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Giorno: 25 Marzo 2017

Il problema dell’immigrazione sregolata

Da Prof. Enrico Gherardi – naturalista e docente di geografia.

Come insegnante lo ripeto da più di 10 o 20 anni, ora praticamente lo trasformo in un APPELLO ai politici nostrani ed europei; comincio citando il testo di Geografia che ho usato a scuola: “Il mondo globalizzato” – Ed.Markes – al capitolo Demografia, paragrafo sulle migrazioni – prime righe in breve: “L’integrazione è possibile solo quando il numero degli immigrati è RIDOTTO (e il valore ovviamente può cambiare da Paese a Paese), altrimenti si crea uno Stato nello Stato oppure si formano i ghetti, e perciò l’integrazione non è PIU’ possibile.” Pensate che i nostri politici, amministratori e bigotti vari abbiano bisogno di qualche lezione di Demografia? Penso proprio di sì e che debbano ritornare a studiare (Ricordo che quello suddetto è un testo scolastico “di sinistra”). Questa è scienza, non razzismo, ok? In fatto di ghetti penso al quartiere completamente islamizzato di Maalbeck, a Bruxelles, patria dei terroristi delle stragi di Parigi. Secondo punto: NON possiamo continuare con quest'”accoglienza” sgangherata, irrazionale e bigotta, poiché non possiamo risolvere noi il problema dell’alto tasso di natalità dei Paesi poveri in questo modo. L’intervento deve essere dei nostri governi verso quei governi africani e mediorientali, responsabilizzandoli verso una politica di denatalità, come in India e in Cina (uno o due figli per coppia). Altrimenti MILIONI di persone continueranno a fuggire dai loro Paesi. Per esempio: la Nigeria ha più di 170 milioni di abitanti, fra 50 anni ne avrà un miliardo, con questi tassi di natalità! Beh, diventiamo tutti nigeriani? Eppure son Paesi ricchi di risorse e materie prime, ma hanno governi corrotti (dalle multinazionali, che sfruttano manodopera a basso costo) e che non sanno distribuire equamente la ricchezza del Paese. Ma son i loro abitanti che, invece di fuggire, devono contestare i loro stessi politici, pretendere una giusta politica sociale (dato che se ne fregano), come abbiamo fatto noi europei nei secoli scorsi contro dittature e regimi assoluti; ma soprattutto son le donne che devono emanciparsi, come hanno fatto le nostre donne negli anni ’60-’70 del secolo scorso, contribuendo all’abbassamento del tasso di natalità. QUINDI: invece di “spedire” in quei Paesi in via di sviluppo dei missionari religiosi, per cui la vita è un dono, e che contribuiscono INDIRETTAMENTE alla morte di migliaia di bimbi denutriti e macilenti, dovremmo mandare volontari LAICI, che insegnino alle donne ad emanciparsi, e che possono così pure evitare di restare incinte, a fronte di tutte le violenze sessuali che subiscono! Da naturalista quale sono informo: la vita NON è un dono, ma capita, se c’è l’incontro fra due gameti e che vada a buon fine. RICORDATE bene tutti quanti: finchè continuerà unicamente quest’accoglienza – ripeto – sgangherata, irrazionale e bigotta, in quei Paesi non cambierà mai NULLA!

E’ nata CLARA: la nuova azienda che si occuperà della gestione dei rifiuti in 21 Comuni del ferrarese

Ieri è stata una giornata particolare, un giorno quasi di festa. Ieri sì è dato inizio ad una nuova storia, fatta di vicinanza, apertura, sicurezza, efficienza e rispetto. Aggiungerei anche un altro aggettivo: speranza. Ieri infatti sì è avuta la celebrazione ufficiale, il battezzo per così dire, di una nuova realtà nel campo dell’ambiente e della gestione dei rifiuti, è nata CLARA.

Quando sì parla di ambiente, soprattutto ad una conferenza, il rischio è sempre quello di cadere nella retorica delle parole vane, quelle belle a sentirsi ma che poi non hanno ricadute sul reale. Ma ieri tutto ciò non è successo. Quello che sì è visto invece è stato il futuro che potrebbe diventare presente, un futuro dove, per citare il presidente di Area, Gian Paolo Barbieri, “i rifiuti possono diventare risorse”, risorse che generano economia, un’economia che si riversa in quello che è il ciclo della sostenibilità. Sì perché è proprio a questo che si mira, non una mera nuova azienda che fa del riciclo solo una mission ma che poi nella realtà si perde nella cattiva progettazione. No, e se i romani ci hanno insegnato qualcosa, è che ‘nomen omen’ e cioè il nome è presagio, e il nome di CLARA sta ad indicare trasparenza, di una azienda che sarà pubblica, i cui proprietari sono i 21 comuni della provincia di Ferrara che hanno accettato la sfida lanciata nel 2015.

Un’azienda che vuole essere un ponte tra l’alto e il basso ferrarese, che mira ad un’efficienza che possa portare in pochi anni sia ad una salvaguardia dell’ambiente, sia ad un risparmio ad i cittadini. Cosa che colpisce è anche la maniera nella quale si prende questo impegno, una maniera innovativa, e cioè tramite un “manifesto per la rinascita dei rifiuti” , testo che in 5 punti racchiude le fondamenta di una visione che in sé racchiude il seme di un progetto lungimirante e che si può riassumere nelle parole prese proprio al suo interno, e cioè che dal recupero dei rifiuti, nasce la sfida per una società più giusta e un ambiente più pulito. Fa riflettere come un’azienda scelga queste parole, ed anche durante la cerimonia sono stati pochi i momenti dedicati ai dati, numeri, momenti che nonostante la propria importanza possono apparire sterili a chi non è addentrato nel settore. I relatori invece hanno sapientemente correlato i loro interventi con delle parole che avessero un’immediata ricaduta nel reale ed è per questo che uno sguardo nuovo può essere offerto attraverso chi ha capito che i ‘rifiuti’ non vanno “buttati”, ma vanno fatti “rinascere”. Ma questo, ed è stato sottolineato, non è solo compito di CLARA: un fattore fondamentale nel progetto CLARA è la sensibilizzazione e la responsabilizzazione dei cittadini, che in tutto ciò giocano un ruolo fondamentale e che grazie all’innovativa tariffa su misura saranno anche ‘premiati’ in base alle loro ‘virtù da riciclo’.

Chi è intervenuto, dai sindaci di Cento e Copparo Fabrizio Toselli e Nicola Rossi, al presidente di Atersir Tiziano Tagliani, passando per Nicoletta Bologna, amministratore unico di CMV Raccolta srl, fino ad arrivare a Paola Gazzolo, assessore alla difesa del suolo e della costa, protezione civile e politiche ambientali, (purtroppo il Ministro Galletti è stato trattenuto a Roma per impegni istituzionali), ha messo la propria faccia, il proprio impegno (soprattutto nel caso dei sindaci dei 21 comuni) in quello che sì è un soggetto nato ieri, ma che viene da un’esperienza già avviata, consolidata e radicata nei territori. La speranza che ci si porta dalla manifestazione di ieri è quella che la sostenibilità sia un gioco di squadra, e che per far sì che un rifiuto diventi risorsa e non un scarto destinato all’inceneritore, bisogna essere tutti coinvolti, dai cittadini alle aziende che se ne occupano, e CLARA sembra aver accettato questo questo onere mettendo in campo tutte le migliori qualità.

Né cattivi né primitivi: cronaca della criminalizzazione dei No Tav

Complesso di ‘Nimby’, acronimo che sta per: Not In My Back Yard. Wikipedia lo descrive come “atteggiamento che si riscontra nelle proteste contro opere di interesse pubblico o non, che hanno, o si teme possano avere, effetti negativi sui territori in cui verranno costruite, come ad esempio grandi vie di comunicazione, cave, sviluppi insediativi o industriali, termovalorizzatori, discariche, depositi di sostanze pericolose, centrali elettriche e simili. L’atteggiamento consiste nel riconoscere come necessari, o comunque possibili, gli oggetti del contendere ma, contemporaneamente, nel non volerli nel proprio territorio a causa delle eventuali controindicazioni sull’ambiente locale”.

Naturale dunque che l’etichetta venga pregiudizialmente appiccicata al Movimento No Tav della Val di Susa dai critici di varia estrazione: sono montanari primitivi, nemici del progresso, che protestano perché non riescono a guardare al di là della propria valle. E attraverso questa de-politicizzazione della protesta si tenta, all’inizio, di renderla innocua. Poi però arrivano gli anni 2000, il movimento dà prova di capacità tutt’altro che primitive. Gli attivisti elaborano dati e acquisiscono elementi conoscitivi e quindi costruiscono un sapere differente: “i No Tav hanno ragione perché così dicono i risultati che hanno raggiunto gli studi tecnico-scientifici degli esperti”, una mole di lavori e di conoscenze che difficilmente si ritrova nelle altre esperienza di protesta sociale. Mettono in pratica un modello alternativo di progresso e portano avanti pratiche di partecipazione dal basso, facendosi sostenitori di una visione non convenzionale della democrazia. È quello che è accaduto con l’“acquisto collettivo dei terreni” nei pressi delle aree di cantiere o con la “Libera Repubblica della Maddalena”, il presidio permanente a Chiomonte: da maggio a giugno 2011, quando viene sgomberato dalle forze dell’ordine, è stata “un’esperienza importante di due mesi di autogestione”. E quindi bisogna cambiare strategia, non più il muro di gomma che finge di ignorare la protesta, ma la criminalizzazione e la creazione di un nemico, con la comparsa della categoria del ‘terrorismo’. Cattivi sono personaggi sovversivi, affiliati a gruppi insurrezionalisti variamente nominati – anarchici, black bloc, attivisti dei centri sociali – sempre pronti a fronteggiare lo Stato agendo attraverso forme illegittime: questi ‘professionisti della violenza’ sarebbero stati in grado di trascinare nelle loro modalità d’azione i valligiani più primitivi. Se non fosse che anche questa seconda narrazione viene neutralizzata, attraverso “la conoscenza reciproca e i processi di socializzazione e solidarietà” che il movimento mette in atto anche grazie alla sua intergenerazionalità.

A parlare mercoledì pomeriggio nella sala al terzo piano di Palazzo San Crispino – sede della libreria Ibs+Libraccio – è Alessandro Senaldi, autore di ‘Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione’ (Ombre Corte, 2016), scritto nella doppia veste di ricercatore sociale e di militante, già nel Laboratorio Crash di Bologna e ora per lo più nella galassia dei movimenti per la casa. Sì perché per descrivere e analizzare un conflitto che dura ormai da più di venticinque anni l’autore adotta un approccio etnografico ed esplicitamente militante, facendo ricorso alla propria esperienza di attivista. “Ci sono due verità – continua Senaldi – quelli che considerano la Tav un’opera necessaria e i No Tav che sono contrari”. “Ho voluto dare spazio ai senza voce”, racconta il ricercatore, attraverso l’osservazione diretta, o meglio “partecipante”, delle forme organizzative e delle azioni del movimento e “una trentina di interviste”, che senza quella partecipazione e quindi la creazione di un rapporto di fiducia con gli attivisti sarebbero state difficili da realizzare. Insomma non aspettatevi un saggio accademico asettico e ‘politically correct’, ma un vero e proprio contro-discorso e una contro-narrazione dal punto di vista dei cattivi e primitivi montanari.

Il testo poi analizza anche “i processi di criminalizzazione e le tecniche di controllo”, quello che Foucault avrebbe chiamato “disciplinamento”, come spiega Senaldi, attraverso i quali i mezzi d’informazione e gli attori riconducibili a quella che l’autore nel testo definisce “compagine istituzionale” o “statale” (forze dell’ordine e magistratura) provano a screditare e delegittimare la mobilitazione valsusina. Ne risulta una narrazione della “dinamica fra il livello repressivo, le forme di resistenza messe in atto dal movimento e il cambiamento che tutto ciò comporta”.
A questo proposito Alessandro Senaldi parla di “diritto alla resistenza” e di “azioni radicali”: “non è lo stesso tipo di violenza di una rissa al bar, la violenza politica è diversa proprio perché c’è quell’aggettivo, ‘politica’. Proprio per questo si tenta di depoliticizzare il gesto in modo che rimanga solo la violenza”. E come attivista aggiunge che la sfida dei movimenti sociali è “riuscire a far capire che dietro ad azioni radicali c’è una struttura di valori e una possibilità di alternativa di società”.
Parole che al giorno d’oggi, nel tempo che ci è stato dato in sorte di vivere, ma forse non solo nel presente, impongono una grande consapevolezza della pericolosità dello strumento che si ritiene legittimo usare nell’agone politico e dunque un grande senso di responsabilità: in altre parole se si ammette la violenza come uno degli strumenti della politica, bisogna poi essere pronti ad affrontare le conseguenze delle azioni radicali messe in atto.

Morte di un comunista

In questo paese la verità non esiste e non si può dire: i cannoni di Mussolini , le vacche di Fanfani spostate da una stalla all’altra… qui tutto è una bufala, lo Stato vive sulle bufale ai danni degli altri paesi europei, sull’onesta e ingenua capacità professionale di tanti cittadini lasciando il potere alle varie mafie e mafiette che sporcano la piazza, è capace perfino di sovvenzionare il terrorismo perché l’interesse dei pochi e dei cosiddetti amici sia salvaguardato…”. Stavo ragionando così quando dalla televisione ho appreso della morte di Alfredo Reichlin, un comunista che non aveva paura di essere comunista, meglio non se ne vergognava, atteggiamento che purtroppo ha informato negli ultimi anni il grande partito popolare che aveva salvato l’Italia dai piccoli ma determinanti colpi di stato del periodo De Gasperi- Scelba . La storia dice altre cose, dice che De Gasperi aveva salvato il Paese dal pericolo comunista, disegnato da quell’intelligente ma volgare scrittore che era Guareschi, il quale aveva offeso, mi correggo, ha offeso la povera gente dipingendo gli uomini con tre narici e le donne con tre tette.
Credo che Alfredo Reichlin fosse guardato dalla borghesia con molto sospetto: era un aristocratico. Ricordo che molti compagni fasulli lo accusavano spesso di essere un aristocratico, il partito comunista non ammetteva simili cabrate politiche, purtroppo il perfetto comunista andava uniformandosi al disegno di Guareschi e, allora, era necessario passare, nemmeno silenziosamente, dall’altra parte, dalla parte che ho sempre definito dei“ golpisti”.
Oggi possiamo dire che l’Italia ha pagato un prezzo troppo alto la fuga verso un capitalismo becero. Ne parlammo con Reichlin in quei giorni drammatici della strage di Bologna e tornammo inevitabilmente sul discorso un anno dopo, a pochi giorni dall’anniversario del massacro, che aveva un terribile significato politico: aver colpito Bologna, la capitale rossa, aveva un significato chiaro, era necessario chiudere la stagione barricadera, stringere la mano a una borghesia che aveva concepito un piano diabolico. Reichlin mi chiamò al telefono e mi chiese: che cosa facciamo per il 2 Agosto? Gli risposi che ero imbarazzato, c’erano molte cose da dire ma sembrava che il partito avesse scelto il silenzio. Come?, chiese, vieni a Roma che ne parliamo. Chiusi nell’ufficio del direttore dell’Unità parlammo a lungo. Prima volle sapere a che punto erano arrivate le indagini. Punto morto gli risposi e gli spiegai che i magistrati bolognesi dell’ufficio istruzione avevano cassato tutta l’inchiesta della Procura, liberando dal carcere la ventina di neofascisti accusati a vario titolo della strage, a cominciare dall’omicidio del giudice romano Amato, considerato l’uomo che aveva messo più profondamente il dito nella piaga dell’attentato.
Reichlin mi guardò e, con fare cortesemente accusatorio, mi chiese: “perché non scrivi queste cose?”. Le ho scritte, risposi, ma, qui a Roma c’è qualcuno che cancella, taglia, censura. Alfredo alzò la cornetta e al telefono ordinò al redattore capo, mi pare rabbiosamente, “vieni qui per favore”. Quando il collega arrivò gli disse con voce dura: “Il pezzo sulla strage lo scrive Testa, ha tutto lo spazio che vuole e, quando arriva l’articolo, me lo portate qui, lo passo io”. Il pezzo uscì finalmente senza tagli

DIARIO IN PUBBLICO
Le feste di laurea dei giovani ferraresi conformisti

Di ritorno da una importante serata a Mirandola in cui si erano radunate un’ottantina di persone, capeggiate dal sindaco, dall’assessore alla cultura e dal presidente dell’associazione Pico della Mirandola, per ascoltare Portia Prebys e chi scrive relazionare sul Giardino dei Finzi-Contini, il taxista ci riporta a Ferrara verso le 11 di sera.
Imbocchiamo via Terranuova per svoltare poi in via Savonarola e di fronte alla chiesa di San Francesco troviamo un muro di giovani col bicchiere in mano, sguardo fisso, occhio sbarrato, che circondano tre o quattro coetanei incoronati d’alloro. Da lontano un brivido premonitore ci aveva avvertito del rito che si stava compiendo, quando nell’aria notturna si era liberato il gracidio del “dottore, dottore”, che raggiunge il diapason nella parola forse più amata dal popolo ‘itagliano’. Quel vaffa… che imperversa non solo nella politica, ma che diventa parola di culto quando, in seguitissimi spettacoli, celebri star di stanza permanente nei salotti televisivi lo intonano riferendolo a signore anche anziane tra gli scroscianti e convinti applausi della platea.

Tentiamo un primo passaggio, ma lo sguardo vacuo e leggermente minaccioso della ‘meglio gioventù’ ci avverte di non insistere. Pazientiamo per un po’ e l’autista Nicola, che ha compiuto i suoi studi e l’Università proprio a ‘Ferara’, un centimetro alla volta riesce con laboriose manovre ad aprirsi un varco nel muro umano. Il silenzio tombale dei poveretti abitanti nelle case circostanti ci dice che ormai quelli sono il modo e la maniera inestirpabili del rito della raggiunta maturità(!). Intendiamoci non sono né un fustigatore dei costumi né tanto meno un nostalgico del tempo passato, quando per i maschi la festa di laurea si concludeva nei casini e le giovani al massimo organizzavano una ‘festina’ nei ‘baladur’ in zona. Celebre ‘Le due fontane’ ribattezzate ‘Le due pompe’.
Ciò che urta la mia antica sensibilità è la volgarità e il conformismo delle scelte, di queste scelte, che riducono i giovani allo stato di pecore con susseguente deposito di deiezioni nel muro dell’antica e bella chiesa. Il bicchiere in mano, lo sguardo impenetrabile, la barbetta minacciosa, la scollatura procace, il belletto cadaverico che contrasta con le labbra color sangue.
Poi, forse, se diventeranno persone impegnate, lavoratori convinti (se troveranno lavoro), genitori modello in qualche momento ricorderanno quel rito con nostalgia o vergogna.
Quello che contesto è il conformismo nel perseguire modelli non solo obsoleti, ma francamente stupidi, legati a un’idea di goliardia che non dovrebbe esserci più o si sarebbe dovuta adeguare a tempi ben diversi, quando ormai la forza dirompente del ‘vaffa…’ diventa triste memoria di una sua vitalità ormai scomparsa. E si veda la parabola del Grillo nazionale.
Così quando per ragioni di percorso dopo mezz’ora ripetiamo la stessa ‘manfrina’ stancamente mi adeguo e secondo la prassi americana di fronte al muro umano alzo il dito medio. Non serve a nulla in quanto quegli sguardi non vedono in quanto tutti sono presi dal loro narcisismo nel celebrare il rito. Scrive Denise Pardo su ‘L’Espresso’: “Ora, l’aria da sorci verdi del tempo sta rendendo il “vaffa”, il deprecato grido di battaglia dei grillini quasi un “poffarbacco” contemporaneo. O forse si è fatta l’abitudine al genere e questo è di nuovo un segno malefico”

La città della cultura frattanto tenta di adeguarsi alla improrogabile e agognata promozione della Spal in serie A. Mentre le minacciose grida degli sportivi che invocano l’apertura di non so quale gradinata portano la polverizzazione dei biglietti per partite fondamentali si tenta di programmare un nuovo volto del quartiere che ospita lo stadio.
Chissà se nella mia tarda età riuscirò a vederne qualche frutto.
Si apre il salone del Restauro e dei Musei. Fa bene al cuore vedere turisti che fotografano non le vetrine delle leccornie o intenti a farsi selfie spiritosi, ma i monumenti della città, spesso quelli meno reclamizzati. Tra le proposte non sempre condivisibili sul binomio ormai imprescindibile cultura-economia il Salone dimostra una vitalità davvero convincente. Venerdì parteciperò alla giornata dei Musei e la proposta dei temi sembra davvero allettante.
In questa primavera che segue un inverno primaverile sembra che i luoghi della mente e dello spirito siano i più bersagliata dalla follia.
Ultimo: l’attacco al Parlamento di Londra. E un pensiero mi tormenta. Non sarà che il concetto di imitazione produca danni irreversibili alla cultura, alla società, alla democrazia?
Un discorso forse ingenuo che, tuttavia, induce alla riflessione, specie su fatti minori come il muro umano di giovani col bicchiere in mano.