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Giorno: 12 Giugno 2017

Le surreali donne-albero di Rita Kernn-Larsen, la Picasso danese

Da organizzatori

Alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, fino al 26 giugno 2017 si celebra il periodo surrealista della carriera di Rita Kernn-Larsen, rinomata pittrice danese, con la mostra dal titolo ‘Rita Kernn-Larsen. Dipinti surrealisti’ a cura di Gražina Subelytė. Con questa esposizione, intima e raccolta, si sono inaugurate due nuove sale espositive del museo, le Project Rooms: spazi destinati ad accogliere progetti espositivi raccolti e mirati, finalizzati ad approfondire il lavoro di un artista, o specifiche tematiche legate alla produzione artistica di un determinato interprete del XX secolo, legato alla collezione di Peggy.

Nel 1937 Rita Kernn-Larsen (Hillerød 1904 – Copenahagen 1998) incontra a Parigi Peggy Guggenheim e l’anno seguente viene invitata dalla collezionista americana a esporre presso la propria galleria londinese Guggenheim Jeune, in una personale che segna l’inizio della carriera ‘surrealista’ di Peggy. Questa mostra alla Collezione Peggy Guggenheim riunisce una preziosa selezione di dipinti surreali di Rita Kernn-Larsen, pittrice tuttora poco nota al di fuori dell’ambiente danese. Si tratta della prima esposizione di rilievo dedicata alle opere del periodo surrealista della Kernn-Larsen, mai organizzata dai tempi della mostra alla Guggenheim Jeune, oltre i confini scandinavi, e oltre metà delle opere esposte a Palazzo Venier dei Leoni sono apparse nella sua personale organizzata da Peggy nel 1938.
L’attività di Kernn-Larsen in ambito surrealista è tanto intensa quanto breve e coincide con il momento della sua maturazione artistica, dopo aver sperimentato vari stili come spesso accade, e realizzato opere legate in particolare all’estetica cubista e soprattutto a quella molto personale di Fernand Léger. Tra il 1927-29 Rita frequenta l’Accademia di belle Arte di Copenaghen, ma delusa della metodologia didattica, nel 1929 si trasferisce a Parigi, dove incontra il futuro marito, il giornalista e mercante d’arte ebreo di origine austriaca Isaac Grünberg (1897-1953), molto noto nei circoli artistici. Insieme frequentano l’ambiente vivace dell’avanguardia artistica della metropoli francese. Nel 1930-32 segue i corsi dell’Académie Moderne di Léger: studia composizione, le forme e i volumi, e diventa la migliore studentessa dell’artista, che le affida il compito di trasferire e ingrandire su tela i propri disegni.
Nel 1934, da poco rientrata in Danimarca, Kernn-Larsen tiene la sua prima mostra personale da Christian Larsen Kunsthandel a Copenaghen: le opere sono paragonate a quelle di Léger e Georges Braque e un critico la definisce la ‘Picasso danese’.
Le ambizioni internazionali del Surrealismo parigino iniziano a diffondersi in Danimarca nel 1934. Proprio in quell’anno Kernn-Larsen, venuta a conoscenza del movimento mentre è a Parigi, entra in contatto con il gruppo surrealista danese di Copenaghen grazie allo scrittore e artista danese Gustaf Munch-Peterson (1912-38), che scrive componimenti surrealisti. Nel 1935 inizia ad esporre con i surrealisti e diventa esponente di punta di questo appassionato movimento radicale che raccoglie artisti e intellettuali, con un ruolo di primo piano e che durante gli anni trenta presenteranno le loro opere a Copenaghen, Oslo, Lund, Londra, Parigi e New York.
Kernn-Larsen fece proprio l’aspetto rivoluzionario del Surrealismo con grande efficacia ed entusiasmo. Nel 1940 afferma che “Dalle nebbie degli anni trenta emerse uno spirito nuovo e come l’alito di un drago mi pervase”. Tra le maggiori mostre a cui partecipa è da annoverarsi anche la famosa Exposition Internazionale du Surréalisme alla Galerie des Beaux-Arts di Parigi, dal 17 gennaio al 24 febbraio 1938, dove presenta due dipinti, uno dei quali è Autoritratto (conosci te stesso) 1937. Dopo soli tre mesi dalla chiusura di questa mostra, tiene la personale da Guggenheim Jeune dove espone addirittura trentasei dipinti surrealisti.

Molte opere esposte alla mostra a Guggenheim Jeune sono caratterizzate dal tema della donna-albero, ovvero le figure femminili raffigurate con sembianze di un albero. Alcune forme biomorfe di donna – albero si ritrovano anche nella parte sinistra di uno dei maggiori dipinti di Kernn – Larsen, nonché uno dei più grandi ad essere esposti a Guggenheim Jeune, La festa. Secondo l’artista l’opera rappresenta “L’idea surrealista di una festa”. La solidità della figura femminile è dovuta all’influenza di Léger, mentre la posa deriva senza dubbio da Jean-Auguste-Dominique Ingres e la sua Bagnante di Valpinçon (1808): con la schiena rivolta all’osservatore e un vaso trasparente contenente due pesci al posto della testa, la donna sta mangiando una mela, come Eva nell’Eden. Si potrebbe pensare che l’idea di festa surrealista sia per l’artista quella di un frutto proibito per la società del tempo.
Il critico Chadwick nota che, “influenzate dal surrealismo danese Freddie, così come da [Max]Ernest e [Yves] Tanguy, le femme-arbres di Kernn-Larsen riflettono il piacere delle fitte foreste della mitologia nordica e mostrano uno stretto legame con i dipinti di [Paul] Delvaux sullo stesso tema.
Alla fine della guerra Kernn-Larsen si trasferisce nel sud della Francia, a Saint-Jeannet, sua residenza principale fino al 1992. Allontanatasi dal Surrealismo, fonda la sua arte sulla natura e sull’astrazione “era un vero paradiso, dipingevo tutto quanto mi circondava e tutto si fece più semplice”. Ispirata dalla luce della campagna francese, i colori delle sue opere, soprattutto i gialli e i verdi, diventano più vivaci. Nei decenni seguenti le sue opere diventano man mano non figurative. Sperimenta il collage, che fa riaffiorare elementi surrealisti, e si dedica alla ceramica su consiglio di Picasso, che nel fra tempo conosce. Negli ultimi anni di carriera espone con regolarità. Nel 1986, ad esempio, il curatore e storico dell’arte Arturo Schwarz, sceglie tre suoi dipinti surrealisti per la Biennale di Venezia, (Conosci te stesso) e La festa. Nel 1995 le viene tributata una retrospettiva al Randers Kunstmuseum, in Danimarca. Kernn-Larsen muore a Copenaghen il 10 aprile 1998.

Nella vita affascinante e versatile di Kernn-Larsen il momento più significativo e produttivo rimane però quello surrealista: “Il periodo surrealista fu straordinario… Il mio momento migliore come artista”, conferma nel 1967. In quegli anni si spinge, infatti, a creare un’arte audace e a tratti ardita, se paragonata a quella di soggetto realista.
E riprendendo il titolo di un’opera esposta a Guggenheim Jeune nel 1938, il lavoro di Kernn-Larsen, i mutevoli temi socio-politici condizionati dalla guerra che influenzarono la sua vita, i labirinti dell’immaginazione e del subconscio che attraversa insieme agli altri artisti surrealisti sono, nel vero senso della parola, ‘un’avventura affascinante nell’ignoto’.

A Villa Bardini a Firenze in mostra il nero dal quale nasce ogni cosa

Di Maria Paola Forlani

Fino al 9 luglio Villa Bardini a Firenze ospita nelle sale espositive del terzo piano la collettiva di arte contemporanea ‘Nero su Nero. Da Fontana e Kunellis a Galliani’ (catalogo Prearo Editore). Curata da Vera Agosti, l’esposizione è promossa dalla Fondazione Parchi Monumentali Bardini Peyron della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze in collaborazione con Tornabuoni Arte e Fondazione Roberto Capucci.

‘Nero su nero’ è una originale riflessione sull’uso del colore nero nella pittura e nella scultura italiana a parete attraverso una selezione di 31 capolavori di noti maestri, rappresentativi dei principali momenti della storia dell’arte contemporanea del nostro Paese. Ecco allora lo Spazialismo con 5 tagli neri di Lucio Fontana e un’opera di Paolo Scheggi; l’Informale con un catrame di Alberto Burri e un raffinato piatto; il Concettuale con Vicenzo Agnetti; l’Arte Povera con una grande scultura di Mario Ceroli e un lavoro di Jannis Kounellis, il famoso maestro recentemente scomparso. E ancora la Pop Art con quattro tele di Tano Festa e Franco Angeli, la Trasavanguardia con il dipinto ‘La Monaca’ di Enzo Cucchi; esposte inoltre opere di personalità uniche e singolari come Gino De Dominicis e Nunzio; il gruppo degli Anacronistici e il Magico Primario è rappresentato da Omar Galliani, un campione del disegno contemporaneo che ha saputo nobilitare questa pratica e attualizzare la tradizione classica e rinascimentale.


In mostra anche lavori di Nicola Samorì, pittore amatissimo in Italia e nel Nord Europa e protagonista nell’ultimo Padiglione Italia della Biennale di Venezia e di Francesca Pasquali, con le sculture di cannucce e neoprene che creano superfici vibranti e cangianti. E poi Lorenzo Puglisi, che reinterpreta i capolavori dei maestri del passato e i fiorentini Iacopo Raugei, con allegorie contemporanee e un nero sontuoso, ricco e composito, che talvolta vira impercettibilmente verso altre tinte Nell’apparato illustrativo viene ricordato il lavoro dell’antropologo Michel Pastoureau sulle implicazioni storiche e sociologiche del colore.
Un originale approfondimento del nero nella moda viene offerto anche dallo stilista Roberto Capucci che presenta, nell’ultima sala, alcuni abiti neri in dialogo con tre lavori di Alberto Burri, Enzo Cucchi e Omar Galliani, una sorta di summa e sintesi dell’intera collettiva.

‘Nero su Nero’ è una collettiva sul nero con caratteristiche singolari. Una selezione lirica, assolutamente personale e parziale, sull’uso di questa tinta nell’arte contemporanea italiana, nella pittura e nella scultura, senza nessuna pretesa di esaustività e completezza, anzi con la certezza dell’impossibilità di ospitare un’intera enciclopedia del nero, ma con il contemporaneo desiderio di offrire uno spaccato armonioso, vivo e interessante di tante eccellenze della nostra storia, dai maestri alle giovani promesse. Ѐ un’emozione, una suggestione al nero. Già il titolo della rassegna è speciale, essendo tratto dall’omonimo libro di Leonardo Sciascia, ‘Nero su nero’, grazie all’autorizzazione concessa dagli eredi e dalla Fondazione culturale omonima.
Il volume pubblicato nel 1979, è una sorta di diario, di raccolta di appunti e pensieri sull’“Italia senza verità” degli anni di piombo, pagine tragiche e rappresentative dell’ultimo periodo dell’autore, nonché del suo modo di concepire la letteratura per regalarci “la nera scrittura sulla nera pagina della realtà”. Similmente gli artisti invitati alla mostra cercano nel disegno, nella pittura e nella scultura al nero la loro verità e la loro maniera di intendere l’arte.
Il nero è il colore del buio, della morte, del male e del mistero, ci parla del vuoto, del caos e delle origini, è controbilanciato dal suo opposto, il bianco, simbolo della luce. Il dualismo luce-oscurità non si presenta in forma simbolica morale finché le tenebre primordiali non si siano divise in luce e buio, quindi all’inizio dell’esistenza, esso non è rappresentante del male in senso univoco.
Nella tradizione simbolica quindi l’idea delle tenebre non ha ancora significato negativo, perché corrisponde al caos primigenio dal quale può nascere ogni cosa, esso è associato all’invisibile e all’inconoscibile, quindi anche alla divinità creatrice originale, la scintilla iniziale da cui tutto si è palesato, o ancora alla faccia nera della luna o alla luna nera.
I nostri antenati impersonificavano le forze oscure dalle quali si sentivano minacciati proiettando terrificanti e maligne creature delle tenebre e oggi non molto è cambiato, poiché ancora l’uomo si comporta come un fanciullo spaventato di fronte a ciò che non conosce o comprende, la Dea Ecate per esempio, era una di queste, percorreva la terra nelle notti senza luna assalendo gli atterriti viandanti alla biforcazione delle strade. Con la creazione di divinità terrificanti, i nostri progenitori cercavano di dominare la paura del buio proiettandola su un immagine che circondavano di attributi, credenze e riti, anche nella cultura popolare europea le fiabe e i racconti presentano la figura dell’uomo nero o di orchi e streghe vestiti di nero. Quella dell’uomo nero, nasce alla fine del diciottesimo secolo in Inghilterra, dove era inizialmente legata ai minatori delle miniere di carbone e agli spazzini.

La mostra si apre con cinque tagli di Lucio Fontana che dialogano idealmente con il grande dipinto di Nicola Samori nell’occhiello prospettico della villa. Il monocromo del padre dello Spazialismo, dalla suggestiva forma astratta e ottagonale, appare opaco rispetto all’intensa profondità dei tagli netti che, brevi e decisi, recidono la tela donandole la terza dimensione e liberandola dalla superficie piatta del quadro. Queste ‘ferite’ diventano le protagoniste indiscusse dell’opera, le star nere del nero, buie come l’ignoto di quello spazio nuovo cui anelano con la loro rivoluzionaria apertura. Accanto a Fontana Paolo Scheggi riprende e reinventa la sua lezione. Sovrappone più stati ti tele o lamiere monocrome, poste a uguale distanza, su cui sono ritagliate le forme. Ѐ la contrapposizione tra una superficie compatta e un vuoto circoscritto che nel nero si carica di mistero e tensione.
Il nero di Alberto Burri ha influenzato e continua a influenzare centinaia di artisti. Cupo, profondo, ineluttabile. Nasce all’indomani degli orrori della seconda guerra mondiale, violento, drammatico, e segna l’inizio e la fine del suo percorso materico-astratto. La serie dei ‘Cartoni’ risale al 1948-51, ma numerose altre sono opere caratterizzate dal nero: per esempio alcuni ‘Cretti’, le ‘Combustioni’, in cui con valenza simbolica e magico-rituale l’autore impiega il fuoco, la scultura ‘Il Grande Nero’ e poi ‘Annotarsi’ e ‘Nero e Oro’, realizzate nel 1992-93 per Ravenna. La sua pittura utilizza materie differenti per inseguire la forma e l’idea di spazio agognante, sconfinando nell’ambito della scultura. Per gli artisti presenti in mostra la fantasia e la creatività hanno favorito l’interpretazione e la contemplazione dell’universo e il nulla in cui tutto va a perdersi e da cui tutto viene a ritrovarsi. Per loro il nero è assenza totale di luce, di forma e di chiarezza.

Nel nero muore il colore e da esso proviene. Ѐ il nulla in cui tutto va a perdersi e da cui tutto viene per ritrovarsi. Nell’oscurità si celano le nostre paure, muoiono le nostre certezze. Da lì la vita, i ricordi, le idee, e in quella zona di confine tra la tenebra e la luce risiede la nostra esistenza che prende forma e si concretizza come figure sulla tela che noi tutti dipingiamo, a volte più nitide, a volte celate nella penombra della memoria, ma non per questo meno reali.

A Palazzo Ducale tornano i fastosi banchetti dei Gonzaga

Di Maria Paola Forlani

Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto
speciale fra persone, mediato da immagini
(Guy Debord)

Cucina non è mangiare. Ѐ molto di più. Cucina è poesia.
(Heinz Beck)

E’ aperta fino al 17 settembre la mostra clou di Palazzo Ducale per il 2017, ‘Lo spettacolo del mangiare‘, a cura di Johannes Ramharter e Peter Assmann (Catalogo Tre Lune Edizioni), dedicata allo spettacolo e alle arti del banchetto rinascimentale, nell’anno in cui Mantova – dopo i fasti di Capitale Italiana della Cultura – è stata scelta insieme a Bergamo, Brescia e Cremona quale Capitale Enogastronomica Europea.
Con straordinari e suggestivi contributi, la mostra ricostruisce lo scenario sfarzoso della convivialità dei principi nel corso di due secoli, dal Cinquecento al Settecento: i segreti del convito, la tavola imbandita, la teatralità degli arredi, le tovaglierie, i vasellami, i riti del sedersi e del conversare, le vesti, le luci, la musica, la poesia e i colori. In un percorso di oltre cento preziose opere provenienti da mezza Europa, dall’atmosfera splendida e scenografica del banchetto emerge quanto fosse importante per i grandi del tempo affidare alla tavola, nelle sue molteplici interpretazioni, il messaggio della propria grandezza e magnificenza, della propria superiorità culturale.

Oltre ai servizi di posate che accompagnavano l’imperatore Massimiliano I nelle battute di caccia e alle posate da viaggio di Maria Teresa d’Austria, fa ritorno a Mantova il piatto che adornava la credenza di Isabella d’Este, con in bella mostra il suo motto “nec spe nec metu” [Né con speranza né con timore]. Accanto, altri magnifici piatti e saliere con lo stemma dei Gonzaga, scampati allo spettacolo fragoroso dell’opulenza di banchetti in cui “si levavano, si gettavano, e rompevano e grande era certo il numero, poiché gli sig. Scalchi, imbandirono a ventiquattro piatti”, cambiando “quattro volte la tovaglia… per quella splendidissima virtù, che si chiama magnificenza”. I resoconti dell’epoca così descrivono, per esempio, il convivio del 22 settembre 1587, offerto a Palazzo Ducale per l’incoronazione del duca Vincenzo I.
E poi i trattati di alta cucina: il volume a stampa (1549) di Cristoforo da Messisburgo, cuoco di Carlo V (così raffinato che l’imperatore volle nominarlo conte palatino), quelli di Bartolomeo Scappi, cuoco segreto di Papa Pio V (Venezia, 1570) e del nostro Bartolomeo Stefani (1662). I pezzi esposti in mostra arrivano dall’Italia (Milano, Verona, Firenze, Parma, lo stesso Ducale e la Teresiana) oltre che da musei e abbazie di mezza Europa: Salisburgo, Vienna, Reichersberg, Bratislava, Kremsmünster, Graz, oltre a un cospicuo prestito della magnifica collezione Esterhazy da Eisenstadt.

“Da mangiare con gli occhi”, frase che tutti hanno pronunciato almeno una volta davanti a un dolce irresistibile, a un manicaretto stuzzicante. Mangiare è e deve essere un piacere, si mangia con tutti i sensi: con gli occhi per la sensualità estetica che un cibo ispira; con l’olfatto per appropriarsi dei sentori, dei profumi che ne scaturiscono; ma anche con l’udito perché il tintinnio delle posate sui piatti rientra nella convivialità, la stimola nell’aspettativa, nel presagio del piacere del cibo; anche il tatto fa la sua parte perché è con le mani che si spezza il pane, sono i palmi e le dita che accarezzano la buccia di velluto di una pesca. Infine al gusto spetta la parte del leone, le papille lavorano intensamente, ma sempre in sinergia con gli altri sensi per dare forma all’emozione sensoriale del mangiare. Emozione e spettacolo, allora, sono cose da golosi epicurei? No di certo, anche sulle tavole più modeste ogni giorno viene celebrata puntualmente una mise en scéne che esige tempi e spazi calibrati: un primo, un secondo, contorni e dessert secondo un canone dal quale ancor oggi poco si deroga. Sulle mense importanti, poi, resistono rituali di vero sfarzo grazie ad accessori e orpelli raffinati, uniti ai preziosismi di camerieri che accudiscono incessantemente i commensali, un teatrino di gesti e movenze. Anche questo è spettacolo.

La tradizione mantovana del cibo è famosa, anche come elemento di edonismo in progress, con sfarzi spettacolari nel suo passato, stimolata dalla sfrenata ambizione dei Gonzaga nel distinguersi tra le corti rinascimentali per mecenatismo culturale e lusso esibito anche a tavola. Un fermo – immagine che nel tempo e nel gusto è rimasto intatto e ha contribuito a creare un’attrazione gastronomica di continuo successo.
Altra ricchezza spettacolare del mantovano sta nel territorio: a nord le colline moreniche con vigneti e buoni vini, in pianura, la campagna che dà cereali, riso, pasture per bovini, perciò carni e latticini, poi le terre d’acqua con il pesce. Un paradigma di opportunità a dir poco eccezionale.
Una domanda si pone: se lo spettacolo vero del mangiare, più che l’eleganza e la ricercatezza delle tavole o il semplice nitore della mensa, non sia semplicemente la sua origine primigenia, legata al riperpetuarsi della meraviglia di cicli della natura che diventano alimento – vita, attraverso processi remoti e immutati, una necessità che può tramutarsi in momento di poesia, guai se si trattasse solo di raggiugere la sazietà. Ed è molto probabile che questa differenza i mantovani l’abbiano ben assimilata nel loro dna, con o senza i Gonzaga.

A Bologna i colori dell’inquietudine di Paolo Manaresi

di Maria Paola Forlani

Paolo Manaresi, mio professore d’incisione all’Accademia di Belle Arti di Bologna, con il quale noi allievi abbiamo vissuto momenti di intense conversazioni sull’arte e sul mondo che ci circondava. Paolo Manaresi ascoltava e osservava la nostra vitalità, che in quegli anni si dibatteva tra mille incertezze e lotte sessantottine, inquietudini e disagi che affioravano dai nostri sguardi in cerca di ‘verità’. Sfioravamo la lastra inchiostrata con la tarlatana, coprivamo di segni la superficie di zinco incerata, la tuffavamo nell’acido per più morsure, intanto Manaresi sorridendo guardava il nostro lavoro, il nostro operare e solo lì vedeva la risposta a tutte le nostre attese.
Quando giovanissima feci la mia prima mostra alla Galleria ‘Il Forziere’ a Ferrara, Manaresi mi scrisse una lettera affettuosa:

“Carissima Paola
ho saputo della tua mostra ferrarese e non mancherò di venire da te; conosco il tuo entusiasmo così palesemente sincero per ogni espressione d’arte; i tuoi quadri non potranno che averne questa interiore vivificazione e finalità […] Sei stata una delle care e migliori allieve che non si possono dimenticare, ed ancora oggi ci dai la gioia di rivederti periodicamente e leggere nel tuo limpido sguardo l’entusiasmo per il tuo e nostro operare[…]
Così, cara Paola, voglio in anticipo inviarti quei miei spontanei voti augurali che dal primo momento che ti ho conosciuta sono costanti e per sempre nel mio animo per te.
Con affetto il tuo
P.Manaresi
Bologna marzo 1970”

Paolo Manaresi nacque a Bologna nel 1908. Nel 1929 si diplomò all’Accademia di Belle Arti, dove era stato allievo di Giovanni Romagnoli e Achille Casanova.
Dal 1934 insegnò alla Scuola d’Arte di Varallo Sesia e intraprese l’attività di scultore. Nel 1945 ritornò a Bologna come docente al Liceo Artistico. Dal 1949, incoraggiato da Giorgio Morandi, si dedicò attivamente all’incisione. Nel 1950 fu invitato alla Biennale di Venezia, dove ritornò nel 1952. Nel 1953 Carlo Alberto Petrucci, direttore della Calcografia Nazionale, ordinò presso l’istituto romano un’ampia antologica dell’opera grafica di Manaresi. Sempre nel 1953 divenne direttore dell’Istituto d’Arte di Bologna. Nel 1954 ottenne il Gran Premio Internazionale per l’incisione alla XXVII Biennale di Venezia. Dal 1956 al 1958 insegnò all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 1958 Giorgio Morandi lo volle come suo successore alla cattedra di Tecniche dell’Incisione presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Tra gli anni Sessanta e Settanta molti furono i premi prestigiosi che gli furono assegnati in tutta Europa per l’incisione. Fino al 1978, quando l’associazione ‘Francesco Francia’ in collaborazione con il Comune di Bologna gli dedicò una grande antologica, suddivisa in due sezioni: una di dipinti presso il Museo Archeologico, l’altra sull’opera grafica presso la Galleria d’Arte Moderna.
Con l’evento del 1978 si concluse l’iter di Manaresi. Negli anni successivi si rifugiò nel suo studio presso il Collegio Venturoli, di cui era amministratore. Dopo un lungo periodo di disagio esistenziale, alla fine di luglio del 1991 decise di porre fine alla propria esistenza.

La Raccolta Lercaro a Bologna ricorda questo protagonista dell’arte bolognese del Novecento, di cui è stato maestro nel campo dell’incisione, con la mostra ‘Paolo Manaresi. I colori dell’inquietudine’, a cura di Andrea Dall’Asta SJ e Francesca Passerini, con la collaborazione di Donatella Agostini Manaresi (aperta fino al 2 luglio 2017).
Rispetto alle precedenti esposizioni che hanno celebrato l’artista, la mostra della Raccolta Lercaro si presenta in modo inusuale: non sono infatti esposte (solo) le sue straordinarie incisioni, ma soprattutto le opere pittoriche, per lo più sconosciute al grande pubblico. All’interno del percorso espositivo vengono alla luce un centinaio di oli, pastelli e tempere, in gran parte inediti. Una vera e propria scoperta, che permette un’immersione nel lungo arco temporale che va dagli anni Trenta all’inizio degli anni Novanta del NOvecento, quando Manaresi conclude la sua esperienza di vita.

La mostra si presenta in modo articolato e complesso, ma un filo rosso unifica le diverse sezioni: che si tratti di paesaggi, di scene religiose o, ancora, di nature morte realizzate in periodi diversi, il denominatore comune è sempre una profonda inquietudine. Nei primi ritratti o nelle scene d’interni degli anni Trenta i tratti sono ancora distesi, ma con l’arrivo della Seconda guerra mondiale la mano inizia a farsi nervosa. I lavori degli anni Cinquanta e Sessanta – siano essi paesaggi o periferie cittadine, che risentono delle lezioni metafisiche di Carrà e di Sironi – sono orientati da una ricerca estetica che privilegia il contrasto chiaroscurale: è la proiezione, in pittura, delle strade tortuose percorse interiormente dall’artista.
Nel succedersi delle diverse sale della mostra emergono così i suoi interrogativi sul senso della vita, espressi con grande intensità, soprattutto nelle scene di carattere religioso.
Colori accesi e segni forti, che a tratti ricordano l’arte nord-europea, in particolare Munch e Nolde: Manaresi mostra come la sua ricerca esistenziale sia inseparabile da una riflessione sulla fede. In particolare si concentra sulle infinite varianti di Crocifissioni. Al centro, sempre la rappresentazione del Christo patiens: la sofferenza del Figlio di Dio sembra rivelare il dolore stesso dell’artista. Dopo Cristo il personaggio maggiormente ricorrente è la Maddalena, rappresentata come una macchia cromatica di colore rosso vivo che ai piedi della croce grida dolore e amore.
Sono questi gli stessi anni in cui la Chiesa vive il concilio Vaticano II, anni di grande apertura, ma anche di dolorosi scontri tra diverse visioni del mondo. Manaresi partecipa a questo dibattito attraverso la sua pittura: nel Cristo morto e nella Maddalena riversa il suo grido muto di uomo ferito dalla vita, nonostante tutto, ancora tenacemente capace di cercare risposte e riconciliazioni.

Questa irrequietezza si presenta in tutta la sua potenza espressiva nelle ultime composizioni, realizzate tra fine Ottanta e inizio Novanta: dopo una progressiva compressione dei volumi, una sintesi delle forme e un’intensificazione dei contrasti cromatici, alla fine della vita Manaresi elabora composizioni in cui le visioni dell’anima si mescolano e si fondono con la realtà naturale. Da un lato recupera elementi appartenenti alle precedenti ricerche formali, dall’altro risolve l’urgenza espressiva ricorrendo all’astrazione, via inedita per lui. Queste “opere nuove” – come lui stesso le definiva – appaiono quasi implodere su loro stesse. Il tratto nervoso e acuto sembra perdersi nell’interazione. Qual è il senso di queste forme ‘informi’, nate da un urlo senza suoni e da un gesto colmo di energia, ma irretito e immobilizzato da un segno agitato? Tutto sembra perdersi in un buio esistenziale, in una sofferta sconfitta, come nella ‘Composizione rosso-nera’ che chiude la mostra. Questi inediti lavori segnano il drammatico esito di un artista che ha ancora tanto da rivelare e che la mostra indaga da un punto di vista nuovo. Una riflessione sul senso delle cose e della vita.

Terremoto nelle Marche: agli Uffizi i tesori salvati per i tesori da salvare

Da Organizzatori

La mostra ‘Facciamo presto. Marche 2016 – 2017: tesori da salvare’, aperta al pubblico fino al 30 luglio nell’Aula Magliabechiana degli Uffizi (catalogo Giunti) presenta una selezione di capolavori provenienti dalle cittadine e dai paesi dell’entroterra appenninico delle Marche meridionali, colpiti dal terribile terremoto che ha quasi distrutto o reso inagibili le chiese, i palazzi e i musei dove questi oggetti d’arte erano custoditi, spesso fin dalla loro origine. Le opere esposte sono tra le gemme più preziose di un territorio che sorprende per la ricchezza straordinaria e inattesa del suo patrimonio d’arte e di storia: una raffinata raccolta di dipinti su tavola e su tela, di sculture lignee, tessuti e oreficerie.
Un’opportunità molto importante, oltre che eccezionale, per far conoscere al pubblico alcuni tesori dei territori dell’entroterra marchigiano meridionale, spesso trascurati e negletti dai resoconti relativi agli eventi sismici che hanno martoriato il Centro Italia. La mostra ha, infatti, l’intento primario di rammentare perentoriamente a tutti l’estrema urgenza di salvare dalla distruzione e dalla disperazione questo patrimonio.
Le opere d’arte esposte sono state scelte per rappresentare il territorio marchigiano colpito dal sisma – le province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata – nonché gli enti coinvolti nella tragedia in quanto proprietari di questi stessi beni – le Diocesi, i Comuni, gli Ordini religiosi regolari maschili e femminili. Quelle in mostra e le tantissime altre opere rimosse e portate nei vari depositi temporanei, allestiti dopo i crolli e sommovimenti tellurici di agosto e ottobre 2016, erano per lo più custodite sin dalla loro creazione nelle chiese, nei palazzi e in seguito nei musei di una vasta area dell’entroterra appenninico delle Marche meridionali. Questi edifici per lunghi anni saranno una vera giungla di tubi innocenti e di impalcature e occorreranno decenni per far tornare nella loro sede originaria tutte le opere d’arte portate via in fretta per sottrarle alla distruzione. Un’operazione che stanno ancora compiendo con tanta fatica e coraggio per il pericolo di ulteriori crolli, persone generose e competenti: i vigili del fuoco, i carabinieri, l’esercito, il personale delle soprintendenze e i volontari della protezione civile.

Ad accogliere i visitatori è il capolavoro della pittura marchigiana del Quattrocento: la pala raffigurante nella tavola principale ‘L’Annunciazione’ e nella lunetta sovrastante il ‘Cristo in pietà’ dal Museo di Camerino, che si può considerare l’opera manifesto del Quattrocento camerte realizzata dal riscoperto Giovanni Angelo d’Antonio da Bolognola, protagonista principale di questa scuola.
Quella di Camerino è una delle numerose scuole pittoriche marchigiane del Quattrocento, ognuna con i suoi artisti e con una precisa fisionomia di stile e di cultura. A rappresentare in mostra la scuola di San Severino Marche, è la preziosa tavoletta cuspidata con la ‘Madonna e il Bambino’, realizzata intorno al 1480 da Lorenzo D’Alessandro per la chiesa delle Clarisse di San Ginesio, in cui si riconoscono i termini essenziali della formazione artistica e del primo svolgimento stilistico del pittore settempedano, vale a dire il riferimento privilegiato al folignate Nicolò Alunno e i contatti con Carlo Crivelli. Quest’ultimo, un grande pittore veneziano errante passato da Venezia a Padova, da Padova a Zara, da Zara alle Marche – dove risulta documentato a Porto San Giorgio e Massa Fermana, ad Ascoli e Camerino, per poi finire i suoi giorni forse a Fabriano – ebbe una importanza fondamentale per la cultura figurativa delle Marche, perché a lui si deve, insieme al fratello minore Vittore, la diffusione di una corrente pittorica le cui radici sono nel mondo padovano, che si sviluppa tra Dalmazia e Marche definita come ‘Rinascimento Adriatico’. A rappresentare in mostra i due fratelli veneziani sono la ‘Madonna di Poggio di Bretta’ di Carlo, dal Museo diocesano di Ascoli Piceno, e la ‘Madonna adorante il Bambino’ di Vittore, dalla chiesa di san Fortunato di Falerone.
Nel 1501 arrivò a Matelica nella chiesa dei Francescani uno dei capolavori assoluti della pittura del primo Cinquecento italiano: la grandiosa ancona con la ‘Madonna in trono e i santi Francesco e Caterina d’Alessandria’ del romagnolo Marco Palmezzano, ancora completa della sua magnifica cornice lignea intagliata e dorata.
La pittura del Sei e del Settecento nei territori marchigiani colpiti dal terremoto è rappresentata in mostra da quattro tele di grande fascino. La prima raffigura ‘La Vergine col Bambino appare a Santa Francesca Romana’. La seconda tela raffigura la
‘Conversione di san Paolo’ ed è un’opera cardine di Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccio, databile agli anni tardi della sua attività, intorno al 1700, quando il pittore genovese si aprì verso la nuova sensibilità settecentesca.
La tela di Pier Leone Ghezzi, discendente da una famiglia originaria di Comunanza, ma attivo a Roma nella prima metà del Settecento, è una realistica testimonianza figurativa delle conseguenze di un rovinoso terremoto ed è pertanto un interessantissimo esempio delle nuove istanze della pittura settecentesca nella regione, precocemente orientata verso la rappresentazione di cronaca, e non solo di storia.
L’arrivo nel 1740 a Camerino nella chiesa dei Filippini della grandiosa pala d’altare con la ‘Visione di san Filippo Neri’, capolavoro di Giambattista Tiepolo, chiude il tradizionale e secolare interscambio culturale tra le Marche e Venezia.

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