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Giorno: 3 Febbraio 2017

Intervista a Mogol: Benvenuti nella mia scuola per veri artisti

È mattina presto, sono sveglia da poco e a tratti devo sincerarmi che sia tutto vero: a pochi centimetri da me è seduto Giulio Rapetti Mogol. Non solo il più grande autore di testi della canzone italiana – nonché fondatore della Nazionale Cantanti, impegnato su molti fronti dalla solidarietà, alla medicina, all’ambiente – ma una persona autentica: Mogol nella vita ha saputo essere se stesso.

Scarpe da tennis e tenuta sportiva, Mogol qui è a casa. Mi accoglie con garbo e con un sorriso. Nel calore della ‘stanza rossa’ dedicata a Lucio Battisti, il maestro mi ascolta con attenzione, mi guarda dritto negli occhi. Risponde senza esitare a ogni domanda. Perché dentro di sé ha già chiare le risposte.
Siamo al Cet (Centro Europeo Tuscolano), la scuola fondata da Mogol per valorizzare e qualificare nuovi professionisti della musica pop: un centro di 120 ettari nel cuore dell’Umbria.
Il Cet è un’isola di note e parole. La musica è dappertutto: affiora dalle anfore di creta che disegnano il giardino, corre sul bianconero dei pianoforti disseminati nelle sale e nelle stanze da letto, sul palco del teatro, ma soprattutto pulsa nel cuore degli allievi.
Siamo in 60, da ogni regione d’Italia ma anche dalla Svizzera, tutti abbiamo superato le selezioni per partecipare ai tre corsi: compositori, autori, interpreti. E tutti siamo legati dal desiderio di esprimerci con la musica, la voce e le parole.
“Formiamo l’uomo per formare l’artista”, non a caso, è lo slogan del Cet (www.cetmusic.it).

Quello che accade qui è “un piccolo miracolo”, ci ha raccontato Laura Valente, voce dei Matia Bazar e moglie di Mango, docente di questa scuola.

Che cosa rappresenta per lei il Cet?
Il Cet è il mio regalo al mio Paese: il livello della cultura di una nazione dipende dalla cultura popolare e purtroppo si avvertono forti segnali di recessione in Italia.
Ho girato il Paese per un anno intero prima di trovare un posto come questo, immerso nei boschi e nel silenzio: io volevo andare dentro alla natura e qui ci sono una flora e una fauna unica. Contro il parere di tutti, ho voluto questa scuola di livello internazionale. È riconosciuta dallo Stato che le ha sempre garantito un finanziamento dignitoso, seppure si sia ridimensionato con il passare degli anni. Il Cet è convenzionato con l’Università e rappresenta un centro di eccellenza in Europa: per questo siamo stati invitati anche ad Astana, in Kazakistan.
Abbiamo diplomato 2500 allievi, tra i quali Arisa, Giuseppe Anastasi, Pascal. Lavoriamo con la gratitudine e l’entusiasmo dei nostri studenti e dei nostri docenti, che ci conforta e ci consola.
Qui c’è gente onesta e appassionata, che cerca la qualità, il meglio.

Può spiegarci cosa intende per “il meglio”?
Questa non è una scuola per diventare famosi: perché se sei famoso e non sei bravo, è meglio essere sconosciuto. A noi interessa essere artisti: quella magia grazie alla quale riusciamo a sorprendere chiunque abbiamo davanti, ad incantarlo.
L’importante nella vita è andare dritti per la propria strada. Lo spazio vitale è una cosa piccola, ma con l’arte e l’impegno sociale possiamo rendere conto della nostra missione di vita. Ho racchiuso in un aforisma il senso del nostro essere qui: “L’intenzione è il seme, la pianta è il regalo del destino”.

Lo ha scritto nel suo ultimo libro – ‘Il mio mestiere è vivere la vita’ (Rizzoli) – con parole che meritano di essere riportate: “Mi sono sempre buttato a capofitto nella vita: alla fine, il vero senso dell’esistenza e di quello che conta non è comprare appartamenti, accumulare beni materiali e poi salutare, ma costruire qualcosa, amare, inseguire i propri desideri e fare tutto ciò che che si può per dare il proprio contributo al mondo, alla società, agli altri. È vivere pienamente e lasciare un segno positivo del proprio passaggio”.

Mogol sa lasciare il segno: a quali progetti si sta dedicando ora?
Sto lavorando da due anni a un progetto che mi sta molto a cuore, pensato per le persone migranti.
Il progetto studiato dal Cet si propone di utilizzare milioni di ettari di terreni non coltivati appartenenti ai vari Paesi africani che si affacciano al Mediterraneo, per trasformarli in orti e frutteti biologici. Tra gli obiettivi prioritari c’è la realizzazione di laghi artificiali e impianti di desalinizzazione, costruzioni di case in legno, centri di allevamento bovino, corsi di formazione per giovani laureati italiani che seguiranno il lavoro dei migranti. Vorremmo stipulare contratti sia tra l’Europa e i Paesi africani, sia tra le grandi società agricole europee e l’Unione Europea, che mette a disposizione fondi mirati per progetti come questi.

Lei naturalmente ha lasciato una traccia indelebile anche nei testi delle sue canzoni, che sono entrate a far parte della nostra vita e della cultura italiana. Perché le parole sono importanti?
Sono le parole che portano avanti l’evoluzione di una persona e di una società. Quando scrissi ‘Una giornata uggiosa’, gli editori erano perplessi sull’uso di un aggettivo così insolito, desueto; oggi la parola è rientrata nell’uso comune. Se l’autore esprime il meglio di se stesso e non cerca di fare marketing, ha il potere di dare nuova vita alle parole. Ma le parole devono essere autentiche, vissute.

Le sue canzoni sono piccoli ‘film’, storie per immagini. Lei ama leggere? Quali sono i suoi autori preferiti?
I miei scrittori preferiti sono Flaubert e Steinbeck.
Tra i libri italiani trovo molto affascinanti quelli di Piero Chiara.

Qual è l’ultimo testo che ha scritto?
Ho scritto insieme a Gianni Bella un’opera a cui tengo moltissimo, ‘La capinera’, tratta dal romanzo di Verga, ‘Storia di una capinera’. L’opera ha già ricevuto prestigiosi riconoscimenti, tra i quali quello di direttori d’orchestra come Gustave Kuhn e Catello De Martino. Qualche giorno fa Gabriele Muccino l’ha definita “un vero, grande capolavoro” e presto ci sarà l’occasione di farla conoscere anche al Ministro della Cultura, Dario Franceschini.

Quali sono le qualità che apprezza in un’altra persona?
Apprezzo la vera grandezza e l’umiltà, che sono poi una cosa sola. Se si pensa a Madre Teresa di Calcutta, chi c’è che può reggere il confronto? Chiunque sparisce di fianco a una donna che ha vissuto nel curare gli ammalati. La dimensione di ciascuno di noi si svela nella capacità di dare, nella moralità, nell’onestà individuale. Nella capacità di riconoscere i meriti degli altri. Con sincerità, bontà, intelligenza.

C’è stato un momento di svolta nella sua vita?
Quando la mia canzone “Al di là” ha vinto Sanremo. Avevo 24 anni. La mia vita da quel giorno è decisamente cambiata.

A proposito di Sanremo, abbiamo avuto il piacere di conoscere la cantante Valeria Farinacci, che parteciperà tra pochi giorni al Festival con una canzone di Anastasi ‘Insieme’.
È una bella soddisfazione: al festival quest’anno saremo presenti con questa giovane ex allieva e con cinque canzoni firmate Cet.

Il logo del Cet è un’immagine emblematica: un’aquila con un corpo di lira. La lira è il simbolo della musica, l’aquila richiama il titolo dell’omonima canzone, un inno potente alla libertà: che cos’è per lei la libertà?
La libertà è una conquista personale. Non te la dà nessuno, devi prendertela con coraggio. Ci vuole molto coraggio, al limite dell’incoscienza. Il mio senso di libertà è più forte di tutto.
L’aquila è simbolo di libertà, ma anche di elevazione. È quello che cerchiamo di fare in questa scuola: allenare il talento con un esercizio costante; perché solo camminando con tenacia si affrontano le salite e si raggiungono le vette più alte.

Da chi ha imparato di più?
Ho imparato molto dai miei genitori. Hanno saputo crescermi con affetto e rigore al tempo stesso.
I miei genitori hanno saputo mettermi in condizione di non sentirmi mai a disagio. Io riesco sempre ad essere me stesso.

È difficile essere se stessi?
Essere autentici non costa fatica se ci si esprime con garbo e rispetto. Io un senso di giustizia e di soccorso molto forte, soprattutto nei confronti dei miei quattro figli.

In questi giorni abbiamo conosciuto suo figlio Alfredo…
Alfredo è un’anima bella. Oltre ad essere un affermato autore di testi, Cheope è un pittore molto quotato, le sue opere sono state scelte per la Biennale di Venezia. È un vero artista.

E Artisti veri (aggiungo io che scrivo) sono tutti i docenti del Cet: oltre ad Alfredo Rapetti (‘Cheope’), ci sono Giuseppe Anastasi , docente del ‘Corso autori’ insieme a Maurizio Bernacchia; Carla Quadraccia (‘Carlotta’) e Laura Valente nel ‘Corso interpreti’; Massimo Bombino nel ‘Corso compositori’. E in questa seconda settimana, conclusasi pochi giorni fa, si è unito un altro docente d’eccezione, Giuseppe Barbera, compositore, arrangiatore e pianista di fama internazionale: “Non siamo solo docenti, ci appassioniamo come voi al vostro lavoro e alle vostre idee”, ha spiegato Barbera agli allievi, sottolineando come la canzone nasca “da dentro”: “la melodia è legata a qualcosa che appartiene profondamente alla nostra vita. Non dimenticatelo: la musica salva”.
Applausi.

Uno stage intensivo di otto ore al giorno concentrate in una settimana, per 3 mesi consecutivi, nell’atmosfera indescrivibile di una scuola unica: “Questo posto rigenera l’anima”, commenta Gianni Basilio, uno dei ragazzi del Cet.
Qui, dove anche i compiti sono in rima, le emozioni sono a fior di pelle: sorrisi, abbracci, lacrime. Trepidazione e battiti prima di salire sul palco o di far ascoltare il proprio pezzo musicale. Gli studenti sembrano conoscersi da sempre: improvvisano canzoni ovunque, compongono insieme e si incoraggiano reciprocamente. La sfida non è con gli altri, ma con se stessi, con la propria capacità di far sentire la propria voce.

A teatro, in aula o intorno a un caminetto acceso, gli allievi non perdono una parola del maestro Mogol, che ripercorre il cammino della musica pop, li guida nell’acquisire una sensibilità musicale, insegna loro come scrivere una canzone di successo, fa riascoltare brani che lui stesso aveva dimenticato.
E tutti gli studenti si commuovono quando il maestro racconta, tra gli aneddoti della sua vita, la genesi della canzone ‘Arcobaleno’, segno dell’amicizia infinita con Lucio Battisti: “È una storia vera: ho 80 anni e non ho motivo di mentire. Ve la racconto perché così avrete meno paura della morte”. Una canzone scritta da lui “sotto dettatura”, in soli quindici minuti, assecondando le note di “una musica che aveva il sapore dell’Aldilà”.

“Di quelle parole non ho alcun merito” – racconta con voce emozionata Mogol – “sono un regalo”.
E come un dono, quelle parole sono arrivate a noi: “Ascolta sempre solo musica vera. E cerca sempre, se puoi, di capire.”

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Una lezione tenuta dal paroliere
Tutti attorno al maestro
La ‘stanza rossa’ dedicata al grande Lucio Battisti
Uno degli ambienti della scuola in Umbria

L’EVENTO
Ogni epoca ha le sue lotte per la libertà.
In Ariostea un ciclo di incontri sulle sfide di oggi

Come definire la libertà? Qui comincia il difficile. Perché la libertà è un problema difficile da risolvere. Anzi, la sua soluzione dovrebbe restare aperta.
A questo tema, sfuggente quanto fondamentale, l’Istituto Gramsci e l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara dedicano un ciclo di quattordici incontri pomeridiani (da gennaio a novembre) alla Sala Agnelli della biblioteca Ariostea.

Intanto propongo una mossa preliminare. Sarebbe opportuno depotenziare o contenere quelle cariche emotive, propagandistiche che usualmente accompagnano l’uso retorico della parola libertà. E, di contro, mettere con i piedi per terra la ricerca di una definizione della parola libertà. Chiediamo un aiuto a un maestro di libertà, Norberto Bobbio.

“Esistono tante libertà nella storia quanti gli ostacoli di volta in volta rimossi. La storia della libertà procede di pari passo con la storia delle privazioni della libertà: se non ci fosse la seconda non ci sarebbe neppure la prima. Non c’è una libertà perduta per sempre, né una libertà per sempre conquistata. La storia è un intreccio drammatico di vecchie e nuove libertà, cui fanno riscontro vecchie e nuove oppressioni. Ogni epoca è contraddistinta dalle sue forme di oppressione, e dalle sue lotte per la libertà”. Quindi, il concetto di libertà è la storia della libertà. Per inquadrare la proposta delle varie conferenze che compongono il ciclo, occorre tenere presente quattro elementi che configurano a grandi linee la cornice ‘storica’ che caratterizza il nostro tempo.
1) Per il pianeta, le società e gli individui, il cambiamento non è mai stato così veloce, esteso, pervasivo, profondo. Viviamo nel tempo della mondializzazione dei processi di ogni genere: economico, tecnologico, sociale, culturale, religioso.

2) Il cambiamento non riguarda solo le cose, i processi oggettivi e materiali, ma anche il nostro modo di pensare e le forme della conoscenza. Bisognerebbe abbandonare il modo lineare e causale di conoscere che ha caratterizzato la fase ascendente della modernità (ricordiamo il sarcasmo di Leopardi sulle “…sorti magnifiche e progressive…” delle società) e pensare, invece, in termini di interdipendenza e circolarità. Ciò ha implicazioni anche nel costruire e seguire un ciclo come quello che proponiamo. Cioè, pur disponendo inevitabilmente i temi delle conferenze in una sequenza lineare, bisogna tenere presenti i nessi che li legano. Le questioni si intrecciano e spesso la medesima rappresenta una risorsa e funziona come vincolo.

3) La natura umana, quella che abbiamo sempre considerato come qualcosa di fisso, naturale, immodificabile, diventa oggetto di intervento da parte degli uomini. Le due grandi frontiere della scienza sono, oggi, la ricerca biologica in campo genetico, e le neuroscienze sul funzionamento del cervello. Questi ambiti testimoniano che ci occupiamo non più soltanto del mondo esterno, ma della nostra stessa natura. Il futuro è aperto su grandi interrogativi in cui si combinano in modo positivo e drammatico possibilità e rischi.

4) Infine, un grande storico delle idee, Reinhart Koselleck ha sintetizzato così la specificità dell’attuale ‘spirito del tempo’: lo spazio dell’esperienza si è ristretto; l’orizzonte delle aspettative si è abbassato. In parole semplici possiamo tradurre questa fulminante e lucida descrizione in questo modo. La velocità del cambiamento ha messo in mora il valore del passato. Viviamo tutti prigionieri di una sorta di dittatura del presente. La crisi di un rapporto fecondo/virtuoso tra passato-presente-futuro ha contratto lo spazio del possibile e cioè il luogo dove crescono la fiducia, i legami, le speranze, ingredienti indispensabili per un agire libero.

Per questo questi quattordici incontri si possono pensare accorpati in tre filoni tematici che vogliono approfondire tre aspetti cruciali della libertà: concetti e definizioni; le sfide da fronteggiare; la qualità dell’ambiente sociale, politico, culturale, educativo da costruire.
Se dovessi trovare una formula ideale per definire il concetto di libertà, indicherei l’espressione ‘libertà sociale’. Veniamo da decenni di sbornia individualista e narcisista. La libertà non è un agire arbitrario: “Faccio quello che voglio!” E non è nemmeno una conseguenza di necessari e automatici determinismi. La libertà è sempre un agire in una situazione data. Ed è la capacità inventiva, imprevedibile – Hanna Arendt definiva la libertà come nuova nascita – di rispondere ad una sfida, di cogliere un’occasione. Ma tutto questo tenendo insieme il singolo e tutti gli altri. La socialità non è un dato naturale, ma un acquisto mentale, culturale. La socialità non consiste nella coappartenenza biologica, ma dipende dalla consapevolezza della coappartenenza. La libertà di tutti, sociale, è sempre minacciata, e per questo è un compito incessante che riguarda tutti. Chiudiamo riprendendo il tono basso che richiamavamo all’inizio. Il grande filosofo della dialettica e del realismo, Hegel, diceva che a progredire nel tempo è soltanto la coscienza della libertà, non l’effettiva libertà degli individui. La ‘passione della libertà’, come recita il titolo di una delle conferenze in programma, è fatta di realismo, cultura, razionalità, responsabilità.

programma libertà

Dopo il primo incontro di presentazione il 13 gennaio, con il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, il prossimo appuntamento in programma è venerdì 10 febbraio alle 17 in biblioteca Ariostea con la lectio magistralis di Salvatore Natoli dedicata a “Libertà ed uguaglianza”

Leggi il programma completo del ciclo di incontri ‘Libertà’

Silvia Motta, nostra signora dell’audience. Dietro un grande programma c’è sempre una grande donna

Silvia Motta è la ‘signora degli ascolti’, una donna che si muove con estrema disinvoltura tra statistiche, percentuali, share e date con quella padronanza tipica di chi maneggia la materia con competenza e autorevolezza. Cifre e numeri non hanno segreti per lei e la lettura di esiti e ascolti è sempre puntuale e approfondita. Una donna sempre sorridente e solare, coloratissima ed elegante nelle sue mise che vedono abito e turbante in pendant, quel turbante che evoca “La ragazza dall’orecchino di perla”, capolavoro di Jan Vermeer. Può risultare simpatica, ironica, mordente e una cosa è certa: sa il fatto suo e per niente al mondo rinuncerebbe a essere anche la ‘signora della sua famiglia’.

Come ha esordito in tv e qual è stato il percorso che l’ha condotta al ruolo attuale?
Ho iniziato a lavorare in televisione nel 1999 per Stream Tv, precursore di Sky, sperimentando le basi della pay tv in Italia. Fu il teatro ad aprirmi le porte della tv. Avendo sin da giovane affiancato agli studi un percorso teatrale, avvenne che il produttore di un nuovo programma di Stream, venendo a teatro, mi propose di affiancare un comune amico attore nella conduzione di un programma dedicato al fitness e allo sport. Fu un vero tour de force, giravamo ogni giorno in esterna e in studio. Il mio approccio alla tv è stato giocoso, casuale, ma anche molto faticoso. Giravamo le parti in studio anche di notte perché ciascuno di noi aveva un altro lavoro. Io per esempio, essendomi laureata in Lettere, ero da poco docente in un liceo di Milano, e tra un’esterna e l’altra correggevo i temi dei ragazzi. Ricordo che in quel periodo dormivo pochissimo e lavoravo tantissimo.

Poi finalmente la svolta.
Sì, mi arrivò la proposta di Mediaset di far parte della redazione di ‘Tempi Moderni’, programma cult, condotto da Daria Bignardi. Quella è stata la mia iniziazione alla tv strutturata e organizzata, dove ognuno aveva la propria specificità. Fu una propizia esperienza fatta di dirette in prima serata e di rapporti con diverse professionalità del mondo televisivo. Per Mediaset lavorai anche con Enzo Iacchetti alla realizzazione di un programma dedicato a Giorgio Gaber, il signorG. In quegli anni stava nascendo La7, che sarebbe diventata presto uno dei protagonisti del panorama televisivo italiano. Alla chiusura di ‘Tempi Moderni’ molti dei miei colleghi decisero di approdare a questa nuova realtà. Io feci una scelta diversa perché mi capitò l’occasione di incontrare Massimo Bernardini, allora giornalista di ‘Avvenire’, che stava per cimentarsi per Sat2000 nella sua prima avventura televisiva, quella che poi, grazie a Giovanni Minoli, sarebbe diventata in Rai ‘TvTalk’. Ai tempi di Sat2000 il programma era tutto da costruire e io accettai la sfida. All’inizio eravamo una piccola bottega: Bernardini, io, un collega giornalista, una solerte segretaria, un paio di tecnici, e dovevamo mettere in piedi quello che poi sarebbe diventato uno dei programmi più autorevoli della tv italiana in materia di comunicazione.

Da “piccola bottega” a grande esperienza.
Mi resi subito conto delle potenzialità del nostro programma basato sulla semplice struttura del dialogo tra un gruppo di giovani ventenni e i personaggi che avevano fatto la storia della televisione. Da subito infatti parteciparono ospiti come Pippo Baudo, Bruno Vespa, Maurizio Costanzo, Renzo Arbore, Michele Santoro, desiderosi di mettersi in dialogo con i nostri giovani. Giovanni Minoli nel 2004 riuscì a traghettare questa esperienza in Rai, dove ‘TvTalk’ si arricchì delle diverse professionalità che poteva offrire il Servizio Pubblico e pian piano divenne quello che è adesso. Il mio ruolo di ‘signora degli ascolti’ nacque nel 2001 dall’esigenza di raccontare non solo cosa c’è dietro la televisione, ma anche da chi è fruita. Mi ritengo una pioniera dei Tv Big Data Scientist nella realtà italiana, e grazie a ‘TvTalk’ ho maturato quindici anni di esperienza nell’approfondimento e nello studio dei linguaggi visivi e verbali della televisione. Nell’ultimo decennio mi sono specializzata nelle audience televisive e nelle programming strategies dei palinsesti. Sono diventata esperta degli andamenti di flusso del pubblico in relazione ai mutamenti del panorama televisivo nel passaggio dall’analogico al digitale terrestre e dell’evoluzione delle piattaforme digitali e satellitari. Grazie a questa formazione maturata sul campo, dal 2014 sono consulente per ‘Porta a Porta’, per cui svolgo indagini sugli ascolti e sull’evoluzione del pubblico televisivo e sul successo dei diversi generi e dei maggiori personaggi della storia della televisione; dal 2013 ho condotto per tre stagioni una finestra quotidiana informativa all’interno di ‘Agorà’ e di ‘Mi Manda Raitre’, dove invitavo il pubblico ad affinare il proprio senso critico, suggerendo criteri di fruizione delle immagini e di selezione dei contenuti. Nell’estate del 2014 ho divulgato quotidianamente in tv per RaiSport i dati d’ascolto dei Mondiali del Brasile, registrati dalle piattaforme dei maggiori broadcasters italiani ed esteri. Affianco all’attività televisiva quella di media auditing, artistic and content curation, product and operations media managing. A tutt’oggi sono audience voice di ‘TvTalk’, in onda ogni sabato pomeriggio su Raitre.

Cosa significa affrontare una carriera come la sua e farsi strada nel mondo dei network? Quali sono le opportunità e le criticità in tal senso?
Nel corso degli anni ho imparato a non farmi abbagliare dalle luci degli studi e a non concepirmi da sola. I programmi televisivi sono il frutto di un lavoro di squadra che deve arrivare direttamente al cuore dei telespettatori. Noi lavoriamo per il pubblico ed è fondamentale mettersi continuamente in relazione con le altre professionalità che lavorano al prodotto, cercando di non dare nulla per scontato. Possono capitare mille opportunità, ma per non seguire delle chimere è di fondamentale importanza l’interazione diretta col pubblico e la sua inclusività, perché solo nell’esperienza della ‘connessione’ con i telespettatori non si perdono di vista gli obiettivi del Servizio Pubblico ed è possibile partecipare alla creazione di programmi di qualità.

Nella scaletta dei requisiti utili al proprio lavoro, quanto conta la passione rispetto alla competenza o la capacità relazionale?
La relazione appassionata è la premessa di tutto. Nel mio caso poi è di fondamentale importanza perché non avrei mai potuto appassionarmi ai laconici numeri dell’Auditel se non convertendoli nella fotografia ad alta definizione del volto dei telespettatori, traducendo i dati in valori identitari condivisi, allo scopo di offrire icasticamente ai telespettatori la consapevolezza di essere una community di utenti attivi più che di anonimi video-consumers solitari. Dunque nel mio caso non ci sarebbe passione senza relazione con il pubblico. Solo per un rapporto appassionato uno si muove, studia, lavora e diventa competente.

L’offerta televisiva del nostro Paese ci fornisce una vasta scelta, ma molti format arrivano dall’estero. Ritiene che questo sia un arricchimento o pensa che ciò inibisca e offuschi la nostra capacità creativa, penalizzando un po’ le risorse che potremmo attivare?
Penso che tutto possa trasformarsi in arricchimento se non penalizza noi stessi. Anche nell’industria televisiva ci siamo assuefatti a un certo modo di condurre le ricerche di mercato. Dobbiamo uscire dalle logiche che ci impongono un modello industriale che subordina acriticamente la creatività a un problema gestionale o di costi. Io credo che la grande industria televisiva italiana possa fare qualche sforzo in più per non soggiacere alla facilità del prodotto d’acquisto talvolta usurato in termini di qualità. Ne gioverebbe anche in termini di ascolto. Bisogna ricreare un’abitudine alla qualità, di cui il nostro Servizio Pubblico ha un’estimata tradizione. Non è detto che nel nostro Paese non vi siano eredi e non è detto che costi di più.

Quali sono, secondo la sua esperienza professionale, i generi televisivi che i telespettatori apprezzano maggiormente?
Negli ultimi anni il pubblico, inclusi i target più giovani, plaude con entusiasmo alla fiction italiana, come ci dimostra il successo di stagione di titoli come ‘I Medici’ e ‘I Bastardi di Pizzofalcone’. Credo sia il segnale che il Paese ha bisogno del luogo chiuso e sicuro del racconto per ritrovare un spazio in cui esercitare le proprie certezze. Il fatto che ‘Don Matteo’ sia ancora una delle fiction di maggior successo ci fa capire come il prete, il poliziotto e la famiglia siano posizioni di grande riscontro nell’immedesimazione del telespettatore.

In quale direzione sta andando la televisione italiana? Esistono dei cambiamenti reali negli ultimi anni o rimaniamo fedeli al modello che conosciamo?
Proprio la scorsa settimana ero presente alla conferenza stampa di presentazione del prossimo Festival di Sanremo e fuori dalla sala una vastissima folla attendeva con tremore l’arrivo di Carlo Conti e Maria De Filippi, che sono tra i più grandi mattatori della nostra televisione. Finchè ci saranno queste folle ad attenderli, finchè milioni di telespettatori li seguiranno in tv, finchè metà della platea televisiva continuerà a guardare il Festival della canzone italiana, si può affermare che siamo fedeli al modello che conosciamo. E’ pur vero che nonostante la tv generalista continui a registrare grandi ascolti, negli ultimi anni, con il passaggio dall’analogico al digitale terrestre, stiamo assistendo ad un progressivo frastagliamento del pubblico e ad una frammentazione degli ascolti conseguente al moltiplicarsi delle reti televisive. Il consumo dei prodotti non è più solo quello tradizionale dello zapping, ma c’è ormai una fruizione on demand su più piattaforme e con un consumo multi-screen, anche se non sempre si consuma solo ciò che viene prodotto dalla tv per la tv. Aggiungo che con la nascita delle tv tematiche c’è stata dal 2012 a oggi una grandissima rivoluzione, perché aumentando l’offerta con traiettorie sempre più specifiche, anche i singoli target hanno trovato canali di elezione e di conseguenza gli inserzionisti pubblicitari trovano più facilmente nicchie in cui investire, dando possibilità al mercato di rigenerarsi. Certo sarebbe auspicabile che nel creare i programmi gli editori pensassero anche alla qualità che offrono al pubblico oltre che al mercato di riferimento, per non rischiare, sul lungo periodo, un impoverimento su tutti i fronti.

Lei ha quattro figli: in quale modo riesce a conciliare professione e famiglia, tenendo conto di priorità e impegni?
Misurando le ore di sonno e pensando a quello che c’è da fare di lì a poco mentre si sta già facendo quello a cui si pensava poco prima. Insomma, non fermandosi mai. La famiglia è una società, una piccola nazione, una macchina. Le professioni di ciascuno, dei genitori e dei figli, con ogni singolarità, contribuiscono a comporre gli ingranaggi di questa macchina perché si vada tutti nella stessa direzione, quella di chi guida.

Ci vuol parlare del suo rapporto con i figli?
Mi sono sempre stupita di come siano tutti differenti e peculiari. Ho un rapporto speciale con ognuno di loro, perché le loro personalità, che nel corso degli anni affiorano sempre di più, mi portano a rispondere discretamente a ciascuno. Uno ama essere abbracciato, l’altro ascoltato, un altro ancora ama ascoltare e l’altro adora abbracciare. Sicuramente richiedono dedizione e attenzione, ma questo vale per tutti, genitori e figli. Nella nostra casa un mezzo prezioso di dialogo sereno è la musica. Ognuno è impegnato nello studio di almeno uno strumento e suonare insieme, anche se costa fatica, ci insegna a condividere momenti di armonia.

Quali sono i suoi interessi personali, tempo e disponibilità permettendo, tra una registrazione e l’altra, le esigenze e responsabilità familiari?
Mi piace leggere romanzi storici, suonare il pianoforte, e andare a Teatro. Ho avuto queste passioni fin dalla scuola media e negli anni sono maturate, anche se il tempo che vi dedico ormai non ha più lo stesso respiro..

Quali sono i suoi ‘sogni’ per i prossimi anni?
Il mio più grande desiderio si è già realizzato nel condividere la mia quotidianità professionale con grandi maestri dello spettacolo, del marketing, del giornalismo e dell’informazione. Spero un giorno di poter offrire a mia volta tutto quello di cui faccio esperienza. Per il resto, essendo approdata in tv con lo scricchiolio del palco sotto i piedi, dopo quindici magnifici anni in tv seduta dietro una scrivania non mi dispiacerebbe eliminare ogni tanto almeno lo sgabello.

SPIRITUALITA’
L’armonia tra scienza e coscienza secondo Angela Volpini, mistica e veggente amica di Pasolini

di Angela Volpini

Scienza e coscienza: è possibile un’armonia? Sì, è possibile, perché sia la conoscenza, base della scienza e della tecnologia, sia la coscienza, sono qualità e attività dell’essere umano, che non dovrebbero essere mai in contraddizione. E quando c’è contraddizione bisogna cercarne le cause perché lo scollamento tra scienza e coscienza potrebbe mettere in gioco la nostra stessa sopravvivenza.

La scienza è il risultato della spontanea curiosità che gli umani hanno verso tutto ciò che li circonda. Dopo l’osservazione e forse anche il compiacimento di trovarsi in un ambiente tanto vario e bello, suppongo che si domandino:
Come posso muovermi in questa immensità?
Che utilità ha per me tutto quello che vedo, sento, tocco?
Chi sono io che vedo?
Faccio parte di quello che vedo, sento, tocco, o sono altro?
E’ qui che può apparire la prima intuizione di essere altro da quello che uno vede e che possiamo chiamare inizio della coscienza di sé. Coscienza di sé che procede attraverso la continua distinzione da tutto ciò che è altro da sé e si pone come riferimento di tutto quello che c’è. E’ così che può mantenere la distinzione fra sé e intuire la relazione che può avere con tutto l’altro da sé fino a riconoscersi soggetto consapevole.
Questo a me pare il normale processo attraverso il quale l’essere umano prende coscienza di sé e delle relazioni con il suo mondo. Se si mantenesse così, apprenderemmo velocemente quello che è buono per noi e per il mondo e non avremmo tanti conflitti e sofferenze.

Potremmo vedere l’evoluzione e la storia umana da un’altra angolazione. Riconosceremmo nella spinta evolutiva la caratteristica della nostra natura in ricerca continua di una qualità umana sempre più libera e sciolta dal peso della necessità. Riconosceremmo la nostra tensione a creare interazioni sempre più godibili fino a capire che ciò che chiamiamo limite in realtà è la possibilità di esercitare la nostra libertà e creatività affinché a questo mondo che ci ha permesso la vita, gli si possa restituire una finalità armonica e infinita come sentiamo di averla dentro di noi.
Potremmo vedere la storia come il risultato della creatività delle generazioni passate che la offrono in dono alle future affinché il processo di umanizzazione sia sempre più facile e veloce. Potremmo ammirare i tentativi che gli esseri umani hanno fatto lungo la storia per affrancarsi dal limite, dal dolore, dalla fatica, fino a scoprire che il bello, il buono, l’armonico sono le condizioni ottimali dell’essere umano per sentirsi a casa e in comunione con il primo umano fino all’ultimo che verrà. Questo e’ il gusto di esserci!
E’ l’angolazione dalla quale si possono vedere le possibilità, le prospettive, le aperture all’infinito per ogni essere umano. E’ il punto di vista dove si può vedere che il desiderio più grande che ogni persona custodisce nel proprio profondo è l’amore. Un amore che è desiderio di comunicazione, di rivelazione del proprio sé e di scoperta dell’originalità dell’altro perché si è compreso che è nella relazione che si può essere felici. Desiderio di armonia non solo con i propri simili ma anche con tutta la natura, l’universo.
Desiderio di pace, di gioia, di gusto della vita. Quando ci si rende conto che quello che accade in noi succede anche negli altri, finalmente possiamo cancellare quell’orribile immagine che abbiamo dell’essere umano. Possiamo riconoscerci nel desiderio di bene anziché nella capacità di fare il male e riconoscere che l’umanità sta camminando verso la propria pienezza e comprendere che questa pienezza è possibile proprio in virtù di quella dinamica evolutiva e di quelle realizzazioni storiche che hanno qualificato la nostra umanità. Possiamo, quindi, pensare che il nostro obiettivo è l’infinito bene: è il divino.
Questo è il punto di vista mistico dove il procedere è sempre dalle possibilità e dalle prospettive che sono profondamente radicate in noi, nella esigenza di dare senso alla nostra vita personale e nel desiderio di godere già di quello che non è ancora ma che sappiamo dipendere da noi.

Possiamo anche riscattare molte delle conquiste umane anche se realizzate senza una intenzionalità di bene perché non ancora coscienti delle conseguenze delle nostre scelte.
Per usare le qualità umane attraverso le quali possiamo agire sia sul mondo sia su di noi, dobbiamo avere intenzionalità buone per tutti. Allora possiamo davvero usare i nostri strumenti per migliorare la qualità della nostra vita come il Creatore ha usato il suo amore per darcela.
Senza intenzionalità buona, e per essere buona deve essere l’espressione della nostra coscienza e della nostra relazione armoniosa e amorosa con il mondo, il nostro agire può essere pericoloso soprattutto per i mezzi poderosi che abbiamo creato.
Questo pericolo ci mette paura e diffidiamo delle qualità umane anziché della intenzionalità perversa con la quale molti ne usano i prodotti. Questo ci impedisce di essere orgogliosi anche delle nostre buone conquiste. Siamo arrivati al punto di temerle tutte, perché, anziché continuare il processo creativo di miglioramento delle realizzazioni, in conseguenza dei disastri ambientali e economici che questo processo ha prodotto, temiamo l’esercizio delle nostre facoltà peculiari tanto da pensare o a un arresto della espansione scientifica o addirittura ipotizzando un processo di decrescita che potrebbe causare il decadimento o la distruzione della nostra civiltà.

Come superare questo dilemma?
La risposta più semplice sta nell’additare la colpa alla malvagità dell’essere umano, ma non è così. La difficoltà nasce dal fatto che non siamo ancora capaci di riconoscerci tanto nel nostro desiderio-esigenza quanto nella nostra capacità creativa. Non siamo ancora capaci di riconoscere la libertà di cui godiamo e la creatività che sempre usiamo come le naturali qualità per farci come il nostro desiderio ed esigenza ci indicano.
Siamo scissi fra quello che sentiamo essere proprio nostro e quello che facciamo per abitare il mondo. La soluzione è metterci in ascolto e dare parole a quello che sorge dal nostro profondo perché è lì che possiamo riconoscere la nostra vera immagine. Una immagine di bontà, di speranza, di comunione che cancella dal nostro sé e dal nostro orizzonte ogni male confermandoci nell’agire sempre come esternazione del nostro desiderio d’amore, di armonia e di relazione.
Finalmente possiamo capire che siamo buoni, perché è solo nel bene, nel bello che ci riconosciamo e stiamo bene. D’altronde già l’arte che ha accompagnato tutto il cammino dell’umanità è una espressione dell’originalità soggettiva che tenta di rivelare al mondo il proprio mondo. E se nell’arte è evidente il desiderio di rivelazione del proprio mondo a tutto il mondo, se osserviamo bene, ogni scoperta e creazione umana hanno come intenzione recondita quella di migliorare la condizione umana, quella di superare i limiti per cui possiamo legittimamente pensarci buoni e non smettere di creare ma difendere le nostre creazioni dagli usurpatori che vogliono finalizzarle al potere di pochi sui molti.
Si può conciliare la scienza con la coscienza e diventare orgogliosi delle nostre realizzazioni se diamo intenzionalità buona al nostro agire e vigiliamo affinché tutto ciò che scopriamo e creiamo sia veramente per il bene di tutti. Dobbiamo difendere la creatività di ogni persona affinché si possa sempre usare per tutta l’umanità.

L’esplosione del sapere scientifico e tecnologico ha coinciso con l’emancipazione femminile. Questa coincidenza mi ha fatto molto riflettere e l’ho avvertita come un punto di svolta di tutta la storia umana. Il mondo, che è riconosciuto solo maschile, si trova a esercitare un potere totale su tutta la natura. Un potere che poteva essere di cambiamento, di realizzazione, finalmente, di un mondo umano, giusto, solidale, bello e invece è risultato prevaricante e strumento dei forti sui deboli, perché ha ridotto la creatività a una razionalità funzionale alle necessità del momento tanto da creare una realtà così complicata e intricata da cui è difficile uscire.
Voglio dire che la creatività di mezzo mondo, quello maschile, non ha potuto trovare il suo compimento positivo. Non l’ha trovata perché era appunto di mezzo mondo solamente. Mi piace vedere che per arrivare a risolvere i problemi che oggi ha il mondo, è necessario il contributo dell’altra metà.
Un contributo che non si basa più solo sulla curiosità di conoscere e di creare realizzazioni potenti, ma non orientate, bensì anche sul contributo della donna che è la speranza di un mondo dove sia possibile vivere relazioni d’amore. Per questo la donna ha continuato a essere madre. Madre di figli veri, e soprattutto madre dell’umanità possibile. Adesso è arrivato il tempo di unire la speranza di una umanità possibile che è la connessione diretta tra il desiderio di bene custodito nel cuore delle donne con le capacità realizzative sviluppate dagli uomini e decidersi di costruire veramente il nostro mondo.
Un mondo d’amore e di giustizia affinché i nuovi nati possano guardare la vita non partendo dai limiti ma dalle possibilità, dalla fiducia e non dalla paura, e poter riconoscere in ogni essere umano la novità originale che ognuno è.
Questa congiunzione sana le scissioni e le ferite e ci permette di riconoscere nella nostra capacità di amare e di creare la somiglianza con il nostro Creatore che ci ha dato l’ambiente per la vita e che noi possiamo trasformare nell’ambiente dell’amore per la felicità di tutti.
Questa dovrebbe essere la nostra creazione e il nostro grazie per l‘Amore originario.

Cenni biografici sull’autrice:
Angela Volpini è nata nel 1940 a Casanova Staffora, paesino dell’Oltrepò Pavese in provincia di Pavia. Il 4 giugno 1947 fu protagonista di una straordinaria esperienza mistica (il primo di ottanta episodi che si sono ripetuti ogni quattro mesi fino al 4 giugno 1957). In un periodo particolarmente turbolento quelle apparizioni mariane diventarono oggetto dell’appetito dei media dell’epoca e della curiosità popolare fino ad attirare in quei luoghi circa 300.000 persone in un giorno. Tale esperienza suscitò grande interesse anche in molti intellettuali come Pier Paolo Pasolini, Gianni Baget Bozzo e Raimon Panikkar, che di Angela diventarono, per qualche tempo, compagni di viaggio.
Oggi Angela continua instancabilmente a diffondere il messaggio che ha avuto in dono e poi elaborato nel corso di una vita: riconoscere il divino che è dentro di noi, diventare consapevoli delle proprie infinite possibilità di sviluppo, dare senso alla propria vita attraverso la relazione con l’altro e l’esercizio della creatività e della libertà. Un messaggio forte, capace di dare speranza al futuro e futuro alla speranza.

CULTURA
‘Noi siamo Cantautori’, una nuova rivista musicale nelle edicole
 

È piacevole sfogliare le pagine di una nuova rivista dedicata alla musica e in particolare ai cantautori. Questo gesto, una volta abituale, riporta ai tempi in cui le edicole erano frequentate con maggiore frequenza e soprattutto tanta curiosità. Era normale passare lunghi minuti cercando qualche novità o la pubblicazione di cui si era sentito parlare. La rivista in questione è ‘Noi siamo Cantautori‘ ed esce nelle edicole con cadenza mensile. Siamo in attesa del terzo numero .
Se un editore investe denaro ed energie in una pubblicazione dedicata ai cantautori, alla base c’è un sondaggio che ha individuato un numero potenziale di lettori sufficiente a mantenere in vita l’iniziativa.
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Chi vi scrive, conosce bene queste dinamiche, avendo partecipato a numerose iniziative editoriali, a partire dal 1991, quando mi vennero commissionati i primi tutorial interattivi su floppy per il computer Amiga, cui seguirono articoli su computergrafica e video d’animazione.
L’intenzione di scrivere una recensione è nata subito dopo l’acquisto del primo numero, ma ho preferito pazientare e attendere quello successivo. La prima uscita solitamente è preparata sin nei minimi dettagli, con tempistiche umane; la vera ‘battaglia’ inizia a partire da quella successiva, con date di consegna, impaginazione e stampa inderogabili.
‘Noi siamo cantautori’ punta a diventare un riferimento per chi vuole cimentarsi con l’arte della musica, con interviste ai protagonisti della scena, approfondimenti e informazioni. I primi due numeri contengono preziose informazioni sui luoghi in cui è possibile suonare e percepire un compenso, i tutorial tecnici per scegliere l’attrezzatura più adeguata alle proprie necessità relativamente a chitarre, microfoni, schede audio e software.
Gli articoli si basano su interviste e approfondimenti, un’impostazione scelta da ‘Contatto Diretto’ a partire dal 2013, per cavalcare la velocità della rete e avvicinare al contempo chi non si accontenta della scheletrica sintesi di news e twitter.
Dando uno sguardo ai titoli e alle fotografie delle copertine dei primi due numeri risulta evidente lo spazio dedicato ai personaggi che frequentano abitualmente tv, radio e social, fortunatamente però non manca l’attenzione per giovani ed emergenti come Amerigo Verardi, Dente, Claudia Crabuzza, Francesco Motta. Allo stesso modo ci si occupa di Rino Gaetano, Lucio Battisti e John Lennon, della ristampa dei dischi di Eugenio Finardi, di Leonard Cohen e del ritorno agli onori della cronaca di James Senese, recente vincitore della Targa Tenco per il miglior album in dialetto. L’offerta è eterogenea e i contenuti esulano banalità e stereotipi, privilegiando le notizie e limitando gli aggettivi.
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Come nella migliore delle tradizioni, un buon numero di pagine è dedicato alle recensioni dei dischi e ai tour degli artisti, senza trascurare le interviste agli addetti ai lavori e alle produzioni indipendenti.
Terminando di leggere il secondo numero di ‘Noi siamo Cantautori’, il pensiero corre a ‘Ciao 2001‘, la rivista punto di riferimento di almeno due generazioni. L’augurio è che questa nuova iniziativa ne erediti il prestigio, la competenza e soprattutto la passione.

‘Noi siamo Cantautori’ è pubblicata da Sprea S.p.A

CULTURA
Da ‘Trainspotting 2’ a ‘It’, passando per ‘La bella e la bestia’.
Le storie del 2017 da leggere e da guardare

Se siete appassionati di cinema, ma rientrate nella categoria di persone che devono necessariamente leggere il libro da cui è tratto il film prima di sedersi comodamente in sala, preparatevi, perché il 2017 porta sullo schermo grandi autori.

Per alcuni dovrete correre, perché la data di uscita nei cinema è dietro l’angolo. Il 14 febbraio tornano sullo schermo Dakota Johnson e Jamie Dornan in “50 Sfumature di Nero”, secondo episodio della fortunata trilogia di E.L. James. Se siete totalmente oscuri delle vicende amorose/erotiche di Mr. Grey e Anastasia Steele e sentite il bisogno di immergervi in una lettura leggera prima di San Valentino le 50 sfumature sono l’ideale. Un consiglio però: potrebbe essere l’unico caso al mondo in cui il film risulta essere meglio del libro.
Nella categoria ‘a volte ritornano’ non può mancare lui, uno dei film più attesi dell’anno: “Trainspotting 2”! Stesso regista del film cult del 1996, Danny Boyle, stessi protagonisti e stessa mente dietro il libro, Irvine Welsh. Nel caso in cui non abbiate visto il primo Trainspotting (grave grave), i libri in cui immergervi sono ben due: prima “Trainspotting”, del 1993, e successivamente “Porno”, del 2002. Vent’anni dopo, la data d’uscita nelle sale italiane di “Trainspotting 2” è il 23 febbraio.
Galeotto fu il set, dove i due protagonisti si sono conosciuti e innamorati, distruggendo sogni, speranze e illusioni di donne sparse in ogni dove. L’8 marzo 2017 Alicia Vikander, dopo il successo avuto con “The Danish Girl”, e Michael Fassbender saranno i protagonisti in “La luce sugli oceani”, tratto dal best seller dell’autrice australiana M.L. Stedman. Lui guardiano di un faro su una piccola isola in Australia, lei sua moglie. La loro vita verrà stravolta quando l’oceano porterà sulle rive della spiaggia una barca con all’interno una neonata. Preparate i fazzoletti.

Aprile vedrà protagonista, invece, Emma Watson che, svestiti i panni di Belle ne “La bella e la bestia”, interpreterà Mae Holland, eroina del romanzo fantascientifico “Il Cerchio” (“The Circle” in lingua originale), di Dave Eggers. Neoassunta nella compagnia leader nella gestione delle informazioni web Il Cerchio, Mae sceglie, per essere accettata, di abbattere ogni barriera della sua vita privata rendendo pubblica ogni sua azione. Il risultato? Un libro da non perdere.
Torna nei cinema con una doppietta anche il re del thriller e dell’orrore. Dopo “Il miglio verde”, “Carrie” o “Shining”, per citarne qualcuno, prendono vita altri due lavori di Stephen King. Il 28 luglio sarà possibile vedere “La torre nera”, diretto dal regista danese Nikolaj Arcel e interpretato da Idris Elba e Matthew McConaughey. Il film, tratto dal ciclo di otto romanzi, ha avuto dei ritardi in post-produzione, che hanno causato lo slittamento della data di uscita da febbraio a luglio.
Per quanto riguarda “It”, la cui data d’uscita sembrerebbe prevista per settembre, ancora non si hanno informazioni definitive. Il clown che ha terrorizzato grandi e bambini arriva sul grande schermo dopo la miniserie degli anni ’90. Diretto dal regista argentino Andrès Muschietti (regista anche de “La Madre”, 2013), Pennywise, incarnazione del male, tornerà a essere protagonista di incubi e terrori notturni.
Che siate amanti dell’horror, del fantascientifico o delle love story, quest’anno si avrà molto da leggere e da guardare. Sarà meglio il libro o il film?

GIOVANI REPORTER
Cento Carnevale d’Europa
E’ partito il conto alla rovescia per l’evento più frizzante dell’anno

di Gloria Savoia*

“La festa più pazza dell’anno”, lo chiamavano. Il carnevale. E’ ancora viva la celebrazione del carnevale? O è stata compromessa dall’irrompere di feste straniere? Lo spirito folcloristico carnascialesco risiede ancora negli animi dei cittadini emiliano romagnoli e italiani? A quanto pare sembra di sì. E Cento ne sarà una testimonianza. La cittadina si dipingerà di mille colori ed emozioni. Cinque le associazioni che si sfideranno il giorno del Gran Finale per il carro vincitore.

‘L’Alba di una nuova era’. E’ lo slogan della manifestazione. Trepidante l’attesa dell’evento più sospirato dell’anno a Cento, la cittadina nel cuore dell’Emilia Romagna, tra Bologna, Modena e Ferrara. Musiche festose, cortei ondeggianti e carri maestosi: così si apriranno le danze del ‘Cento Carnevale d’Europa’. Delle associazioni in sfida, i campioni in carica sono: ‘I Toponi: Fermate il mondo! Io voglio scendere …’, ‘Il Risveglio, Ridateci il Pirata!’, ‘I Ragazzi del Guercino, Pensiamo a loro’,“’Il Riscatto, DOC DOP IGP- occhio, le bufale sono qui’, e infine ‘Mazalora, Trump il Re della giungla’. Sarà corso Guercino, la principale suggestiva via del centro storico, ad ospitare la manifestazione nelle giornate del 12, 19, 26 febbraio, e 5 e 12 marzo dalle 14 alle 18.30 circa. Il giorno del Gran Finale, le cinque associazioni carnevalesche si sfideranno per la premiazione del carro vincitore.

Come da tradizione, la realizzazione dell’edizione 2017 è stata resa possibile grazie al sostegno del Comune di Cento, Ente territorio e l’Organizzazione Manservisi eventi. Ad attenderci sul palco, la prima domenica di sfilata, ci sarà lui, il famoso testimonial Mr Enjoy Gianluca Vacchi, re dei social e icona del lifestyle italiano nel mondo. Conosciuto più per i suoi balletti estemporanei, Mr Enjoy travolgerà il pubblico di piazza Guercino, intrattenendo e presentando la manifestazione.

Il carnevale di Cento è anche ‘cosmopolita’. Il patron Ivano Manservisi, nel 1990, prese in mano il potere del Carnevale conducendolo fino a livelli internazionali, fino al gemellaggio ufficializzato nel 1993 con il carnevale brasiliano di Rio de Janeiro, il più conosciuto al mondo. Fin dai tempi antichi, il gran Gian Francesco Barbieri, detto ‘Il Guercino’, perché cieco di un occhio, in alcune opere del 1600, realizzò scene e momenti festosi del carnevale. Il tempo non ha di certo cancellato questo ricordo. Anzi. Per rafforzare lo spirito folcloristico, ai primordi del 1900, i Centesi pensarono di realizzare un proprio re, come emblema del carnevale Centese. Il protagonista doveva incarnare lo spirito patriottico, e mostrare l’animo dei suoi concittadini. Nacque così Tasi, Luigi Tasini, una figura realmente esistita e di gran lunga stimata.

Misure mastodontiche. Giganti di Cartapesta. Si contano i 15 m di altezza, 15 m di lunghezza e 5,5 m di larghezza. Svettano al di sopra del cuore cittadino maschere a sbalzo, avvolgenti, coinvolte in un impasto tra finzione e realtà, che condensa una varietà di temi riguardanti l’onda dell’attualità, amalgamate alla rappresentazione ironica e caricaturale di personaggi famosi, di avvenimenti storici e di tanti fenomeni riguardanti la società contemporanea, paradossalmente collocati un clima di atemporale anarchia.

Dai più piccini ai più adulti, la costruzione del carro sembra proprio interessare tutti, come hobby personale e grande passione. In un periodo di lavoro che comprende dagli otto ai dieci mesi di duro impegno, la maggior parte dei capolavori sono interamente realizzati a Cento, negli hangar in via Manin. Combattendo il freddo, la fatica e i tanti sacrifici, la costanza e la dedizione per la passione carrista sembrano avere la meglio. Ogni associazione, sulla base dei propri gusti e del repertorio di maschere carnevalesche, decide l’argomento da trattare, sviluppando la tematica con particolari dettagli, quali coreografie, musiche ad hoc, sorprese e regali dal cielo, in grado di catturare la meraviglia dello spettatore.

E ancora, di notevole rilevanza, Luca Pedrazzi, rappresentante dell’associazione carnevalesca ‘I Ragazzi del Guercino’, informa che, in questi ultimi anni, è stata promossa la collaborazione con particolari enti e istituzioni sul territorio provinciale. “E’ stata un’opportunità decisamente costruttiva, che ci ha permesso di trasmettere la nostra grande passione, il carnevale, attraverso realizzazioni creative in cartapesta”, dice Pedrazzi. In un clima di grande attivismo formativo, il coinvolgimento di strutture per disabili, scuole primarie e scuole secondarie di primo grado ha permesso la realizzazione di laboratori creativi con l’aiuto volontario delle stesse associazioni carnevalesche. In un’ottica di un sistema educativo integrato, l’interconnessione territoriale di strutture culturali ha favorito una migliore conoscenza degli eventi ‘vicini a noi’.
Ora non resta che vivere l’attesa dell’evento più colorato e gioioso dell’anno.

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Alcuni componenti dello staff
Lo staff al lavoro
Il bozzetto del carro edizione 2017 “I Ragazzi del Guercino” di Walter Vancini e di Alfredo Bonzagni, noto scultore centese
Il carro in fase di preparazione
Un collaboratore al lavoro

*Studentessa iscritta al corso di giornalismo del Liceo Cevolani di Cento

GIOVANI REPORTER
Viaggio al termine dell’umano. Suggestioni e promemoria dal dramma dell’Olocausto
 

di Matilde Bigoni, Eleonora Cavallini, Gioia Frigo*

“Ogni conquista umana non è mai per sempre”, ha esordito così Mara Salvi, preside del liceo Ariosto di Ferrara, in occasione dell’appuntamento ‘Promemoria Auschwitz: l’esperienza del viaggio’, tenutosi nel pomeriggio del 26 gennaio scorso nella sede del’istituto cittadino.
L’incontro era finalizzato alla presentazione dell’esperienza, che ha visto coinvolti diciassette studenti delle classi quarte provenienti dall’Istituto tecnico Itis e dal liceo Ariosto, promossa dall’associazione Deina con la collaborazione dell’Istituto di Storia Contemporanea dell’Università di Ferrara.

Il progetto ‘Promemoria Auschwitz’, nato con lo scopo di formare i giovani alla cittadinanza e alla consapevolezza della complessità del reale, prevede la realizzazione di ‘viaggi di memoria’ in uno dei luoghi tristemente noti per l’Olocausto: Cracovia ed il campo di concentramento Auschwitz-Birkenau, a contatto con la realtà dei fatti accaduti nel periodo nazista. Con l’appoggio di tre tutor universitari, i ragazzi hanno trascorso i mesi precedenti alla partenza immersi nella ricerca e nello studio degli eventi che hanno segnato negativamente il ‘900.
Per la restituzione dell’esperienza, gli studenti hanno prodotto un video in cui ognuno di loro riferiva i momenti e le emozioni più significativi vissuti durante la preparazione, la realizzazione e a seguito del viaggio.
L’incontro svoltosi al Liceo è stato anche un’occasione per interrogare alcuni ragazzi, insegnati ed educatori presenti sul significato di questo viaggio.

Quali cambiamenti del vostro modo di essere o di pensare ha prodotto in voi la visita dell’ex-lager di Auschwitz e di Auschwitz II-Birkenau?
Ad Auschwitz abbiamo deciso di non fare foto per principio, e anche in altri musei, successivamente, non abbiamo usato i telefoni perché le foto non rendono ciò che rimane impresso nella memoria. Sofia

Adesso, quando sento battute riguardanti l’argomento del nazismo o ogni riferimento ai fatti accaduti mi sento colpita in prima persona. Marta

Ciò che mi sono portato a casa è un senso di sfiducia verso l’essere umano. Bisogna lavorare sulla solidarietà. Pietro

Non è la stessa cosa essere vittima e carnefice. Giulia

Dopo questo viaggio,quale esortazione vorreste fare ai ragazzi più giovani?
Vedo continuamente atteggiamenti ostili verso gli altri ragazzi, e già la vita è dura. Dovrebbero capirlo loro in prima persona. Giulia

Invito ad andare sul posto. È davvero un viaggio dell’esistenza. Giulia

Ci indigniamo per quello che è successo, però oggi questa conquista di libertà e umanità non deve essere persa. Irene

Com’è stato essere uno dei pochi testimoni di un’esperienza come questa, in classe?
L’abbiamo raccontato in tutte le lingue! I nostri compagni erano molto interessati, anche perché molti di loro avrebbero voluto vivere la nostra stessa esperienza. Marta

In ognuno di noi c’è una parte buona e una cattiva. Ne ‘Le sorgenti del male’ Zygmunt Bauman definisce “un confine poroso” quello tra l’essere malvagi e l’essere normali, e quindi si chiede chi sia veramente il colpevole di ciò che è successo. Lui la definisce la tattica della “diffusione di responsabilità”. Secondo voi?
Eichmann, ad esempio, ne ‘La banalità del male’ della Arendt si difende continuando a dire che ha solo eseguito degli ordini, quindi che la sua responsabilità era nulla. Ma la responsabilità è di tutti. Nel momento in cui tu ti rendi conto di ciò che stai facendo, una parte di responsabilità ce l’hai. Irene

Alcuni studiosi del post olocausto l’hanno chiamata colpa collettiva. Va distinta in gradi di responsabilità. Però noi siamo indifferenti. Certo, non siamo i colpevoli principali. Attorno a noi avvengono drammi che sono altrettanto gravi e drammatici e chi si gira dall’altra parte ne è altrettanto colpevole. Professoressa Mingozzi

Cosa provereste tra qualche anno a tornare negli stessi luoghi?
Da ragazzi si provano delle emozioni che ti arrivano direttamente, che tu non riesci bene a spiegarti. Magari, crescendo, la cosa può essere vista in maniera più razionale e matura. Anche se la razionalità, quando si parla di eventi del genere, non esiste. Giulia

Qual è lo scopo di questo progetto?
Serve a costruire un puzzle per avere una vista completa dei fatti accaduti. Un ulteriore sviluppo del progetto sarebbe proprio che i ragazzi che hanno vissuto l’esperienza facessero da tutor alle nuove generazioni. Margherita

Qual è stato un momento o un particolare che vi ha colpito di più durante la visita ad Auschwitz?
Alla vista di quei luoghi ho avuto una sensazione di solitudine e desolazione. Come se fossi sola, in un campo enorme. Sofia

A me hanno colpito i graffi che sono presenti sulle pareti delle camere a gas. Vogliono simboleggiare la ricerca di una via d’uscita anche quando tutto è perduto. Silvia

La stanza dei capelli mi ha colpito particolarmente. Rappresenta la femminilità rubata. Giulia

Gli oggetti ritrovati dei bambini rappresentano fino a dove la crudeltà dell’uomo può arrivare. Pietro

Attraversato il cancello mi sono immedesimato in queste persone ignare di ciò che le attendeva. Edoardo

*Alunni del Liceo L. Ariosto di Ferrara

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