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Giorno: 16 Giugno 2018

Giornata mondiale del rifugiato

Il Coordinamento Nazionale Docenti della Disciplina dei diritti Umani, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, celebrata il 20 giugno, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 66/76, approvata il 4 dicembre del 2000, per commemorare l’approvazione della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, avvenuta a Ginevra nel 1951, ritiene fondamentale sostenere la necessità di assicurare ai rifugiati il godimento dei loro diritti umani fondamentali e della sicurezza necessaria alla loro sopravvivenza, evidenziando che proprio l’art. 1 nella citata Convenzione fornisce la definizione di status dei rifugiati; tante le iniziative, in tutta Italia, che intendono dare visibilità alle espressioni di solidarietà verso i rifugiati, amplificando la voce di chi accoglie e rafforzando l’incontro tra le comunità locali e i rifugiati e i richiedenti asilo. L’obiettivo è quello di far conoscere i rifugiati attraverso i loro sogni e le loro speranze: prendersi cura della propria famiglia, avere un lavoro, andare a scuola e avere una casa.
La scuola  ha il dovere di aiutare i ragazzi a comprendere il fenomeno delle migrazioni nella sua complessità; proprio in risposta alla pericolosa semplificazione della questione proposta da alcuni mezzi di informazione e a favorire il più possibile l’integrazione e l’inclusione tra studenti provenienti da realtà differenti.
L’epoca in cui viviamo è la più complessa della storia dell’umanità, non solo le migrazioni di massa, ma anche i cambiamenti climatici scaturiti dall’inquinamento globale, la crescita demografica nei Paesi a sud del mondo, l’invecchiamento della popolazione europea, e infine il mantenimento di uno “Stato sociale” moderno, sono tutte tematiche interdipendenti.
Senza una visione sistemica e complessa, che sia in grado di percepire contemporaneamente sia gli effetti locali che gli effetti globali di ogni decisione politica, gli errori decisionali possono avere ripercussioni devastanti. La sfida più grande dunque è riconoscere tra le varie soluzioni quelle idonee, come ad esempio i centri di accoglienza, diffusi sul territorio e finalizzati all’inclusione e al monitoraggio costante del fenomeno migratorio.
Tali luoghi sembrano permettere una migliore qualità dei servizi, facilitano l’incontro personale e risultano comunque produrre un impatto più sostenibile sul territorio. Non sono ipotizzabili soluzioni che prevedano l’espulsione indiscriminata dei richiedenti asilo, proprio perché provenienti da paesi politicamente instabili, in cui sarebbero perseguitati, qualora vi tornassero. Bisogna valorizzare quelle realtà in cui è stato possibile individuare le capacità e le competenze dei rifugiati, divenendo una vera risorsa per le comunità di accoglienza, ma solo dopo aver garantito percorsi formativi linguistici e di cittadinanza attiva e un’informazione adeguata nelle loro lingue originali. Occorre tenere alta la guardia, certamente, per impedire che il sistema di accoglienza, attraverso l’esternalizzazione alle cooperative, si trasformi in fabbrica di clandestini, o occasione di guadagno illecito; a tal fine devono aumentare i controlli sulle cooperative che gestiscono l’accoglienza, sul personale e sulle attività svolte. Non possiamo dimenticare le infiltrazioni mafiose nell’aggiudicazione degli appalti indetti da alcune Prefetture per la fornitura di servizi ad imprese appositamente costituite per spartirsi i fondi destinati all’accoglienza.
Bisognerebbe  rivedere la convenzione di Dublino, cioè il regolamento che definisce quale paese europeo sia competente in relazione alle domande di asilo; in modo da condividere autenticamente difficoltà e responsabilità in Europa alleviando una situazione insostenibile per i paesi di frontiera come la Spagna, l’Italia e la Grecia.
Infine, sarebbe necessario rivedere il termine “emergenza immigrazione”, in quanto si rischia di dimenticare il reale impatto dell’immigrazione in Italia, spiegando che i costi sociali dell’integrazione sono sostenuti principalmente a livello locale (casa, sanità e asili nido), il gettito fiscale e quello contributivo prodotto dai lavoratori stranieri, con l’eccezione dell’Irpef regionale e comunale, si indirizzano verso lo Stato centrale, divenendo meno visibili per le comunità locali.
Rimane a noi docenti il compito non facile, di spiegare i termini, i regolamenti, le fonti statistiche relative al fenomeno delle migrazioni, aiutando gli studenti a saper discernere le informazioni utili e reali, e a formarsi un’opinione critica e lucida. Creare inoltre, occasioni di approfondimento, attraverso la visita dei musei, la lettura di libri, la proiezione di film, musica, pittura e lo studio della terminologia appropriata (Glossario sull’asilo e la migrazione, Consiglio Nazionale delle Ricerche Dipartimento Scienze Umane e Sociali, Patrimonio Culturale Roma (https://immigrazione.it/docs/2017/glossario-asilo-migrazione.pdf)).
“Nessuno stato sociale può sopravvivere se deve confrontarsi con una continua crescita della popolazione. A meno che, naturalmente, non vi sia pari sviluppo. Poi c’è un fattore emotivo da non sottovalutare, ovvero il livello di empatia che una società è in grado di esprimere nei confronti dei nuovi venuti e nella capacità di comprendere il fenomeno demografico. L’atteggiamento ostile di alcuni Paesi europei è un errore politico ed etico.
L’Europa possiede già un’anima solidale. Il che naturalmente non vuol dire immigrazione incontrollata. L’Africa deve comunque trovare la sua via allo sviluppo affinché la sua gente trovi lì vita e benessere”. Amartya Sen

Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani

Camelot amplia i territori in cui opera e favorisce la crescita occupazionale

• Approvato il Bilancio 2017 di Camelot con un aumento del numero di soci e lavoratori che alla fine dello scorso anno si attesta a 373.
• La cooperativa, grazie alla fusione con la realtà ravennate Persone In Movimento, consolida ed amplia i servizi nei territori di Ferrara, Bologna e Ravenna, confermando la capacità di rispondere, insieme alle istituzioni territoriali, ai bisogni sociali delle comunità.
• Il progetto Vesta per l’accoglienza di rifugiati in famiglia nato a Bologna, è ora attivo anche a Ferrara.

15 Giugno 2018 – Si è svolta questo pomeriggio presso la Camera di Commercio di Ferrara, l’Assemblea dei Soci della cooperativa Camelot, aperta dal Segretario Generale della Camera di Commercio di Ferrara Mauro Giannattasio.

E’ intervenuto Tiziano Tagliani, Sindaco del Comune di Ferrara, per portare il saluto dell’Amministrazione.

Al centro dei lavori dell’Assemblea c’è stata la presentazione dell’attività dell’anno 2017, con un approfondimento da parte della Presidente di Camelot Patrizia Bertelli del Bilancio Sociale, che ha messo in evidenza la crescita della cooperativa dal punto di vista dell’occupazione, con un aumento di soci e lavoratori che sono arrivati a 373 (il 52% in più rispetto al 2016) e del fatturato, pari a 14.037.564,20 euro.

Un importante risultato per una realtà che ha come principale obiettivo quello di creare impiego e servizi nel territorio, mantenendo la vocazione all’innovazione, senza mai perdere l’attenzione alla professionalità, alla formazione di soci e lavoratori e al benessere delle comunità in cui opera.

La totalità dei rapporti di lavoro è di carattere subordinato, la componente femminile rappresenta quasi i due terzi del personale (il 62% pari a 233 donne) e l’età media aziendale è di 35 anni.
L’aumento dei servizi ha visto anche un aumento dei soci di Camelot, cresciuti del 42%, un incremento che ha riguardato tutte le fasce d’età, ma che risulta più consistente tra gli “under 30” e la fascia tra i 30 e i 40 anni.

Negli ambiti di intervento della cooperativa che riguardano l’accoglienza e integrazione di richiedenti e titolari di protezione internazionale o umanitaria e di minori stranieri non accompagnati, oltre che i servizi educativi, socio – assistenziali e l’inclusione lavorativa di soggetti a rischio di marginalità sociale, nel 2017 le principali attività svolte da Camelot hanno riguardato la gestione di 961 posti di accoglienza, l’assistenza di 34.830 cittadini italiani e stranieri presso gli sportelli del Centro Servizi Integrati per l’Immigrazione (CSII) nei comuni della provincia di Ferrara, il coinvolgimento di oltre 625 bambini italiani e stranieri nei doposcuola e centri estivi e la realizzazione di 13 percorsi di inserimento lavorativo per persone svantaggiate.

Nel 2017 abbiamo raggiunto anche un altro prestigioso obiettivo ottenendo dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato un Rating di Legalità di “due stelle e due più”, confermando il nostro impegno per garantire ogni giorno servizi affidabili e trasparenti.

Il 2017 è stato anche l’anno in cui il progetto Vesta per l’accoglienza di rifugiati in famiglia, nato a Bologna nel 2016, è stato attivato anche a Ferrara ed ha ottenuto la menzione, per la categoria Cooperative Sociali, nell’ambito del premio “ER.RSI Innovatori Responsabili” della Regione Emilia – Romagna per la responsabilità sociale d’impresa e l’innovazione sociale.

Oltre ad approfondire l’attività del 2017, la Presidente di Camelot Patrizia Bertelli, ha illustrato le azioni più
significative che la cooperativa ha intrapreso a partire dallo scorso anno.

“Il 2017 è l’anno che ha visto il completamento della fusione con la cooperativa sociale Persone In Movimento, che ci ha permesso di offrire i nostri servizi oltre che a Bologna e Ferrara, anche al territorio di Ravenna, ampliandoli per quanto riguarda le azioni di riduzione del danno nella prostituzione e il contrasto alla tratta di esseri umani”.

Nel solco di questa fase positiva, alla fine del 2017, Camelot si è posta una nuova meta: la possibilità di attuare un percorso di integrazione con CIDAS, con cui già lavora in varie attività per la cura e il benessere della famiglia.

A febbraio 2018 il Consiglio d’Amministrazione di Camelot ha deliberato di approfondire il progetto di fusione e, a seguire, sono stati realizzati diversi incontri interni per condividere con Soci e Lavoratori motivi e opportunità della fusione e sono stati pianificati tavoli tematici per prendere in esame specifici aspetti organizzativi.

Come ha spiegato l’Amministratore Delegato di Camelot Carlo De Los Rios: “La prossima tappa di questo percorso, la più importante, sarà l’approvazione della fusione da parte delle due Assemblee dei Soci di Camelot e CIDAS, che si riuniranno a fine luglio. Se le Assemblee daranno un parere positivo al progetto, entro la fine dell’anno avremo una nuova cooperativa sociale che sarà in primo luogo un’opportunità per i nostri Soci e Lavoratori e anche un’importante risorsa per i territori in cui operiamo.
Questo ci permetterà di guardare al futuro con rinnovata solidità e capacità di interpretare le nuove sfide poste da una Società in rapida trasformazione”.

Le conclusioni dell’Assemblea sono state affidate ad Andrea Benini, Presidente Legacoop Estense.

Da Ufficio stampa Coop. CAMELOT

Caccia alla street art in centro storico per l’avvincente anteprima di Manufactory Festival

Un avvincente itinerario in centro storico, per una singolare caccia al tesoro, volta a scoprire opere d’arte urbana disseminate tra vie, ponti e canali, ha coinvolto questa mattina i bimbi delle scuole d’infanzia “N. S. di Lourdes” e “M. Virgili” di Comacchio. “Caccia alla street art” è il nome dell’iniziativa, incentrata sul tema del “Piccolo Principe”, che di fatto ha anticipato la prima edizione di “Manufactory Festival”, evento che dal 21 al 24 giugno prossimo accenderà i riflettori al Villaggio Raibosola, per una grande performance collettiva di giovani writers provenienti da tutto il Paese. In quella occasione il celebre Dzia, street artist belga, si cimenterà con altri venti artisti a dipingere una porzione (circa 800 metri) dello stadio comunale “Raibosola”. Le opere scovate questa mattina dai bimbi tra il colonnato del Museo Delta Antico, Piazza Folegatti, la Chiesa del Rosario, via Muratori e l’antica pescheria seicentesca, sono state esposte nella sala “Nati per leggere” di Palazzo Bellini, dove si potranno ammirare sino a fine anno. La singolare caccia al tesoro dai più piccoli è stata vissuta come una vera e propria passeggiata culturale, nel segno dell’amicizia e della scoperta della storia e delle tradizioni dei luoghi attraversati. L’itinerario è stato preceduto da laboratori didattici in aula, coordinati dall’artista Marco Mei, autore delle opere inserite nel progetto di “Caccia alla street art”.
La manifestazione, patrocinata e sostenuta dal Comune di Comacchio, curata da Melania Ruggini, è stata coordinata da Anastasia Rizzoni, animatrice culturale della biblioteca comunale “L.A. Muratori”.

Rete per la Pace

È rinata a Ferrara la Rete per la Pace.
Associazioni, sindacati, cittadini hanno sentito l’ urgenza di promuovere una nuova convivenza pacifica, di contrastare il clima di intolleranza e la conseguente deriva verso la violenza.
In Italia gli episodi di intolleranza contro ogni diversità aumentano ogni giorno, mentre media e politica alzano il livello dello scontro sociale accrescendo diffidenza e terrore, nonostante i tassi di criminalità nazionali siano in calo da tempo.
Nel mondo le guerre, la violenza verso i più deboli, i muri e le minacce sono in continuo aumento. Persino le minacce nucleari sono sbandierate continuamente dai vari leader mondiali.
Siamo molto allarmati, vediamo intorno a noi macerie invece vorremmo si ricostruissero legami sociali forti all’ interno della nostra Comunità, improntati al rispetto, la tolleranza e l’accoglienza. Vogliamo definirci dalla parte dei più deboli ed emarginati, impegnandoci per un’azione a sostegno della loro inclusione sociale.
Noi non ci arrendiamo a questo clima di intolleranza e paura, e per affermarlo ci troveremo mercoledi 20 giugno alle ore 18,00 in Piazza Trento Trieste a Ferrara per iniziare un percorso di Pace che ci vedrà presenti con altre iniziative.
Invitiamo tutte le realtà democratiche, pacifiste, antifasciste e antirazziste ad essere presenti in piazza con noi e aderire alla Rete.

20 giugno alle ore 18 in piazza Trento Trieste per la
PACE e LA CONVIVENZA PACIFICA
Rete per la Pace
Prime adesioni:

Cgil, Cisl, Uil, Cittadini del Mondo, Occhio ai Media, Ufficio pastorale sociale e del lavoro, giustizia, pace e salvaguardia creato – Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, Associazione Papa Giovanni XXIII, Comitato Acqua Pubblica, Federazione Prc Ferrara, Ibo Italia, Cisv, Ass. Nadiya, Udi, Anpi, Arci, Arcigay, ArciLesbica, Movimento Nonviolento, Comunità Pakistana, Centro Documentazione Donna, Associazione culturale Leggere Donna, Altraqualità, Ferrara Incomune,

Ufficio comunicazione, formazione e informazione CGIL

Infanzia: Save the Children

consegnate al Presidente della Camera Roberto Fico le oltre 35mila firme della petizione contro “L’Italia vietata ai minori”

Nella delegazione che ha incontrato il Presidente anche i ragazzi di Sottosopra, il movimento di giovani per l’Organizzazione, per chiedere maggiore attenzione all’infanzia nell’azione legislativa del Parlamento e al contrasto alla povertà educativa

Una delegazione di Save the Children, l’Organizzazione internazionale che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro, ha incontrato oggi il Presidente della Camera Roberto Fico, per consegnare le oltre 35mila firme di adesione alla petizione “L’Italia vietata ai minori”, raccolte durante la campagna Illuminiamo il futuro e per portare all’attenzione del Parlamento la gravissima condizione di povertà materiale ed educativa in cui vivono milioni di bambini nel nostro Paese.

La petizione – consegnata da una delegazione di ragazzi di SottoSopra, il movimento di giovani per l’Organizzazione – chiedeva il recupero dei tanti spazi pubblici in stato di abbandono e degrado su tutto il territorio nazionale, da destinare ad attività sportive, educative e culturali gratuite per i bambini e gli adolescenti. Nel corso dell’incontro è stata ribadita l’importanza della centralità del Parlamento – uno dei dieci luoghi simbolo dell’Italia vietata ai minori – nel prendere iniziative proprie e nel sollecitare un’azione di governo che sia orientata al rispetto dei diritti dell’infanzia e che metta i minori al centro delle politiche.

Save the Children ha ricordato che in Italia sono oltre un milione e trecentomila i bambini che vivono in povertà assoluta e ancor di più sono coloro che vivono in condizioni di povertà educativa, più nascosta e meno evidente, che priva i bambini dell’opportunità di costruirsi un futuro. La povertà educativa alimenta un devastante circolo vizioso che trasmette da una generazione all’altra la povertà e condanna le future generazioni a vivere in condizioni di povertà e alla mancanza di opportunità di sviluppare talenti e competenze.

“Un vero cambiamento non può che partire da politiche di sostegno e protezione per l’infanzia, e di protagonismo dei giovani: i bambini e i ragazzi sono il futuro di questo Paese. Per questo ci auguriamo che i loro diritti siano al centro dell’azione di questo nuovo Parlamento e che indirizzino i provvedimenti e le politiche del governo in azioni concrete che diano risposte alla povertà economica ed educativa che colpisce un minore su dieci nel nostro Paese”, afferma Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children Italia.

Nel corso dell’incontro, è stato inoltre illustrato al Presidente della Camera il contenuto dell’ultimo Atlante dei Minori Stranieri non Accompagnati, presentato ieri da Save the Children. A questo proposito l’Organizzazione ha sottolineato al Presidente Fico quanto sia fondamentale la piena attuazione della legge sui minori stranieri non accompagnati 47/2017, frutto di iniziativa Parlamentare, e che è stata approvata poco più di un anno fa, come principale strumento di accoglienza e integrazione dei minori stranieri non accompagnati presenti nel Paese.

Comunicato Regione: Imprese

Vertenza Demm, segnali positivi: l’obiettivo resta quello di salvaguardare tutti i 191 lavoratori

Oggi a Roma al ministero dello sviluppo economico confronto tra le parti. Il prossimo appuntamento fissato per giovedì 28 giugno

Bologna – Segnali positivi sul futuro della Demm di Porretta – Alto Reno Terme (Bo) . E’ quanto emerso, questa mattina a Roma, al tavolo di confronto convocato al Ministero dello Sviluppo economico. Da un lato la disponibilità della azienda a mantenere gli attuali livelli occupazionali, 191 lavoratori. Dall’altro, la volontà dei sindacati nel giungere ad un accordo. Rimangono alcune questioni aperte che attengono al confronto tra sindacati e acquirente, che saranno oggetto di un confronto nei prossimi giorni per arrivare con una proposta definita di accordo al prossimo tavolo ministeriale già fissato per il prossimo 28 giugno.

All’incontro al Mise erano presenti l’assessore regionale Alle Attività produttive, Palma Costi, la vice sindaco del Comune di Alto Reno Terme, Elena Gaggioli, i rappresentati aziendali di Certina, il fondo industriale che ha acquistato la Demm, i rappresentanti della Città metropolitana di Bologna, di Fiom e Fim regionali e territoriali e la Rsu aziendale.

In questo quadro le Istituzioni, consapevoli del valore economico e sociale che l’azienda ha sul territorio, hanno garantito l’impegno a mettere a disposizione tutte le risorse possibili per favorire non solo l’ammodernamento, ma anche il rilancio del sito produttivo e una ulteriore qualificazione dei lavoratori.

“La nostra attenzione- affermano Regione Emilia-Romagna, Città metropolitana di Bologna e Comune di Alto Reno Terme- rimane comunque alta per una procedura che, è bene ricordarlo, ha ad oggi un acquirente disponibile a salvaguardare la totalità dei posti di lavoro, grazie anche a l’intensa collaborazione tra tutti i livelli istituzionali e le organizzazioni sindacali”.

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Capitalisti, progressisti e populisti: il caso Aquarius e il duello tra l’Italia e l’Europa

La nave Aquarius, con 629 migranti a bordo, è destinata a essere uno spartiacque.
Ha avuto la sventura di avere gli occhi puntati del governo del cambiamento e il suo destino di essere uno fra gli sbarchi sulle coste siciliane è decisamente cambiato.
Con il suo “no” all’attracco italiano, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha fatto capire che sui migranti la musica è cambiata.
In tutta la vicenda non è sfuggito il protagonismo del titolare del Viminale, e leader della Lega Nord, di fronte a una quasi afonia del presidente del Consiglio.
Dopo i fronti diplomatici con la Tunisia, per le parole di Salvini sul paese che esporterebbe “galeotti”, e con Malta, cui sarebbe toccato il dovere di accogliere i migranti dell’Aquarius, di fatto un terzo se n’è aperto con la Francia.
In questo caso, per la verità, sono stati governo e partito del presidente Emmanuel Macron a metterci del loro, definendo il comportamento del governo di Roma “irresponsabile”, “cinico” e “vomitevole”.
Anche le dichiarazioni in direzione Roma del premier spagnolo, il socialista Pedro Sanchez, non sono state simpatiche. L’offerta del porto di Valencia non basta però a nascondere le ragioni di calcolo del primo atto ufficiale di Madrid per accreditarsi sulla scena internazionale, dopo la crisi che ha travolto l’esecutivo guidato da Mariano Rajoy. E questo impedisce di attribuire il gesto unicamente alla solidarietà umanitaria.
C’è uno strano vento che gonfia le vele della maggioranza giallo-verde e principalmente della sua trazione leghista.
Sono in tanti a soffiare in quella direzione e la cosa singolare è che sembra farlo anche chi è convinto di soffiare dalla parte opposta.
L’esempio francese pare calzante. A parte il pulpito da cui viene la predica, lo strappo di Parigi anziché mettere in discussione una linea politica, finisce per rafforzarla. Conferma cioè le convinzioni di Salvini a cercare nuovi equilibri europei verso est, in direzione Ungheria. Nonostante le contraddizioni di un abbraccio solo apparente, perché Viktor Orban con le sue chiusure sui migranti ne scarica di fatto tutto il peso sull’Italia.
L’ipotesi, poi, di un asse Roma-Vienna-Berlino ventilata sulla gestione delle frontiere esterne, è un altro prodotto di questa mancanza di visione e già il fatto che se ne parli è un danno.
Così l’Europa, dopo avere voltato la testa quando si trattava di non lasciare l’Italia da sola, si frantuma in un ordine sparso completamente in balia degli interessi nazionali, nemmeno più capaci di una sintesi almeno formale.
Se l’Ue alla prova dei fatti è questa, si gonfiano le vele di chi l’ha sempre guardata con scetticismo. Se non c’è una politica comune su un problema migratorio che è il vero banco di prova per un governo unitario, perché continuare a diventare matti per rispettare vincoli di bilancio e parametri che in tanti, ormai, definiscono stupidi?
Non solo.
A brindare c’è da immaginare siano quelle parti del mondo che, per interessi loro, scommettono sul fallimento di Bruxelles: Russia, Cina e anche gli Usa di Trump. Per non parlare di altri che, come la Turchia, magari sono meno importanti, ma è la somma che fa il totale, come diceva Totò.
Tutti perimetri geopolitici contrassegnati da autoritarismo e populismo.
Stili di governo distanti anni luce dalla cultura democratica, che è l’atto di nascita di un’Europa sempre più vaso di coccio tra vasi di ferro.
Se si conviene che quello populista sia il collante principale che tiene insieme, almeno finora, il governo del cambiamento, il pensiero torna alle vele spiegate e sospinte da un vento favorevole.
La Brexit ha tutta l’aria di essere stato un campanello d’allarme che ha suonato invano. Le biografie di chi ha votato per l’uscita avrebbero dovuto essere il vero terreno di analisi.
Il vincitore di quel referendum nel giugno 2016 è stato l’elettorato della paura, ossia gli strati sociali usciti sconfitti e impoveriti dalla più grave crisi economico-finanziaria dell’Occidente dal dopoguerra. Più o meno, lo stesso elettorato che, oltre oceano, ha portato Donald Trump alla Casa Bianca.
E qui veniamo a un’altra folata di vento che gonfia le vele populiste: la sinistra.
Nell’interessante dibattito innescato da Carlo Triglia su “Il Mulino”, Nadia Urbinati analizza la crisi del Pd. Thomas Piketty la chiama “sinistra braminica”, cioè quella che in Italia vince ai Parioli e perde nei quartieri popolari. La sinistra, precisa la studiosa che insegna alla Columbia University di New York, che sociologicamente vince dentro le mura, nelle zone a traffico limitato.
Qui si assiste a uno storico capovolgimento della rappresentanza politica. Gli strati sociali un tempo serbatoio tradizionale della sinistra, ora lo sono della destra.
L’ultimo fallimento in ordine di tempo è la Terza via teorizzata in terreno britannico da Antony Giddens e tradotta in programma di governo da Tony Blair. Al netto delle differenze, quella renziana è stata la traduzione italiana, per giunta in ritardo sull’orologio della storia come dicono gli esperti.
Il problema col quale non si riesce (o non si vuole) fare i conti, è che è saltato l’equilibrio progressista e socialdemocratico di quel compromesso che Jürgen Habermas ha chiamato tra capitalismo e democrazia.
Per compensare le inevitabili disfunzioni del sistema capitalistico (in questo aveva ragione Marx) interviene lo Stato che, in cambio di legittimazione, garantisce un sistema di compensazioni in termini di servizi e welfare.
Il problema nasce, e lo colse lucidamente già all’inizio degli anni ’80 Achille Ardigò nel suo “Crisi di governabilità e mondi vitali”, quando inizia a scricchiolare questo equilibrio perequativo.
Sulla riflessione dello statunitense O’Connor in:“Crisi fiscale dello Stato” (1979), Habermas, per quanto non semplice, rimane chiarissimo: “Le legittimazioni mancanti devono essere compensate con risarcimenti conformi al sistema. Una crisi di legittimazione si produce non appena le pretese di risarcimenti conformi al sistema aumentano più rapidamente della massa dei valori disponibile, o quando si ingenerano aspettative impossibili da soddisfare con risarcimenti conformi al sistema”.
È l’annuncio, già decine di anni fa, che il coperchio stava per saltare perché per mantenere un certo livello di uguaglianza sociale, gli Stati stavano perdendo il controllo dei bilanci pubblici, producendo debito.
Venendo ai giorni nostri, il vicolo cieco da cui non sembra esserci via d’uscita è che se si vuole uguaglianza bisogna sopportare debiti pubblici insostenibili, mentre una politica di bilancio più avveduta significa tagli ai sistemi di welfare e allora le distanze sociali iniziano di nuovo a crescere. Se così è, la bestia capitalista, senza museruola, ricomincia a concentrare ricchezze a dismisura in poche mani, com’è nella sua natura.
Uno dei piedi d’argilla su cui ha retto, finanziariamente, il compromesso socialdemocratico è stato il basso costo delle materie prime, in gran parte provenienti dal Sud del mondo.
Di fatto, non solo gli spiriti animali capitalisti sono stati sfruttatori del Terzo mondo, ma anche i progressisti.
E se oggi si assiste a un esodo migratorio di queste proporzioni, non è il risultato solo dei signori vestiti di nero in cilindro e finanziera, ma di una serie di addendi ben più ampia.
Andato in frantumi il compromesso di stampo progressista tra capitalismo e democrazia, anche nelle molteplici variabili, nessuno ha ancora pensato a un nuovo modello che possa reggere la prova della storia.
Nel frattempo il capitalismo continua a essere darwinianamente vivo e vegeto e, come disse il consigliere di John Kennedy Arthur Schlesinger Jr., il sistema democratico ha bisogno per vivere del libero scambio ma non è vero il contrario.
Se queste ragioni hanno un briciolo di buon senso, la sinistra ha difficoltà perché, come scrive Nadia Urbinati, “da un lato una buona condizione sociale e lavorativa rende gli stessi diritti sociali non pressanti; dall’altro, la condizione sociale vulnerabile rende i servizi sociali veri e propri beni di necessità”.
Dunque, la politica progressista al governo, con l’intento di passare dal sistema delle garanzie a quello delle opportunità, ha finito per lisciare eccessivamente il pelo ai lupi di economia e finanza e sventolando, con le migliori intenzioni, la bandiera della flessibilità, ha aumentato precarietà e distanze sociali.
Perciò, indossando simultaneamente i panni della giustizia sociale e le forbici dei tagli, la sinistra perde credibilità perché smentisce la sua stessa mission, viene annoverata a tutto ciò che è establishment e finisce per soffiare vento nelle vele dell’avversario.
Così la barca dei populismi è sospinta in avanti ben oltre la forza dei propri remi e ha buon gioco, finora, perché la crisi scoppiata alla fine degli anni 2000 ha prodotto una società piena di paure, disillusa e senza bussola.
Con un elemento di gravità in più rispetto al passato.
Mentre la società del dopoguerra aspirava a un futuro dal niente che aveva, in quella di oggi molti hanno perso quello che finora hanno ritenuto scontato di avere. E questa retrocessione della classe media nella scala sociale aggiunge rancore alla paura.
Ma la barca populista riceve anche un’altra spinta, più o meno consapevole.
Anche chiesa cattolica e cattolicesimo italiani hanno soffiato – e soffiano – in quella direzione.
Da un lato, vescovi e Vaticano, per rilanciare missione ed evangelizzazione in un’Italia preda della secolarizzazione, già dagli esiti del referendum sul divorzio (1974) iniziarono a stoppare la strada del discernimento, della scelta religiosa, della conciliare “lettura dei segni dei tempi” e della mediazione, per preferire la più decisa, muscolare e ciellina, strada della “presenza”.
Una scelta che alla fine fu disattenta sulle conseguenze di prosciugare il cattolicesimo democratico, riducendo a ininfluente rigagnolo uno storico affluente della classe dirigente italiana.
Tanto per fare un esempio, si devono a questa tradizione culturale interi pezzi della Costituzione repubblicana del 1948 e bastano solo pochi nomi per renderci conto di chi parliamo: Dossetti, Bachelet, Moro.
L’apice della strada percorsa, invece, trova fatale sintesi iconografica nell’epilogo del Celeste Formigoni e nella strategia ecclesiale di individuare in Silvio Berlusconi il paladino dei valori non negoziabili. Un alleato, per quanto tattico, che però ha fatto del proprio rapporto diretto con il popolo la principale arma puntata contro qualsiasi altro potere istituzionale non vantasse quella stessa diretta legittimazione, a cominciare dalla magistratura.
È così che si è soffiato vento nelle vele populiste.
Dall’altro lato, le energie di un volontariato sociale cattolico solidaristico e terzomondista, sempre più confinato nelle riserve indiane del pre-politico e nel nome del sacrosanto principio del rispetto della persona, corrono il rischio parallelo di annoverare nelle schiere dell’opulento e oppressivo Occidente capitalistico anche gli sconfitti interni della competizione globale.
Le pulsioni egoistiche e securitarie che agitano tante periferie, fuori le Ztl, lette con la lente della mancanza di accoglienza evangelica, rischiano di alimentare diffidenza e distanze, lasciando quote di quelle sofferenti chiusure in balia di chi si proclama in presa diretta col popolo.
Altro vento in poppa nella barca populista.
È legittimo avere dubbi sulla durata di questa luna di miele. Lo stesso atteggiamento amichevole di rapportarsi direttamente al popolo senza inutili e false mediazioni, nasconde almeno altrettante menzogne.
Per adesso, però, questa sintonia c’è.
Se si vuole invertire la tendenza, l’impressione è che occorra andare dentro questo stato delle cose, innanzitutto per comprenderlo fino in fondo.
Ne deriva che ci vorrà tempo per costruirne una nuova. Un cammino che, forse, dovrà essere un’altra generazione a compierlo.
Ciò che sembra certo è che serve a poco limitarsi a stigmatizzare – anche a sproposito – come fascisti i sostenitori e gli epigoni di questa stagione, se non si vuole soffiare altro vento in quelle vele.

Quale accoglienza

Sulla vicenda della nave Aquarius si sono sprecate le citazioni evangeliche. La più gettonata da cardinali (vada per loro, è il loro mestiere) fino agli amministratori locali è Matteo 25: “Ero straniero e mi avete accolto”. Nessuno però che dica come vengono accolte queste persone. Nessuno che si vergogni per come vengono ospitate. Gesù da straniero fu accolto ovunque come un ospite di riguardo da chi lo amava veramente e in questo sta il senso della massima evangelica. Noi, invece, il massimo che abbiamo fatto è come se avessimo accolto un ospite in casa nostra, ma lo avessimo messo a dormire in cantina o nel sottoscala e gli avessimo portato un piatto di pasta anziché invitarlo a sedersi alla nostra tavola.

E’ esattamente ciò che abbiamo fatto con la nostra presunta accoglienza. E questa ipocrisia, di cui ho già scritto su Ferraraitalia (leggi qui), non è più accettabile. Non si può più sentire. Perché nelle condizioni in cui si trova l’Italia c’è un evidente problema di sostenibilità sociale che non si è voluto vedere tra questi flussi migratori e le nostre tante sacche di marginalità, sofferenza, povertà vecchie e nuove. In un paese capace di creare da solo mostri abitativi (senza bisogno che vi siano emergenze), quartieri ghetto per i suoi stessi cittadini dove non arrivano servizi pubblici, non ci sono biblioteche, librerie, centri di ritrovo culturale, case popolari per chi non ha un tetto, presidi sanitari e scuole decenti. In un paese in cui il Sud arranca. È in questo contesto che ci è piovuta addosso l’ondata migratoria per la nostra collocazione geografica. Ne vogliamo tenere conto o no? L’Italia non è Ferrara (mi scusi il direttore che certamente comprenderà il senso). Fate un giro a Scampia, nella periferia romana, in alcuni quartieri di Torino e Milano, uscite dalle quattro mura cinquecentesche che rendono questa città quasi sospesa sulla realtà, dove pure ci sono grossi problemi di integrazione, a volerli vedere. Lo stesso discorso vale per la Grecia, che è messa peggio dell’Italia, su cui l’ondata migratoria è stata dirompente e devastante nell’indifferenza dell’Europa.

Sul come accogliamo è notizia di giovedì scorso l’arresto di due proprietari terrieri a Marsala che tenevano persone immigrate in condizioni di schiavitù in un capannone senza servizi igienici, con una paga di tre euro l’ora per 12 ore di lavoro nei campi e come vitto ‘compreso’ nella paga pane secco e acqua. Dai braccianti si facevano chiamare “padrone” e loro li chiamavano con il nome del giorno della settimana, la più becera negazione dell’identità personale. Questa è l’accoglienza dell’Italia nel 2018. E allora basta raccontarsela!
Salvini ha sbagliato a chiudere i porti? Forse. E volutamente non prendo posizione e rivendico il diritto a non schierarmi, a non essere intruppato nella logica “o con me o contro di me” tipica di certa sinistra di maniera con “scappellamento a sinistra” verso posizioni staliniste. Preferisco non schierarmi con la demagogia dell’“Ero straniero e mi avete accolto”. Sempre. E qui sì, mi schiero. Contro la demagogia. Di sicuro – e questa è la mia posizione netta – il salvataggio in mare è un obbligo morale, prima ancora che giuridico, al quale non ci si deve, e non ci si può sottrarre per nessuna ragione. Le persone vanno salvate, messe in sicurezza e poi le collocazioni andranno cercate con la collaborazione degli altri paesi europei. Punto. E allora in considerazione della sostenibilità sociale di cui parlavo più sopra varrebbe la pena che il dibattito sulle quote di immigrati da assegnare ai diversi paesi diventasse di dominio pubblico, che i cittadini comuni possano esprimere la loro opinione, fare proposte ed essere ascoltate da chi amministra la cosa pubblica.

Ma vediamo un po’ di dati. Le ultime linee guida dell’Ue sulla ricollocazione dei migranti presenti sul territorio dell’Unione o che sarebbero rientrati direttamente, risalgono al 2015. I parametri di riferimento per stabilire le quote sono il Pil, la popolazione, il livello di disoccupazione e i rifugiati già presenti sul territorio nazionale. Sulla base di questi parametri alla Germania sarebbero andati il 18,4% dei rifugiati, il 14,2 alla Francia e l’11,8 all’Italia. Seguono la Spagna con il 9,1, la Polonia col 5,6, ecc.
Secondo dati del ministero dell’interno aggiornati, invece, al 12 giugno scorso gli sbarchi dal primo gennaio di quest’anno sono stati in totale di 14.441 persone, in prevalenza tunisini (circa tremila). Di questi 12.742 dovrebbero essere (il condizionale è d’obbligo) ricollocati tra i vari paesi Ue in base agli accordi in vigore. La quota maggiore (5.435) dovrebbe andare alla Germania, alla Francia solo 640. Quindi la differenza tra gli sbarchi e le ricollocazioni assegna di fatto all’Italia una quota di 1.699 persone, quasi tre volte quelli della Francia. Non è chiaro dal sito del ministero se le ricollocazioni previste dagli accordi intra Ue siano già state effettuate o se devono ancora esserlo. Dalle parole di Salvini in aula, riferendo sulla vicenda Aquarius in risposta alla Francia, sembra di capire che le ricollocazioni sono già avvenute.
I dati Istat, invece, fotografano in dettaglio la presenza degli stranieri regolari residenti in Italia che al 1° gennaio 2017 erano 5.047.028. Restringendo il focus sulla nostra regione, l’Emilia Romagna, le presenze erano 529.337. Divise per provincia, nella nostra le presenze sono 29.931, il dato regionale più basso. Nella provincia di Bologna sono 117.861, Piacenza 40.113, in quella di Parma 61.286, Reggio Emilia 65.292, Modena 90.212, Ravenna 47.137, Forlì-Cesena 41.368, infine Rimini 36.137. Ovviamente dalle rilevazioni sfuggono tutti coloro che non sono registrati e non hanno permesso di soggiorno che si stimano essere circa 500mila a livello nazionale. La Lombardia è la regione col più alto numero di residenti stranieri: 1.139.463.
Secondo i dati pubblicati sul sito dell’amministrazione comunale di Ferrara, gli stranieri residenti nel solo comune, al 31 dicembre scorso, sono 13.616, al netto dei clandestini.
Stando ai numeri della nostra provincia e del comune l’emergenza non ci dovrebbe essere. Tanto più che gli stranieri da noi sono meno che nelle province di Piacenza e Rimini, come si può vedere dai dati sopra, nonostante abbiano una popolazione complessiva inferiore alla nostra: rispettivamente 286.758 e 336786, mentre la provincia di Ferrara ne ha 348.362. Eppure, gli episodi di cronaca che vedono coinvolte persone extracomunitarie sono quotidiani. L’insofferenza è a livelli allarmanti. Allora delle due l’una: o la stampa esagera e c’è qualcuno che rimesta nel torbido perché i giornali bisogna venderli; oppure qualcosa nella cosiddetta accoglienza in questa città non ha funzionato. Come sempre, probabilmente la verità sta nel mezzo. Politicamente, con questi numeri, chi amministra la città e il partito di maggioranza si è cullato che il fenomeno immigratorio poteva essere facilmente controllato e gestito. Il territorio non è stato presidiato con vere politiche di integrazione, né dalle istituzioni né dai partiti di governo (una volta esistevano le sezioni di partito, ora sono diventati quasi tutti ‘liquidi’). Ci si è fidati troppo del fatto che la città contenesse in sé gli anticorpi necessari per governare spontaneamente il fenomeno senza bisogno di particolari interventi dell’amministrazione nel favorire, guidare e governare l’incontro tra le diverse comunità. Si è pensato, un po’ troppo semplicisticamente, che la comunità autoctona e quella in arrivo da fuori si sarebbero naturalmente incontrate, riconosciute e accettate reciprocamente. Così non è stato. È stato lasciato uno spazio vuoto che è stato occupato dalla Lega e dai suoi pittoreschi personaggi che rischiano di conquistare il palazzo municipale alle prossime amministrative. E allora di chi sarà la responsabilità se i numeri sono questi? Di un’immigrazione fuori controllo o di una scarsa capacità di governo? Qualcuno dice che in democrazia chi vince le elezioni ha ragione ed evidentemente questa regola varrà anche alle prossime amministrative, chiunque vinca.

Se si guarda, invece, al quadro nazionale è evidente che più di qualcuno sul fenomeno migratorio ci marcia, e su questo non ci piove. Come ho già scritto su queste pagine di sicuro ci marcia questo sistema di produzione capitalistico che ha bisogno di braccia a basso costo e a bassi diritti. Sulle cooperative non voglio fare dietrologia, mi limito a citare atti di indagine in cui qualcuno, poi arrestato nell’ambito di mafia capitale, ha detto che con gli immigrati si fanno più soldi che con il traffico di droga (quindi un’interpretazione, come dire, autentica del fenomeno). Sarà vero? Sarà che le mafie hanno differenziato i propri investimenti, proprio come le imprese e la finanza? Può essere che qualcuno abbia in mente di
destabilizzare la nostra democrazia utilizzando i flussi migratori? Sarà che il traffico di esseri umani, manipolando le nostre emozioni, è diventato il nuovo business delle mafie e che la saldatura tra mafie e politica ha impedito finora di affrontare il tema in modo razionale?

Quantitative easing senza fine

La Banca Centrale Europea ha deciso che l’operazione di Quantitative Easing si concluderà a fine 2018. Il suo Governatore, Mario Draghi, ha precisato che si tratta di una sospensione, ma che lo strumento esiste e, se ce ne dovesse essere bisogno, potrà essere utilizzato di nuovo in futuro.
Il quantitative easing (qe) era stato introdotto nel 2015 e in tre anni e dieci mesi di vita ha prodotto (e produrrà) acquisti di titoli di varia natura, ma soprattutto titoli di Stato, per 2.595 miliardi di euro. 600 miliardi acquistati nel 2015, 900 nel 2016 quando gli acquisti mensili furono portati a 80 miliardi, 780 nel 2017 e 315 nel 2018, considerando che da gennaio a settembre gli acquisti mensili equivalgono a 30 miliardi per poi attestarsi a 15 come operazione di tapering (diminuzione degli acquisti) nell’ultimo trimestre.
Il proseguimento degli acquisti ha determinato un incremento dello stato patrimoniale consolidato dell’Eurosistema, che è aumentato del 22% portandosi a quota 4.472 miliardi di euro (3.661 miliardi nel 2016).

Cosa prevede il post-que?
Un primo ed evidente dato tecnico sarà assistere alla diminuzione dello stato patrimoniale della Bce, che appunto calerebbe non avendo più 2.595 miliardi di asset. Oppure no. La Bce potrebbe infatti decidere di mantenerlo reinvestendo il controvalore dei titoli o, ancora, vendere i titoli prima della scadenza.
Il motivo? Mantenere liquidità nel sistema. Opzioni che al pari dello stesso qe sostituiscono le parole, ma non cambiano il concetto dello ‘stampare moneta’, che non si può dire. Come aveva detto in conferenza stampa qualche tempo fa Mario Draghi rispondendo alla domanda di un giornalista: “la Bce ha ampie risorse per affrontare qualsiasi crisi”, “possono finire i soldi?”. I soldi non possono finire in quanto c’è qualcuno che ha il potere di crearli al bisogno, ma se la si facesse troppo facile allora crollerebbero le azioni di chi ha il potere di farlo, qualcuno perderebbe insomma potere e anche la possibilità di imporre sacrifici.

La logica dovrebbe poi aiutarci a comprendere che in un sistema deve per forza esserci qualcuno che la moneta la immetta, altrimenti quanto meno non sarebbe più possibile effettuare scambi (e far crescere il pil). E chi ha il potere di farlo, viene da sé, ha costi di emissione irrisori a meno di non voler far credere che debba andarli a cercare chissà dove o scavarli nelle miniere.
Ora, tenere in piedi una messinscena così complessa per fare l’ operazione più semplice dell’universo può portare all’ilarità ma purtroppo, nella nostra vita reale, porta più spesso alla disperazione, alla chiusura delle aziende, ai licenziamenti, all’impoverimento dei cittadini. Alla regressione totale di intere nazioni in termini finanziari, sociali, di fornitura di servizi, di riequilibrio nella distribuzione della ricchezza.

In conclusione prendiamo atto, come sempre, delle decisioni di fare e disfare sulla nostra pelle, senza motivi reali o veramente necessari. Accettiamo di buon grado, non potendo fare altro, l’imminente interruzione dell’acquisto di titoli da parte delle banche centrali quando nemmeno il target dell’inflazione al 2% è stato raggiunto e nonostante questa operazione avesse dimostrato ai più che era possibile tenere lontano la speculazione e gli alti tassi d’interesse a carico degli Stati.
Dopo la fine del qe crescerà la vulnerabilità degli Stati, si alzeranno i tassi di interesse sui titoli, e quindi più costi sul piano debito pubblico, e gli spread (almeno per alcuni Paesi). Probabilmente ci sarà anche un rialzo dell’euro sul dollaro, il che peggiorerebbe i rapporti di bilancia commerciale, ovvero potrebbe intaccare la quota di surplus raggiunta sulle esportazioni. Da considerare che proprio grazie al qe il rapporto euro-dollaro aveva subito una svalutazione più o meno del 30% e tale svalutazione ci ha avvantaggiato senza portarci le catastrofi che invece si invocano quando si parla di una possibile svalutazione di una eventuale “lira” in caso di uscita dal sistema di cambi fissi dell’euro.
Insomma, se si ha a disposizione un’arma per allontanare la speculazione e migliorare anche la bilancia commerciale, perché non utilizzarla? Misteri delle regole europee, ma anche delle convinzioni indipendentiste rispetto alle banche centrali, le quali, si dice, devono operare per mantenere inalterato le leggi del mercato anche a discapito di Stati e cittadini.

MEMORABILE
La città al di là del mare

Incomincia questa settimana una serie di segnalazioni relativa ad alcuni romanzi dello scrittore ferrarese Luigi Bosi, tali opere sono appena state pubblicate in versione digitale (ebook) a cura della casa editrice Tiemme Edizioni Digitali (www.tiemme.onweb.it), che li ha messi a disposizione dei lettori in tutte le librerie del web. Il primo della serie è ‘La città al di là del mare’, si legge nella sinossi al libro: “A nonno Luigi, che non ho mai conosciuto e del quale so ben poco. Un bel giorno mise quattro stracci in una borsa e se ne andò lontano: in Argentina. Come si sia svolta la sua vita in quel Paese, e come là sia avvenuta la sua morte, non l’ho mai saputo. A me piace pensare che i fatti si siano svolti come io li ho immaginati”.