avanzato (e impersonale) della globalizzazione agiscono attori, oltre le banche, che il pubblico ignora e con i quali molti di noi hanno rapporti ben più stretti di quel che sembra. Fondi pensione, assicurazioni, fondi comuni di investimento, casse previdenziali, venture capital, private equity per non citare che i più noti.
Molti di essi sono troppo grandi per fallire, un modo piuttosto viscido per dire che non sono controllabili né dai meccanismi di mercato, né da regole legali (sempre aggirabili), né tantomeno da procedure democratiche.

Nessuno dei soggetti che dirige l’industria finanziaria che può imporre le proprie scelte ai governi legalmente eletti è stato mai eletto, nessuno di loro risponde dunque agli elettori; nessuna procedura democratica trova facilmente posto (e dignità) nell’industria finanziaria che conta. Grandi e piccoli manager del circo finanziario rispondono invece ai livelli gerarchici superiori e, soprattutto, ai grandi azionisti che detengono la proprietà delle organizzazioni finanziarie. E rispondono senz’altro ai codici culturali che nel mondo finanziario sono assai forti: chiusura verso l’esterno, discrezione, riservatezza, competizione, difesa del clan; un codice che – nella city londinese – è stato ricostruito e presentato da Joris Luyendijk sul blog del Guardian; un codice dove la reputazione è essenziale ma che alimenta spesso un clima di paura, una cultura tossica, che si sposa con l’amoralità che accompagna (quasi) sempre il trionfo del tecnicismo autoreferente. Un quadro rappresentato dal cinema (chi non ricorda il banchiere d’assalto Gordon Gekko del film Wall Street?) ma suffragato da (pochissime) indagini antropologiche, etnografiche e sociologiche.

Riassumiamo. Se la finanza è la disciplina attraverso cui si gestiscono i flussi finanziari, il sistema all’interno del quale questi flussi scorrono è straordinariamente complesso ed in esso la tecnologia digitale gioca un ruolo sempre più forte; è tuttavia un sistema sociale istituzionalizzato fatto di organizzazioni, norme, persone. Al suo interno esistono meccanismi incentivanti e un cultura specifica che indirizza i comportamenti delle persone che decidono orientandolo verso pratiche volte alla massimizzazione del profitto a breve termine. Nel sistema agiscono attori così grandi e forti che non debbono temere più di tanto le conseguenze del loro agire mentre le lobby che li rappresentano sono in grado di influenzare pesantemente la produzione di leggi e normative, comprese quelle che ne dovrebbero regolare i comportamenti. Anche gli Stati sono obbligati a rispondere a regole dettate da questo sistema e sono addirittura valutati dalle agenzie di rating che ne sanciscono efficienza ed affidabilità. La velocità con cui tutto questo si muove è l’esatto contrario delle lente procedure democratiche utilizzate dai governi; infine, non esiste una diffusa consapevolezza pubblica di come sia strutturato e funzioni questo sistema, di chi ne detenga il potere, di come venga prodotto e gestito il flusso di denaro, mancando in tal modo qualsiasi forma di controllo democratico dal basso.

Sembra che oggi tutto questo complicatissimo meccanismo sia sfuggito non solo al controllo dei politici eletti ma anche dei potenti stessi che lo hanno voluto e gestito e si stia indirizzando verso direzioni che nessuno riesce più a prevedere; sembra che la crisi non abbia insegnato nulla se non che le perdite continueranno a riversarsi sugli Stati e sui cittadini. Dunque, ancora una volta la domanda è: che fare? Una domanda che, si suppone, i decisori del sistema finanziario si saranno posti più di una volta e che i politici seri dovrebbero porsi ogni giorno. A meno che, come sostengono i cosiddetti complottisti – e lo diciamo cercando di usare un certo sense of humor – tutto questo non corrisponda ad un piano (!) ben preciso. A meno che, come sosteneva con tutt’altra legittimità Luciano Gallino, non ci sia passato sotto il naso un colpo di stato silenzioso ordito da banche e governi a danno dei cittadini lavoratori e della democrazia.

Burocrazia e apocalisse

di Vincenzo Masini

Postmoderno e web society
L’ipotesi di interpretazione della fase storica attuale è che la fine dell’epoca moderna (le scoperte geografiche nel pianeta, la nascita degli stati moderni, le rivoluzioni industriali, la nascita delle multinazionali e la globalizzazione) si eliciti in nuove formazioni sociali ed organizzative rese possibili dalle nuove forme di connessione comunicativa dell’informatica.
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Ciò significa che possiamo far transitare nella nuova epoca e nei nuovi modelli di relazione il buono o il cattivo che è stato prodotto dall’epoca moderna.
Dal mio punto di vista il BUONO sono i valori su cui sono state costruite le democrazie e il CATTIVO sono i limiti ed i difetti delle democrazie stesse.
Per BUONO intendo i sette (1) principali valori su cui tutti concordiamo (responsabilità, impegno per la giustizia, libertà, generosità, pace, uguaglianza e fedeltà).
Per CATTIVO intendo il principale strumento utilizzato dai diversi poteri per impedire la realizzazione di tali valori e cioè la burocrazia.
Questa espressione va letta destrutturando il fatalismo con cui ad essa ci arrendiamo per interpretarla invece come una vera e propria struttura artatamente costruita contro la realizzazione del BENE per l’uomo e ipocritamente mascherata come esigenza. Intendo cioè dire che l’umanità può fare a meno della burocrazia, anzi DEVE impedire che il suo contagio entri nella nuova web society (2).

Web society, valori e nativi digitali
La trasmissione culturale dei valori relazionali prodotti in epoca moderna verso le nuove generazioni di nativi digitali è fortemente compromessa dal relativismo culturale che è cresciuto all’ombra del “politicamente corretto” e cioè l’accettazione della trasgressione come strumento di liberazione delle istanze emozionali individualistiche mascherate sotto le forme ipocrite dei “movimenti di liberazione” delle minoranze dall’oppressione della “maggioranza conservatrice e oppressiva”.
L’epistemologia della tolleranza non può confondere l’accettazione con il proselitismo prepotente che installa la sua logica nelle nuove generazioni impedendo loro di reinterpretare e rivitalizzare, con nuove logiche, i valori prodotti nella modernità attraverso i pruriti di vecchie e nuove forme trasgressive (3).
Anche in questo caso la contaminazione burocratica è la principale causa della caduta della trasmissione culturale perché confondendo la legalità con la giustizia impedisce la formazione del sentimento di valore nell’intimo della coscienza della persona che delega e si affida alle regole (spesso arbitrarie) degli amministratori della presunta legalità.

L’irresponsabilità della burocrazia
La crisi degli stati moderni e della realizzazione del welfare state è strettamente connessa all’incapacità delle formazioni burocratiche di gestire la complessità. Ben lontana dall’analisi classica weberiana (controllo impersonale e formalizzato) la burocrazia attuale si presenta come deformazione professionale del burocratica, come incapacità addestrata nel prendere decisioni, come scaricabarile, come ricerca del perfezionismo formale, come apparato di potere che tende a perpetuarsi sottraendo energie positive ai sistemi sociali, come apparato di regole per assicurare a se stessa il suo perpetuarsi, come brodo di coltura dei gruppi di interesse “opachi alla visibilità sociale” clientelari, mafiosi o massonici, come continuo spostamento dei mezzi in fini, come macchina in grado di autoriprodursi contaminando i principi democratici, come struttura autoreferenziale del tutto priva di responsabilità nei confronti dell’ambiente umano che la circonda.

Il concetto di semplicità
La semplicità è una dote della relazione umana che distingue l’essenziale dal superfluo. Su questa base è possibile valutare la soglia di formazione del modello burocratico di organizzazione sociale. Oltre la soglia di tre passaggi nell’esercizio del controllo formale della filiera organizzativa si forma la catena burocratica a meno che non venga posto in essere un nodo reticolare decisionale su TUTTO il percorso organizzativo, a monte ed a valle. La soglia di tre non è solo applicabile agli individui concreti che amministrano ma anche agli oggetti amministrativi che debbono essere utilizzati. Laddove una decisione comporti l’osservanza contemporanea di tre o più oggetti amministrativi (leggi, decreti o regolamenti) pertinenti all’atto su cui si deve esercitare una decisione, emerge il costrutto del pensiero burocratico che tenderà più a proteggere se stesso che a prendere una decisione favorevole alla risoluzione di un problema concreto.
La realizzazione della semplicità è possibile solo spostando l’accento sul problema concreto verso cui l’amministrazione si rivolge, sia esso un bersaglio del soccorso o una vittima dell’ingiustizia (4).
Il processo di controllo del controllo del controllo, tipico della burocrazia, decade di fronte al ruolo dell’essere umano che viene soccorso o che viene considerato vittima. E’ la sua soggettività la ragion d’essere della amministrazione e quindi della potenziale semplificazione del sistema burocratico. Tale riorganizzazione è urgente prima che la burocrazia riesca a contaminare (come purtroppo già sta facendo) la semplificazione comunicativa potenziale nella web society. Proprio per la complessità che la burocrazia ha artatamente introdotto nell’informatizzazione, al fine di mantenere il suo potere, siamo di fronte ad una enorme delusione collettiva dinnanzi a portali incomprensibili, a modelli e moduli informativi deliranti, a comunicazioni impersonali inutilmente filtrate e canalizzate che tendenzialmente inducono a preferire la vecchia comunicazione cartacea (che riappare oggi frequentemente come un doppione) rispetto alla istantaneità della comunicazione informatica.

La vittima e la Real Justice
La “Real Justice”, o “giustizia riparatoria”, fa riferimento a una corrente di pensiero che inaugura un nuovo modo di guardare la giustizia penale e civile concentrato sulla riparazione del danno arrecato alla persona e sulla relazione tra amministratore e utente soccorso o tra autore e vittima del reato, piuttosto che sulla punizione del reato – anche se la Real Justice non preclude la carcerazione o altre sanzioni punitive-. Tale prospettiva pone un netto cambiamento nel modo di concepire la sanzione. Essa rappresenta prima di tutto un invito a ripensare alla “ragione d’essere” della sanzione e alle conseguenze del reato. Si tratta di un’apertura ad un nuovo modello culturale. In un momento storico in cui in Italia viene sottolineato lo stato di crisi della giustizia penale, stanno suscitando interesse le varie esperienze di common low di Real Justice, che pongono l’accento sulla dimensione riparativa e su quella relazionale della pena, coinvolgendo i rapporti psicologici tra le persone direttamente coinvolte nel fatto criminoso. La due funzioni principali del modello ripartivo sono dunque “riparare” il danno subito e “trasformare la relazione interpersonale”. L’attenzione è posta sulla relazione invece che sulla punizione, con l’obiettivo di restituire alla vittima e all’autore del reato un senso di identità all’interno della società. La terza funzione è quella di responsabilizzare l’autore del reato nell’ottica di una sua riabilitazione. Una quarta funzione può essere vista nell’esigenza pratica di sfoltimento del carico delle strutture giudiziarie e penitenziarie
Gli strumenti della giustizia riparativa appaiono difficilmente catalogabili. Le tecniche utilizzate dalla real Justice cambiano da paese a paese e prevedono diversi gradi di coinvolgimento dei soggetti interessati al reato. Le indicazioni essenziali (5) sono state date con i documenti preparatori del Decimo Congresso delle Nazioni Unite “Prevention of Crime and Treatment of Offenders” svoltosi a Vienna nel 2000. Nel documento dell’ONU vengono elencate alcune tecniche tra le quali: apology (scuse formali scritte o verbali), community/familiy group conferencing (dialogo esteso ai gruppi parentali, presuppone l’ammissione della colpa) victim impact statements detti comunemente VIS (incontri in cui viene narrato dalla vittima il modo in cui il crimine ha inciso sul modo di vivere) peacemaking circles (creazione di partenership fra comunità e apparato di giustizia per la determinazione della pena da infliggere al reo), community ristorative board (gruppo di cittadini preparati a colloqui con l’autore del reato a cui viene proposta una serie di azioni riparative; il reo si impegna per iscritto a porle in essere, l’adempimento o il non adempimento delle stesse viene sottoposto alla corte di giustizia). La “Real Justice”, che si fonda sulla connettività comunitaria, è stata dapprima applicata ai casi di vandalismo e di bullismo, nasce nel mondo anglo-americano ed è attuata in Canada, Nuova Zelanda, Australia, U.S.A., mentre è del tutto marginale in Europa e in particolare nel nostro ordinamento giuridico.

Real Justice e burocrazia
La semplificazione della burocrazia è possibile inserendo strumenti di Real Justice nel rapporto tra cittadini e amministrazione. Non si tratta solo di percorrere le vie delle associazioni finalizzate allo scopo di riformare una legge o delle associazioni di consumatori o di sportelli del cittadino ma di una filosofia operativa che ha al centro il soggetto soccorso (l’utente) e si fonda sul suo protagonismo e sulla sua insindacabile soddisfazione.
Nella logica che ogni bisogno è un’emergenza (più o meno acuta ed urgente) la soddisfazione del bisogno rende necessario il superamento della burocrazia che si dissolve di fronte ad un atto di riparazione, di aiuto o di soddisfazione pienamente esaudito. L’unica legalità che conta è quella del bisogno poiché i criteri della legalità burocratica sono inefficienti per la valutazione delle procedure che, volta per volta, vengono inventate di fronte all’emergenza. L’emergenza ha solo bisogno di protocolli consolidati di azione ovvero di quelle corrette azioni per risolvere il problema che vengono progressivamente migliorate attraverso l’esperienza senza MAI diventare procedure formali.
Posta in mano all’utente del soccorso e cioè al destinatario del servizio la possibilità di valutare a posteriori del servizio ricevuto la sua soddisfazione si conferisce a tal soggetto il vero potere di destrutturazione della macchina burocratica che ha amministrato il servizio. Laddove egli non abbia ricevuto adeguata soddisfazione la macchina burocratica che ha organizzato il servizio sarà immediatamente smantellata e sostituita da altre persone e da altri processi mettendo la burocrazia in un costante stato di potenziale mora. L’equilibrio che dovrà essere costruito per contenere abusi o follie dell’utente sarà stabilizzato da una funzione apicale di difesa dei processi amministrativi attuati. Funzione sottoposta anch’essa al possibile smantellamento da parte dell’utenza non soddisfatta.
Tale processo va ben oltre l’analisi della customer satisfaction (anch’essa burocratizzata in moduli o in inutili sportelli di reclami) perché pone nelle mani dell’utenza il potere di mantenere in vita la macchina organizzativa e di mantenere il ruolo degli amministratori.
Il processo che a prima vista appare deflagrante è molto più semplice e meno drammatico di quanto appaia nella sua formulazione ove sia seguito dai sistemi di comunicazione diffusa di cui la web society dispone. Può essere mediato da sistemi di votazione diretta della pluralità di utenti, può presentare tempi e modi di trasformazione mediati (ma anche la mediazione temporale può essere destrutturata dal potere dell’utenza), può trovare accordi ed indicazioni per la trasformazione ma tutto ciò deve avvenire a valle della soddisfazione dell’utenza e non nel corso della somministrazione del servizio.
L’amministratore può anche agire per la soddisfazione del bisogno dell’utenza attraverso percorsi non sanciti formalmente ed anche non rispettosi dei regolamenti e della legalità ed essere assolto da provvedimenti o condanne sulla base della dichiarazione dell’utenza soccorsa che testimonia favorevolmente verso l’amministrazione (in tal caso assolutamente non burocratica).
Tal tipo di processi di Real Justice possono indurre stati ansiosi nel lettore che non ha pienamente destrutturato in sé quella forma di pensiero indotto dalle credenze che l’amministrazione debba essere una macchina automatica in grado di fornire stabilmente prestazioni. L’automatismo è tipico delle macchine informatiche ma non delle organizzazioni umane che quando cadono in tale trappola logica perdono il senso per cui sono state costruite e consentono l’esercizio del dominio e del comando dei vertici burocratici sulla pluralità degli attori e, contemporaneamente, clientelismo e corruzione.

L’Apocalisse della burocrazia
Mi sia consentito da credente una interpretazione della previsione di capillare controllo contenuta nell’Apocalisse di San Giovanni: «E le fu dato di animare la statua della bestia fino al punto di farla parlare, sicché la statua fece mettere a morte tutti quelli che non si prostravano davanti a lei. Ed essa fece sì che tutti, e piccoli e grandi, e ricchi e poveri, e liberi e servi, ricevano un’impronta sulla loro mano destra o sulla loro fronte, di modo che nessuno possa comprare o vendere, se non chi ha l’impronta, il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza! Chi ha intelligenza, calcoli il numero della bestia; perché è un numero d’uomo. E il suo numero è seicentosessantasei».
Lo sviluppo della macchina burocratica antiumana va indubitabilmente in questa direzione e gli elementi del controllo capillare per consolidare il suo potere sono sotto i nostri occhi. Potenziata dall’informatica e dalle connessioni della web society essa sarà la negazione della relazione affettiva umana e, attraverso la trasformazione dei gruppi di interesse opachi alla visibilità sociale in multinazionali potrà avere alleati di potere che la renderanno invincibile.
Questo è il motivo per cui costruiamo molecole che, anche se sono in questa fase sempre più piccole e invisibili, sono le uniche forze in grado di contrastare la diffusione della malattia relazionale e opporsi al dilagante disagio mentale. Il secolo attuale dovrà risolvere l’enigma che sta alle spalle della relazione se vorrà curare le follie regressive che si sono insinuate, attraverso i veicoli dell’ipocrisia e della burocrazia, nei diversi sistemi organizzativi, amministrativi e politici, fino a corrompere il concetto stesso di democrazia.
Costruire i legami che tengono insieme le molecole è la via praticabile da chi voglia tendere a relazioni interpersonali evolute e sa di non potersi accontentare di gravitare intorno alle correnti comunicative. C’è un “di più” nelle potenzialità dell’uomo che si realizza solo quando riusciamo a vedere realizzati i valori costruiti nei secoli dell’evoluzione relazionale della nostra specie.

I valori
Ma anche quando i flussi comunicativi della politica e dell’economia siano guidati da valori, e non da interessi che producono disgregazione, accade che, in una stessa molecola, c’è chi privilegia coscientemente o inconsciamente un valore rispetto ad un altro.
Se provate a scrivere su un foglio e chiedete in quale ordine di priorità (da 1 a 7) ciascuno li metta scoprirete quanto le diverse scale di valori divergano tra di loro (e anche quanto siano cambiate in noi stessi a seconda degli eventi e delle fasi della vita). I valori di cui le singole persone e le micromolecole sono portatori sono spesso in lite tra di loro: è più importante la generosità verso tutti o la fedeltà verso le persone intorno a noi? che rapporto c’è la fedeltà e libertà? è prevalente l’impegno per la giustizia o mantenere la pace? come conciliare i diversi livelli di responsabilità che gli individui si assumono con l’uguaglianza tra tutte le persone? come possono andare d’accordo libertà e responsabilità? Cosa viene prima e cosa viene dopo?.
Se osserviamo i flussi comunicativi che stanno alle spalle delle ideologie politiche di riferimento salta immediatamente agli occhi che ciascuna di esse, pur non negando importanza a tutti i precedenti valori, ne privilegia alcuni piuttosto che altri e cerca di attrarre consenso sulle pratiche che li affermano.
La potenza della relazione delle macromolecole organiche e vitali sta nella costruzione di sostanze relazionali che risolvono il precedente enigma: è l’equilibrio nelle relazioni che risolve il dilemma tra senso di responsabilità (verso i propri cari o il proprio ambiente di vita) e la generosità accogliente. E’ la ricerca comune della verità nel rapporto interpersonale che concilia fedeltà e libertà. E’ la trasparenza relazionale che concilia uguaglianza e libertà. E’ la qualità dell’affiatamento interpersonale che mette insieme generosità e fedeltà. E’ l’armonia a far collimare l’ansia della responsabilità con la tranquillità della pace. Ciò che collega l’essenza dell’uguaglianza con la potenza di chi, per realizzarla, trasmette un impegno fuori dal comune (quindi non uguale) è la condivisione sublime dello stesso sentimento empatizzato e socializzato (6). Ed è la costruzione dell’accordo perfetto che media tra pace e lotta, impedendo alla pace di diventare indifferenza e all’impegno di diventare guerra.
Ma tali sostanze relazionali, ovvero lo spirito prodotto dalla concreta realtà dello stare in relazione tra persone, non può rimanere confinato in molecole con individui atomizzati. Per coagularsi sempre di più ha bisogno di reti di macromolecole che contengano ben definite tutte le sostanze relazionali menzionate pur realizzando lo specifico carisma di ciascuna.
Nei quarant’anni di sviluppo e di evoluzione sociale successivi alla seconda guerra dei trent’anni (e cioè l’intero periodo delle guerre mondiali del secolo scorso, dal 1915 al 1945), le sostanze relazionali in circolazione nella società erano distribuite con un buon mix. Negli anni ’90 l’eccesso di concentrazione organizzativa e di controllo hanno trasformato le aziende in multinazionali, gli stati in burocrazia, le aggregazioni sociali spontanee e volontarie in argilla inconsistente, le comunicazioni sociali in mainstream (7).
Per uscire da questo trentennio distruttivo che ha concluso il processo di trasformazione del postmoderno in web society c’è bisogno di forme molto più consapevoli che nel passato di riaggregazione delle molecole. Ciò che un tempo era chiamato discernimento spirituale tra il bene ed il male porta oggi in nome di consapevolezza e ciò è giusto perché coinvolge anche la persona che discerne nell’opera di comprensione di sé in relazione con l’altro. Ma contiene il rischio dell’intimismo di chi, consapevole dei suoi limiti e della sua pochezza, si astiene dal giudicare. Che egli voglia essere così liberal da non voler condannare può essere comprensibile, ma l’assenza assoluta di giudizio o è un’ipocrisia o è una cretinata.
Se le molecole vogliono crescere debbono condividere ma non possono condividere con chi non condivide, altrimenti vengono rapinate della loro sostanza relazionale e si estinguono. Se le molecole vogliono accogliere debbono discernere tra chi accoglie l’accoglienza e chi la sfrutta, altrimenti perdono identità. Se le molecole vogliono essere tolleranti debbono sapere che non si può tollerare l’intolleranza, altrimenti ci si disperde nel conflitto o nella diaspora.
Accoglienza, tolleranza e condivisione (generosità, pace e fedeltà) sono spinte all’azione socio solidale gestita attraverso le sostanze relazionali dell’equilibrio, dell’accordo e dell’affiatamento senza fughe nell’intimismo individualista psicologico che le corrompe. Ciò accade quando la generosità dell’accoglienza è prodotta dal senso di colpa, la pace e la tolleranza dall’indifferenza burocratica e la fedeltà della condivisione dalla paura dell’essere abbandonati alla propria solitudine.
Le molecole che si aggregheranno hanno bisogno di costruirsi autorevolezza per poter essere protagoniste di un nuovo tipo di comunicazione indispensabile nella web society e la autorevolezza è determinata dal dichiarare ed agire in un chiaro senso del limite. Oggi le molecole debbono agire in nome del senso del limite e collegarsi con tutti i sistemi relazionali che posseggano il senso del limite.
Sia ben chiaro che l’amore non ha limiti e confini perché l’amore che provo oggi è più grande di quello che ho provato ieri e la personale possibilità di farne esperienza è la caratteristica principale del divino che si situa nell’umano, ma questa espansione empatica e irradiante è nella persona e nelle sue scelte e non può essere nelle relazioni sociali che, per definirsi, hanno bisogno di limiti.
Tutte le aggregazioni sociali che hanno prodotto nel corso della storia relazioni evolute sono state avanguardie di cambiamento nelle epoche di trasformazione. La coesione sociale all’interno di questi gruppi li ha resi unici e definiti. Il clima relazionale intorno a Pitagora, Socrate, Gesù, Francesco d’Assisi, Teresa D’Avila, Mahatma Gandhi, Nelson Mandela e milioni di altre persone rimaste sconosciute ha prodotto frutti indiscutibili per l’evoluzione e per la salvezza dell’intera umanità perché tali relazioni evolute lasciano tracce nell’inconscio collettivo sotto forma di quella prospettiva desiderante a cui si tende intuendo la possibilità della felicità per gli esseri umani. Tutte queste formazioni avevano un chiaro senso del limite mentre la capacità affettiva dei loro leader e dei loro membri superava ogni limite nella loro originaria individualità.

NOTE:
1 – Questa classificazione dei valori (che rilegge la logica delle virtù cardinali e teologali) non è arbitraria perché tende a ridurre entro un numero memorizzabile di categorie la propensione ai valori che si forma nella coscienza individuale dopo averne vissuto e sperimentato l’efficacia, la bellezza e la bontà nella relazione sociale. Ad esempio il valore relazionale dell’amicizia si traduce nella soggettività della persona nel valore della fedeltà verso l’amico, il riconoscimento della propria importanza da parte di altri si percepisce dopo essersi assunti la responsabilità del servizio di aiuto e/o di solidarietà, ecc.
2 – Prendo ad esempio l’attuale scandalo dei 28 milioni di euro donati dagli italiani per i terremotati ancora fermi nel conto aperto presso la Tesoreria Centrale dello Stato e che non possono essere usati in ragione del «protocollo d’intesa» tra la Tesoreria e le società di telefonia che hanno raccolto gli sms solidali. Prima è necessario predisporre un’analisi dei danni nelle singole regioni che deve essere sottoposto a un comitato di garanti che deve verificare il rispetto delle norme nell’utilizzo dei fondi). Questo esempio di contaminazione degli strumenti di connessione partecipativa non è semplicemente uno stupido ed inefficace strumento di controllo ma rappresenta una forma di potere che il triplice scopo di opporsi alla partecipazione, minare la fiducia interpersonale e riservarsi la possibilità di gestire tali fondi in modo clientelare o corruttivo. NON E’ UNA NECESSITA’ ORGANIZZATIVA E DI CONTROLLO INDISPENSABILE PERCHE’ LE VIE PER AGIRE DIVERSAMENTE SONO MOLTEPLICI COSI’ COME LO SONO ANCHE GLI STRUMENTI DI CONTROLLO INNOVATIVO (più avanti si discuterà dei modelli di Real Justice9.
3 – Prendo ad esempio la liberalizzazione delle droghe che non può diventare un incentivo al consumo travestendosi da difesa dei diritti del tossicodipendente. Nella vecchia legge 162 era contenuta una importante novità e cioè la definizione del tossicodipendente come “irresponsabile” e non come “delinquente” e quindi non punibile penalmente ma sanzionabile con la perdita di alcuni diritti: la patente di guida, il porto d’armi, la possibilità di accedere ad alcune professioni ad elevato contenuto di responsabilità sociale (medico, parlamentare, pilota d’aereo, per fare alcuni esempi). L’interpretazione burocratica delle Prefetture e dei Sert ha completamente stravolto tale criterio.
Una identica logica si è affermata nelle teorie di genere – sacrosante quando conducono a comprendere e tollerare le diverse inclinazioni del maschile e del femminile ma pericolosa quando scardina gli archetipi dell’identità biologica riproduttiva- ; nell’uso improprio della separazione coniugale – sacrosanta quando sancisce la fine di relazioni senza fondamento-; nella liberazione sessuale – sacrosanta perché elimina i sensi di colpa ma perniciosa laddove favorisce e legittima le nevrosi di perversione e l’utilizzo del sesso come strumento di potere-; nel successo sociale dell’ideologia dell’eccellenza – sacrosanta quando favorisce l’emersione dei meriti ma inumana quando è realizzata con la sopraffazione dell’altro con l’inganno, la manipolazione, l’opportunismo, la corruzione e la clientela-; nel femminismo – sacrosanto quando afferma l’identità del femminino ma pericolosa quando è solo conflittuale contro il maschile imitando peraltro i peggiori difetti del maschio (vedi le donne soldato e non più pacifiste e non violente)-; nella accettazione senza condizioni delle patologie mentali – sacrosanta quando evita la discriminazione e potenzi l’aiuto della comunità verso soggetti deboli, ma pericolosa quando legittima la maniacalità dell’abuso e/o reintegra con facilità delinquenti che non sono nemmeno pentiti del male che hanno commesso-; lo stesso processo accade nelle dichiarazioni di principio delle diverse carte dei diritti umani – sacrosante ma utili solo per le azioni di indignazione giornalistica senza nemmeno essere correnti di pensiero mainstream-; equivalenti livelli di impotenza sono rintracciabili nelle proposte di legalità nei buoni cittadini proposte dall’Unicef che non determinano esperienze di limiti oppure di fronte al sacrosanto (e qui ci sta propro pertinentemente) catechismo della Chiesa Cattolica del 1997, che non può agire come modello di comportamento diffuso per l’ipocrisia di etichette prive di sostanza.

4 – Il termine utente di un servizio porta ad una visione impersonale del bisogno ponendo tutti gli utenti nelle stesse condizioni e dimenticando che non vi è ingiustizia più grande di dare cose e prestazioni uguali a bisogni diversi. Per questo il termine soccorso, che implica la costante emergenza nei confronti del bisogno, è molto più pertinente poiché inferisce il carattere di urgenza efficiente al lavoro amministrativo. La vittima è invece colui che non ha ricevuto l’assistenza a cui aveva diritto in quanto essere umano o che è stato ingiustamente leso da qualche reato penale o civile esercitato contro di lui.
5 – Per analizzare alcuni casi pratici si rinvia ai vari siti internet (si indicano a titolo esemplificativo: www realjustice.org; www iirp.org/au/; www restaurativejustice.org). La “real justice” contempla la necessità di condurre i colpevoli di fronte alla vittima con l’assistenza di un mediatore (o in alcuni casi due mediatori per condizione di parità tra le parti o di un equipe), o meglio di counselor specializzati in tecniche relazionali, in modo che i colpevoli vedano le conseguenze dei loro gesti e le vittime possano esprimere il loro vissuto e incontrare “l’umano” che è in loro per giungere ad una riparazione del danno causato. Il fine principale che la Real Justice si pone è quello di ricostruire o costruire la relazione interpersonale alla presenza di un terzo altamente qualificato, neutrale e disponibile all’ascolto per promuovere pace, armonia, saggezza, riparazione. La necessità di riparazione si basa sul principio che più gli esseri umani sono felici, produttivi, cooperativi, più alta è la probabilità di effettuare cambiamenti positivi nel loro comportamento.
6 – Tutti gli uomini sono diversi ma percepiscono la loro uguaglianza nel vivere le stesse emozioni e gli stessi sentimenti in qualunque cultura essi vivano. La caratterista della sostanza relazionale sublime è insita in questo incontro tra sensibilità diffusa e carismi che la interpretano. Il sublime si realizza nella gloria sperimentata dal protagonisti (che non è narcisismo o megalomania ma soddisfazione per la propria realizzazione) e l’ammirazione sperimentata dai popoli per gli eroi (che non è invidia per un ruolo ma ammirazione e desiderio di imitazione). L’incontro con il sublime è una delle sensazioni più appaganti che l’essere umano possa sperimentare.
7 – Mainstream è una corrente di pensiero o un trend che fa corrente e determina un seguito di individui, parte di una massa e non di una formazione relazionale. Sono mainstream il politicamente corretto, le teorie di genere, le mode, votare SI o NO al referendum, scegliere Microsoft o Macintosh, Apple o Windows, Tim o Vodafone, Gmail o Yahoo, Dalla Vostra Parte o Piazza Pulita, ecc. Questi esempi rappresentano le caratterizzazioni dei sistemi di connessione (e non di relazione) nella web society.

Srebrenica: un genocidio ormai dimenticato

11 luglio 2011 - Potocari Bosnia i Herzegovina

Una donna prega. Prega in mezzo ad altre bare, centinaia di altre bare.
Altre donne tra le 520 bare di quell’anno.
Chi c’è in quella bara? Sicuramente un uomo, un padre, un marito, un fratello o un figlio.
L’11 luglio del 1995, tutti gli uomini sopra i 15-16 anni furono radunati e uccisi nell’arco di 48 ore perché “musulmani” dalle truppe serbe entrate in Srebrenica grazie alla noncuranza dei Caschi Blu dell’ONU che abbandonarono al loro destino gli abitanti di quella insanguinata città.

Fu un genocidio. La prima stima fu di 8732 vittime della pulizia etnica compiuta dai serbi.
Ogni anno altri resti vengono trovati occasionalmente al rinvenimento di fosse comuni che i carnefici hanno frammentato prima della ritirata.

Solo grazie al dna sarà possibile dare un nome ai frammenti di ossa che si trovano nelle fosse comuni gli anni successivi alla strage.

La cifra di quelle vittime continua a crescere ogni anno.

Chi ci sarà in quella bara?

Milioni di persone in piazza contro Trump.
La marcia rosa che ha infiammato il mondo

di Giancarlo Balsano

“Grazie ai milioni di persone che oggi, 21 Gennaio, sono venuti tutti insieme per protestare contro la violazione dei nostri diritti. Adesso è arrivata l’ora di riunirci tutti insieme con i nostri amici, famiglie e comunità per fare la storia”. Questa è la frase di ringraziamento, pubblicata sul sito ufficiale di ‘Women’s March’, in merito alla grandissima partecipazione dei manifestanti. Dopo le innumerevoli esternazioni sessiste e maschiliste del neopresidente americano Trump, milioni di donne, bambini, uomini e anziani sono scesi in piazza protestando contro ogni discriminazione di genere, per difendere i diritti delle donne e per contrastare la salita al potere di Trump. ‘La marcia rosa anti-Trump’ è partita da Washington DC e oltre a toccare le città statunitensi, è arrivata anche in Europa, a Londra, Parigi, Berlino e Roma. Ma ha raggiunto anche l’Asia e l’Australia. Caotica ed emozionante è stata l’atmosfera, in quanto il 21 gennaio le grandi città di tutto il mondo erano invase da persone di ogni sesso e di ogni ceto sociale che protestavano pacificamente per l’affermazione dei diritti sulla parità di genere.

Agghiaccianti sono state le innumerevoli testimonianze di alcune delle donne che hanno partecipato alla marcia e che hanno voluto raccontare la loro esperienza di vittime di abusi. L’Istat conta circa 7 milioni di donne “che hanno subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale”. Si fa riferimento alla violenza domestica, a molestie, ad abusi sessuali, a stupri e a ricatti sessuali esposti in luoghi pubblici e sul posto di lavoro. Molteplici sono i danni fisici, ma più dolorosi, incessanti e penetranti sono quelli psicologici. Depressione, ansia, fobie, attacchi di panico e sensi di vergogna e colpa sono le principali conseguenze psicologiche e comportamentali della violenza sulla salute delle donne. Più eclatante è il fatto che la violenza sulle donne, è uno dei fenomeni sociali più nascosti, in quanto esse hanno timore di esporsi, a causa di un amore cieco o dalla vergogna degli atti subiti.

Anche i social networks sono stati conquistati da numerosissimi post, raffiguranti foto e video della manifestazione e le Celebrity Stars, a partire da Miley Cyrus fino ad arrivare a Madonna, non si sono di certo risparmiate a postare commenti contro la violenza di genere. Snapchat, uno dei social networks più utilizzati al momento, ha persino dedicato una storia a questa famosissima ‘marcia rosa’ e notevoli sono state le visualizzazioni sulle pagine web che si sono dedicate a questo evento così toccante e commovente.

I milioni di individui che hanno preso parte a ‘La marcia rosa anti-Trump’ hanno avuto il coraggio di difendere a spada tratta le loro idee, perché “non è il silenzio che ci protegge”. La violenza contro le donne è un fenomeno ampio e diffuso e oltre a sensibilizzare le donne a denunciare gli atti subiti, bisogna promuovere leggi vere ed autentiche a nome di tutte coloro che decidono di denunciare i maltrattamenti, spesso senza essere ascoltate.

(Giancarlo Balsano è iscritto alla classe V, sezione L, del Liceo G. Cevolani di Cento e frequenta il corso di giornalismo della scuola)

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