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Giorno: 14 Gennaio 2018

IL CACCIATORE DI LEGGENDE
Uno scozzese in Perù

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CAPITOLO II – Uno scozzese in Perù

Dopo l’arrivo degli europei in America Latina, le leggende sul litofago, le numerose testimonianze e le tracce rinvenute tra le varie raffigurazioni delle culture precolombiane incuriosirono un gran numero di studiosi e di avventurieri. Molti archeologi e naturalisti spesero gran parte delle loro risorse nell’intento di verificare la reale esistenza di questa enigmatica creatura.
Il più famoso di tutti fu senz’altro Sir Joseph Sewell Greenstone.

Nato a Edimburgo nel 1848 da John Greenstone, farmacista, e Mary Elisabeth Haslow, maestra elementare, Joseph Sewell si interessò fin da subito, forse ispirato dal padre, allo studio delle scienze naturali. Ben presto il giovane Greenstone si appassionò alle ricerche sull’evoluzione, tanto da schierarsi in favore delle teorie darwiniane.

Il St. John’s College di Cambridge

Laureatosi al St. John’s College di Cambridge nel 1868, Joseph Sewell Greenstone iniziò la sua carriera universitaria come biologo ricercatore e zoologo per conto dell’Accademia di Scienze Naturali di Cambridge. Con questa investitura intraprese varie missioni, molte delle quali in Sud America.
Proprio una tappa in Perù segnerà l’inizio del suo appassionante viaggio sulle tracce del verdone. Una ricerca che lo porterà a dedicare l’intera carriera allo studio di questo animale unico al mondo.
Il primo periodo trascorso in Sud America non fu facile per Greenstone. Egli dovette misurarsi con l’ostilità delle popolazioni locali che mal sopportavano questo nuovo e insolito interesse di tanti stranieri verso un animale che avevano sempre considerato sacro e inviolabile.
Greenstone si trovava da un paio di settimane accampato presso un villaggio tra le montagne. Era a circa ottanta miglia a est di Cuzco, nelle vicinanze di un sito sul Passo di Auzangate dove erano stati rinvenuti alcuni reperti nazca, assieme a lui c’erano un collega paleontologo e due inservienti assunti a Lima.

Il sole era ormai scomparso oltre la Cordigliera, lo scienziato si trovava nella sua tenda e stava esaminando una serie di frammenti di vasellame e alcune rudimentali lame d’osso. Improvvisamente si precipitò all’interno Juan, uno dei due inservienti peruviani. Si trattava di un indio di vent’anni circa, basso di statura ma robusto, e parlava uno spagnolo con il tipico accento dei nativi.
«Sir Joseph, ho fatto uno scambio con lo sciamano del villaggio, gli ho dato la lanterna a petrolio e lui mi ha dato questo…» disse tutto trafelato il giovane mentre porgeva a Greenstone un fagotto.
Joseph Sewell prese il pacchetto e lo aprì. Quando ne ebbe visto il contenuto sgranò gli occhi, abbracciò il giovane sollevandolo praticamente da terra, accennò quasi un balletto e intonò una specie di ringraziamento in gaelico. Appena si fu calmato esclamò: «Caro Juan, qui ci vuole una bevuta!»

Joseph era uno scozzese delle Lowlands un po’ atipico: rampollo di una rigida famiglia presbiteriana, era altresì un discreto bevitore di whisky e un donnaiolo impenitente.
Superava il metro e ottanta, aveva un fisico asciutto e atletico, capelli castani e occhi grigi.

Joseph Sewell a 24 anni

Appariva abbronzato in ogni periodo dell’anno, con la faccia perennemente incorniciata da una barba incolta e da un vecchio cappello australiano di pelle di canguro. Portava un paio d’occhialini tondi appoggiati sul naso per aiutarsi nella lettura e, stretta tra le labbra, l’immancabile pipa di pannocchia e bambù (lo aiutava a pensare, diceva).
In altre parole, aveva l’aspetto più di un avventuriero che di uno scienziato accademico. E in effetti trascorreva più tempo in giro per il mondo che nella sede della sua università.
Ma questo suo costante girovagare verso terre lontane lo rese anche un esperto conoscitore di molteplici culture. Era poi famoso tra amici e colleghi soprattutto per la sua innata capacità di cavarsela in ogni situazione si venisse a trovare, una dote che gli salvò la pelle in più di un’occasione.

Ebbene, quella sera Joseph Sewell e il suo giovane aiutante si ubriacarono con del whisky che lo scienziato si era portato dalla Scozia. In patria, tra i numerosi detrattori che Greenstone aveva nel mondo accademico, circolava voce che fosse più avvezzo alle sbornie che alle scoperte scientifiche. In effetti, riguardo ai suoi studi, negli ambienti dell’università c’era sempre più scetticismo e, alla vigilia di quell’ultima spedizione, il Rettore dell’Accademia delle Scienze di Cambridge, Sir Bernard Hackett, gli comunicò senza mezzi termini che, se anche stavolta non avesse portato a casa risultati significativi, i fondi per altre spedizioni sarebbero stati tagliati definitivamente.
Così, molto probabilmente, quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio in Sud America.
Però, quella sera di settembre del 1884, successe qualcosa che avrebbe cambiato la vita di Joseph Sewell Greenstone per sempre.

Lo sciamano di Auzangate

All’alba del giorno seguente Joseph Sewell chiamò Juan e gli chiese d’accompagnarlo dallo sciamano con cui aveva fatto lo scambio. Il giovane indio, ancora intontito dall’alcool, ubbidì portandolo al vicino villaggio.
Giunti di fronte alla dimora dello stregone, una bassa casupola fatta di mattoni d’argilla e ricoperta da un tetto di canne e malta indurita, Sewell entrò scostando un pesante tendaggio posto all’ingresso. Davanti a sé, nella penombra, vide il vecchio indio seduto che lo fissava.
Greenstone non aveva ancora aperto bocca che lo sciamano cominciò a cantilenare in una lingua incomprensibile. A quel punto Juan, che era rimasto fuori, entrò e, ottenuta con un’occhiata l’approvazione di Sewell, parlò al vecchio in un misto di spagnolo e quechua.

A quell’epoca, le comunità andine del nord non avevano ancora abbandonato l’uso dell’antico linguaggio inca. Soprattutto gli anziani, restii ad accettare una lingua, quella spagnola, assai lontana dal loro modo di comunicare, resistevano tenacemente alle imposizioni delle autorità continuando a parlare la lingua degli antenati.
A dire il vero, se gli europei non comprendevano una sola parola di quechua, al contrario gli indios avevano ormai imparato lo spagnolo alla perfezione. Questo difetto di comunicazione si traduceva in un vantaggio per gli indios che, spesso, si prendevano gioco dei bianchi approfittando della situazione in varie maniere.
All’inizio della spedizione, Joseph Sewell, consapevole di questo fatto, si era convinto che sarebbe stato necessario assumere due giovani aiutanti in grado di parlare perfettamente sia lo spagnolo che la lingua inca, e magari di poter comprendere anche l’inglese. Egli lo riteneva un requisito essenziale, e la piega che presero gli eventi dimostrò quanto avesse effettivamente ragione.
Qualche tempo prima, Greenstone si occupò personalmente dell’assunzione dei suoi servitori.
Lo fece con scrupolo e pazienza, scegliendo coloro che, secondo lui, rispondevano a requisiti imprescindibili per il buon esito della missione. Gli uomini che cercava dovevano parlare più lingue, essere giovani, forti e in buona salute, non superstiziosi e nemmeno analfabeti, e possibilmente senza precedenti con la giustizia. Dovevano poi essere in grado di saper maneggiare armi, anche se non dovevano assolutamente essere ex soldati. Sewell sapeva per esperienza che tra i militari c’era la feccia della società peruviana: mercenari violenti e ubriaconi, ovviamente inaffidabili.
Fu subito chiaro allo stesso scozzese quanto fosse difficile riuscire a trovare soggetti con tutti quei requisiti, vista la situazione sociale in cui versava il Perù all’epoca dei fatti.
Il paese era ridotto in ginocchio: povertà e analfabetismo erano dappertutto; un’economia già precaria era stata azzerata dalla recente sconfitta subita nella guerra contro il Cile; bande di sanguinari fuorilegge infestavano le campagne e pure le comunità degli indios erano in fermento contro il governo centrale.
Ciononostante, alla fine, la perseveranza di Greenstone fu premiata.
Si trovava a Lima ormai da una settimana e, mentre di giorno progettava le varie tappe della spedizione nel chiuso della sua stanza d’albergo, di sera si aggirava senza successo per le varie bettole della capitale alla ricerca degli uomini giusti da assoldare.

Jacques Verdoux nel 1878

L’ottavo giorno, un fattorino dell’albergo gli consegnò un telegramma. Era del suo collega e amico Jacques Verdoux, un anziano paleontologo della Sorbona in arrivo dall’Europa per unirsi alla spedizione di Greenstone.
Il messaggio, partito dalla vicina Colombia, diceva che lo scienziato sarebbe giunto l’indomani al porto di El Callao a bordo di un brigantino proveniente da La Palma. Il giorno dello sbarco Sewell andò al porto a ricevere l’amico, e ivi lo trovò in compagnia di due giovani indios vestiti all’europea.
Dopo un caloroso abbraccio e una serie di energiche pacche sulle spalle, il francese presentò a Sewell i suoi due compagni. Si chiamavano Juan e Pedro, erano due giovani peruviani sui vent’anni circa, e avevano incontrato Verdoux a Panama dove lavoravano per una società francese. Una compagnia che era stata incaricata di progettare un canale in grado di unire l’Atlantico al Pacifico: un’opera colossale che però sarebbe stata realizzata soltanto dopo circa una trentina d’anni.
I due indios erano stati cresciuti dai Gesuiti, erano ben istruiti e conoscevano almeno tre lingue ciascuno. Avevano accettato di seguire il vecchio scienziato perché la Societé Eiffel, sull’orlo del fallimento, non li pagava più da mesi, mentre Verdoux aveva promesso loro un lauto compenso.
Quell’incontro fu per Greenstone un vero e proprio colpo di fortuna: finalmente aveva trovato gli uomini che cercava!
Accordatosi con l’amico francese, assunse Juan come aiutante personale, mentre Pedro rimase al servizio del paleontologo.
Quel giorno segnò ufficialmente l’inizio della spedizione alla ricerca del lithofagus.

Due giorni dopo i quattro esploratori partirono da Lima diretti a Cuzco.

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DIARIO IN PUBBLICO
Vissi d’arte… no di turismo: il caso di Ferrara

Ancora una breve notazione sulla vita culturale ferrarese che sappiamo generosa, specie sulle offerte che s’infittiscono e a volte si sovrappongono, tra gli stimoli pressanti che le amministrazioni plaudenti offrono al consumo intellettuale dei cittadini e dei turisti.
Appunto.

Sembra ormai assodato che dapprima venga l’offerta turistica poi, di conseguenza, le altre possibilità. E non importa se i paletti tra pubblico e privato vengano continuamente spostati o, come dice l’assessore alla cultura di Ferrara, l’asticella venga in breve tempo alzata per raggiungere un maggior numero di visitatori. Siamo a gennaio e già si proiettano  gli ‘eventi’ che scandiranno l’anno che viene, mese per mese. Addirittura quattro mostre, incendi, buskers, vulandre, palio e via elencando. Se poi ci saranno problemi… Beh! Quelli verranno risolti ignorandoli o perlomeno trattandoli da quisquilie come ci è stato risposto a proposito del caso sollevato dalle decisioni della direttrice della Pinacoteca dei Diamanti sull’adesione o meno alla card MyFe.

Tra le proposte che mi sembrano più originali, ‘La Repubblica’ riferisce che ben nove musei italiani organizzeranno corsi di yoga. Benché pratichi questa disciplina da tempo infinito, mi sentirei a disagio a fare la figura del loto, di fronte a un Bastianino e perfino davanti a un Bononi! Ben più ficcante il commento di Federico Rampini, che riferisce che al MOMA di New York, tanto per dire, saranno istituiti corsi della disciplina suddetta, ma il biglietto d’ingresso un tempo gratuito al Museo verrà portato a 25 dollari!!
Non dimentichiamo che ai Musei Vaticani il biglietto ora è di 18 euro.

Ricordo che chi cominciò a introdurre il principio dello sfruttamento economico dei luoghi museali fu proprio il Vaticano quando l’editore Panini pubblicò il grande volume sulle sale delle carte geografiche invitando i produttori del parmigiano reggiano a offrire piatti prelibati lungo la galleria ma, attenzione, solo il giorno della chiusura. Così la possibilità di poter invitare (senza merenda!) amici e conoscenti a vedere i luoghi-capolavoro del Museo, come la cappella Sistina un pomeriggio alla settimana, quando ovviamente il museo era chiuso, a quel tempo non riscosse grande successo; ma ne potei approfittare per un compleanno indimenticabile.

Non si tratta dunque di rifiutare a priori l’uso di luoghi privilegiati per introdurre un nuovo modo fruizione capace di snellire’ ciò che molto spesso falsamente è indicato come contesto ‘imbalsamato’, ma di renderlo congruo e non offensivo come, impietosamente mostrava la foto dello scalone della Reggia di Caserta, dove un decoratore per abbellire di fiori lo scalone per un matrimonio privato non si perita di salire in piedi sui preziosi leoni di marmo, simbolo dei Borboni che accompagnano l’ascesa agli appartamenti reali .
Ma ormai, per parafrasare un detto, il turismo avant toute chose.

Si prenda il caso del concerto cui ho assistito al Teatro Comunale Abbado. Con la Chamber Orchestra suonava Yuja Wang, la celebre pianista famosa per il suo abbigliamento come risulta dal programma di sala dove ispirata suona in micro-minigonna meritandosi così l’appellativo di ‘scosciata’. Teatro esauritissimo, quasi quanto accadde  per la divina Martha Argerich; comunque 832 biglietti di paganti che per un teatro di 900 posti è un balsamo. L’anno scorso la Wang stupì tutti presentandosi in castissimo abito lungo; ma quest’anno il colpo di scena. Non più micro-gonna ma la schiena implacabilmente nuda fino al coccige in un abito da sirena a brillantini verdi. Festa dell’occhio, festa dell’orecchio quando suona, ma un imbarazzante contrattempo accade quando, non contenta di tante doti, la nostra si presenta anche in veste di direttore d’orchestra per il primo concerto di Beethoven e per l’andante spianato e la grande Polacca di Chopin. Disastro. Scuote i pugnetti mentre la schiena indifesa sussulta, e s’apre a mostrar parte delle ‘poma acerbe’ scriverebbe il Poeta. I volonterosi orchestrali la seguono attenti e un po’ stupiti, ma niente la può arrestare, allontanandosi trionfalmente alla fine tra gli applausi di un teatro impazzito di gioia.

Penso. Ma chi gliel’ha fatto fare? Possiede un dono ineguagliabile come quello che le permette di suonare il pianoforte in modo strepitoso e un fisico che si può concedere tutto. La Deneuve sarebbe contenta di citarla non tra le donne in nero, ma tra coloro che vogliono e accettano il complimento maschile. Ma perché allora da ‘scosciata’ divenir ‘svitata’ non tanto per le fattezze scoperte, ma per il suo strabordante ego che la porta a dirigere?
Il concerto farà il giro del mondo e susciterà delirio di consensi.
Meditate gente. Ne vale la pena