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Giorno: 29 Ottobre 2017

In libreria e in edicola il primo libro-inchiesta sul Gad

Da Organizzatori

Già in libreria e, da questo sabato, anche in edicola
la prima, scottante e documentatissima, inchiesta giornalistica sul GAD

Il volume contiene rare immagini d’epoca e coraggiose fotografie d’attualità.

Da SABATO 28 ottobre “Nero Gad” di Marcello Pulidori sarà disponibile ANCHE presso le edicole, promosso e distribuito da LANZA ADG-FE.

Questo libro-inchiesta nasce da una necessità. Scritto da un giornalista che per mesi è riuscito a infiltrarsi nell’abisso di Ferrara – tra angeli dalla faccia sporca e prostitute con prole, comitati di cittadini furiosi e zerbini-water, urla laceranti e cuori di tenebra – garantendo l’anonimato ai coraggiosi testimoni che con le loro confidenze rischiavano la vita, “Nero Gad” racconta la vicenda, per certi versi unica, di un intero quartiere. Acronimo di ‘Giardino Arianuova Doro’, il Gad dopo essere stato dagli anni ’60 la perla della Ferrara-bene si è trovato, all’improvviso, a fare i conti con un’immigrazione massiccia e una violenza talvolta degna di “Arancia meccanica”. Dal dopoguerra a oggi, nella città estense, il “caso Gad” è il fenomeno criminoso di lunga durata più significativo, con tutti i suoi numerosi e spesso inspiegabili risvolti: sociali, politici, economici, giudiziari.
In un viaggio allucinante, ma fin troppo vero, dalle tre torri del Grattacielo ai minimarket etnici, da via Oroboni a piazzale Castellina (detto piazzale Cocaina), da via Ortigara alla stazione ferroviaria, incontrando spacciatori-ciclisti con il biglietto da visita e assassini con la katana, ristoratori condominiali abusivi e pianerottoli insanguinati di siringhe, lady di ferro e guerrieri della notte, bambini con troppe domande e mamme senza risposta, “maman” e ministri, orecchie tagliate e occhi che hanno visto gente morire, l’autore di questo volume ci offre – senza filtri – un termometro che arriva a 40 (capitoli) per misurare la febbre a una zona divenuta off-limits, sino all’arrivo dell’Esercito. Un libro che, insieme a quel quartiere, cerca un riscatto per Ferrara: per salvarne la memoria, nel rispetto di quello che un grande poeta chiamava “sentimento del tempo”.

MARCELLO PULIDORI (Ferrara, 1966). Giornalista professionista dal 1995, è cronista del quotidiano “la Nuova Ferrara”. Si è occupato, in particolare, di attualità e di cronaca nera seguendo importanti inchieste, tra le quali si ricordano il delitto Manservisi e il caso Palaspecchi.
Autore di numerosi saggi e contributi per riviste di letteratura, ha esordito nel 1990 con il romanzo “La notte degli ermellini” (prefazione di Paolo Vanelli).

Saper lasciar(si) andare

Lasciar andare. Non è solo una dichiarazione di intenti, è un’autentica svolta nella vita di ciascuno di noi. Un momento in cui ci troviamo a dover fare i conti con una realtà che ci chiama immancabilmente a rapporto, in tutta la sua crudezza e autenticità.
Lasciare che un figlio decida di allontanarsi, a volte dolorosamente, per raggiungere angoli di mondo lontani, lasciar andare un genitore che ha consumato la propria vita e ha raggiunto il capolinea consentito, lasciar andare un amore sbagliato, mal riposto, logoro o menzognero, perché a tutto c’è un limite e non possiamo che prenderne atto; lasciare che le persone inadatte, dannose, incompatibili con le nostre esistenze, si allontanino o vengano invitate a farlo, prima che le nostre stesse vite e identità ne raccolgano le rovine, le miserie, i risvolti cupi.
Non è cosa da poco quel lasciar andare. Presuppone un coraggio, a volte, che mai avremmo pensato di poter scovare e dover esercitare per risolvere situazioni di ristagno e inconcludenza. Lo spettro delle cose o situazioni che nel corso della vita dobbiamo lasciar andare è vastissimo. Dalle fotografie testimoni del nostro passato, agli oggetti che accumuliamo per riempire vuoti, alla casa che dobbiamo cambiare, un lavoro, un rapporto, una persona cara. La consapevolezza è l’unica cosa importante per non rischiare di rimanere immobilizzati all’interno di ciò che ci è dolorosamente capitato.

Esiste un termine, mindfulness, che significa vivere il presente e imparare a “lasciar andare”. E’ proprio quella consapevolezza che emerge se prestiamo attenzione in modo intenzionale e non giudicante, allo svolgersi dell’esperienza, momento per momento, in un presente reale e non un passato doloroso o un pensiero ansioso rivolto al futuro.
La letteratura ci regala pagine in cui leggiamo spesso ciò che non vorremmo mai ammettere razionalmente nelle nostre situazioni e nelle nostre esistenze: uno specchio in cui ci osserviamo, ci comprendiamo meglio, ci immedesimiamo mentre leggiamo, ed ammettiamo destini comuni ai protagonisti che ci fanno da alter ego, dandoci la possibilità di un confronto mediato. ‘Lasciar andare’, il primo dei fortunati romanzi di Philip Roth del 1962, è ambientato in parte a New York negli anniCinquanta, in parte a Iowa City e Chicago. La storia è un unico grande intreccio di passioni, azioni e inazioni che travolge Gabe Wallach, un giovane benestante di famiglia ebrea. Orfano di madre, lascia il padre che tende a riversagli addosso un affetto esagerato, soffocante. Nello Iowa, dove si reca, incrocia la sua vita con quella del collega Paul e di sua moglie Lobby Hera: un triangolo di avversione e attrazione senza vie d’uscita, dove la giovane donna, fragile e nevrotica, si aggrappa alla convinzione di aver creato un’assoluta comunione spirituale con Gabe.
E’ un romanzo non facile, caustico, a volte grottesco sulla necessità di andare e lasciar andare per allontanarsi da squallore, inferni domestici, terremoti emotivi, disperazione esistenziale, solitudine, che parla di gente pronta a demolire gli altri per motivi economici in ambienti di degrado e povertà, una ragazza di 19 anni che vende il proprio figlio per ‘lasciare’ una situazione troppo pesante per poi ritrovarsi prigioniera in una relazione con un operaio disoccupato con prole, a fargli da serva, e numerosi altri personaggi che entrano ed escono dal libro lasciandoci impressionati a riflettere. Amore, sesso, famiglie disfunzionali, sofferenza di affetti, religione ed ebraismo in particolare, appartenenza sociale sono le tematiche toccate da Roth con grande abilità di movimento.

‘Lasciami andare, madre’ è il romanzo del 2004 di Helga Schneider in cui l’autrice affronta drammaticamente l’immagine inquietante della madre e un passato che pesa come un macigno. Siamo nel 1998 a Vienna, il luogo in cui l’autrice ha deciso di incontrare la madre ormai anziana e in degrado cognitivo che non vedeva da 27 anni. Una figura genitoriale snaturata da scelte estreme, una donna che nel 1941 aveva abbandonato il marito e due figli piccoli per seguire quella che avvertiva come vocazione: arruolarsi nelle SS di Heinrich Himmler per lavorare come guardiana, dapprima nei campi di concentramento di Sachsenhausen e Ravensbrück, poi nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Un incontro definitivo, quello tra madre e figlia, che fa riemergere profonde ferite mai cicatrizzate, scomode verità e atroci conclusioni ma mette anche in evidenza la consapevolezza di un legame mai interrotto del tutto, sempre in bilico nel dubbio e nell’incertezza. Nel 1971 c’era già stato un tentativo di dialogo tra le due donne, bruscamente interrotto, nel corso del quale la madre aveva esibito con orgoglio la sua uniforme SS ed offerto alla figlia una manciata di gioielli sottratti ai prigionieri dei Lager. ‘Lasciami andare, madre’ è un grido di ribellione, una supplica, un’esortazione, perché il lasciar andare, in questo caso, diventa la sopravvivenza dell’anima. “Verso di lei provo un rancore tenace, ma temo di non avere ancora rinunciato a trovare in lei qualcosa che si salva. Di qui il dubbio: è stata davvero spietata come dice o si mostra irriducibile perché io la possa odiare, liberandomi dall’incubo?” Lasciar andare…

Il dono di Silvano Balboni (e di Daniele Lugli) a Ferrara

Sono stati in tanti venerdì pomeriggio a riempire la Sala dell’Oratorio Crispino San della libreria Ibs+Libraccio per festeggiare con Daniele Lugli l’uscita del libro di una vita. Anzi di due: quella dello stesso Daniele e quella del giovane Silvano Balboni.
“L’ho scoperto in quarta elementare – ha scherzato Lugli – quando il mio maestro ha chiesto a un compagno con quel cognome se fosse un parente di Silvano Balboni. Sono tornato a casa e ho chiesto a mio papà chi fosse Silvano Balboni. Lui mi ha risposto: “Era una persona per bene”. Poi l’ho riscoperto nel 1962, con l’impegno nel Movimento Nonviolento di Aldo Capitini”. I due, secondo Daniele, condividevano una “tensione religiosa fortissima” e la visione della “religione come opposizione radicale a tutto ciò che rappresentava il Fascismo”.

E così, pagina dopo pagina, ‘Silvano Balboni era un dono. Ferrara, 1922-1948: un giovane per la nonviolenza. Dall’antifascismo alla costruzione della democrazia’, racconta come un album di ricordi la figura di questo giovane politico ferrarese purtroppo dimenticato da molti e molto presto. Nello stesso tempo il libro è un prezioso saggio storico perché, come hanno sottolineato Anna Quarzi dell’Istituto di storia contemporanea di Ferrara – che ha curato l’edizione – e il professor Paolo Veronesi di Unife, raccoglie in un unico volume fonti e documentazioni inedite, a lungo disperse, forse perdute se non fosse “per l’archivio di personale di Daniele Lugli”.
Un lavoro di raccolta lungo appunto una vita, per ricostruire la trama di un’altra esistenza, quella di Silvano Balboni, e restituire attraverso un pullulare di storie il fermento politico, culturale, sociale della Ferrara degli anni Trenta e dell’immediato dopoguerra, oggi difficilmente immaginabile. Silvano Balboni, nato nel 1922 e morto in poche ore nel novembre 1948, in soli 26 anni è riuscito a incrociare moltissime altre storie: Giorgio e Matilde Bassani, Teglio e la famiglia Pesaro, Savonuzzi e la maestra Alda Costa, Aldo Capitini, Carlo Bassi, Ada Rossi e il gruppo dei sardi ferraresi, Dessì, Pinna, Varese.
Antifascista, nonostante nella sua vita avesse conosciuto solo il Fascismo, partigiano eppure non violento e obiettore di coscienza, vegetariano al tempo della fame, quella vera, Balboni è “libero da ogni incasellamento”, un “anacronismo atipico”, ha detto Veronesi. Secondo il sindaco Tiziano Tagliani, anch’egli intervenuto alla presentazione in rappresentanza di quell’amministrazione di cui Balboni ha fatto parte come assessore, la storia e la vita di Silvano Balboni sono “una provocazione continua”, ma le sue tesi eterodosse – per le quali è stato attaccato diverse volte – hanno convinto le persone per la “credibilità” con la quale le incarnava e le diffondeva in sella alla sua bicicletta. Il primo cittadino ha ringraziato Lugli per il suo lavoro di “ricomposizione di un puzzle con pezzi che stanno in diverse scatole: la storia del movimento antifascista, dell’amministrazione e dell’educazione della nostra città, la storia del Movimento Nonviolento”.

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Daniele Lugli

Molteplicità contro banalità, autonomia di giudizio e di azione, sempre con lo scopo di unire e non di dividere, queste sono solo alcune delle parole per descrivere la sfuggente e affascinante parabola esistenziale e politica di Balboni.
Nel maggio 1943, chiamato alle armi, diserta e fa la propria scelta di Resistenza: comincia ad attraversare la Romagna per convincere altri ragazzi suoi coetanei a non indossare la divisa e non prendere le armi. Nel 1946 fonda a Ferrara il Centro di orientamento sociale come strumento di una politica del basso. La regola era “ascoltare e parlare, non l’uno senza l’altro: qui sta l’elemento di rottura”, sia rispetto ai partiti di allora sia rispetto alla “democrazia da tastiera odierna”, con la quale la democrazia dal basso di Balboni e Capitini “non ha niente a che vedere”, ha sottolineato Lugli: “oggi abbiamo il problema contrario, sembra che la parola possa essere agita in maniera irresponsabile”. Il Cos è inoltre lo strumento di un progetto culturale ed educativo che Balboni porta avanti anche da giovanissimo assessore di Ferrara, con l’idea di aprire la testa delle persone, in quei mesi difficilissimi quando l’Italia è appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale e da vent’anni di dittatura e quindi ci si deve riabituare al regime democratico. Non solo, da assessore Balboni fonda anche “una scuola del lavoratore” e “una scuola materna ispirata al metodo Montessori”.
“Questo libro – ha concluso Daniele Lugli – non è una rievocazione, ma la riproposta di valori ideali e pratici” che hanno guidato la brevissima e intensa esistenza di Silvano Balboni: “Spero che possa essere uno stimolo per approfondirne diversi aspetti e che questo ragazzo possa parlare ai suoi coetanei di oggi”.

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