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E venne l’ora del rendiconto.
Leggo, non proprio stupito, l’intervento di Ranieri Varese apparso sulla ‘Nuova Ferrara’ del 3 gennaio che, a ragione (almeno dal mio punto di vista, giustificato dall’essere stato fino a pochi mesi fa presidente dell’Associazione Amici dei Musei e monumenti ferraresi, quindi in qualche modo coinvolto nella discussione sulle sorti della Pinacoteca Nazionale di Palazzo dei Diamanti), critica in modo tanto più esatto quanto più inflessibile l’odierna situazione della Pinacoteca, forse il tesoro più mal compreso e meno culturalmente efficace di Ferrara.
Si è appena spenta l’eco della deprecabile idea di trasferire la Pinacoteca in Castello, sempre più divenuto la star dei nostri beni culturali, tra incendi e tavole imbandite (che sia poi questo il destino dei musei e dei monumenti?). E ora la dottoressa Martina Bagnoli, a capo della Pinacoteca con il recente ordinamento della stessa nelle Gallerie estensi, di fatto ne decide abbastanza disinvoltamente destino e conduzione. Non si richiede o perlomeno non più si richiede competenza specifica dei luoghi museali a cui si viene preposti e non ci risulta che, pur validissima nel suo campo strettamente legato all’ambito medievale nei musei di Baltimore e nelle tecnologie informatiche, si sia mai interessata all’arte estense ferrarese o modenese che sia. Sono ormai passati i tempi in cui valorosi sovrintendenti ressero le sorti di quella che fin dalla sua costituzione raccoglieva ciò che resta della gloria estense e legatizia, alcuni mitici, molti usciti dalla fucina bolognese e quindi naturalmente legati ai luoghi e alle opere custoditi in Pinacoteca.
Ma se la competenza si può naturalmente acquisire più grave appare come indica Varese la ‘distrazione’ con cui la dottoressa Bagnoli gestisce il rapporto con la città, con l’amministrazione comunale e con i legali rappresentanti dei depositi di parti rilevanti della quadreria, di fatto posseduti dalla Fondazione Carife. Qui al solito si ritorna ormai all’ossessione di ‘sfruttamento’ del giacimento culturale che ormai sembra la preoccupazione più urgente a cui debbono sottostare le case dell’arte, i luoghi del sapere rivelati attraverso le immagini. Così la dottoressa Bagnoli disconosce una convenzione accettata, quella cioè di far parte di MyFe , una carta che prevede l’accesso gratuito a una consistente parte dei Musei cittadini.
Varese riferisce che “L’Amministrazione comunale è titolare di una convenzione che, fra molte altre cose relative all’edificio e alle opere stabilisce che la direzione della Pinacoteca preventivamente comunichi alla municipalità ogni spostamento, intervento e azione nei confronti di dipinti che, nonostante il passaggio di gestione, continuano ad essere ‘ferraresi’ parte ineludibile della storia e della vita della città”. Su questa convenzione sarebbe inciampato il sindaco di Ferrara che secondo notizie riportate dalla stampa “non si sarebbe messo a litigare per queste cose”. Da qualche sondaggio intrapreso mi viene risposto che la convenzione non sarebbe più valida e quindi a maggior ragione avrebbe dovuto essere divulgata.
La dottoressa Bagnoli tergiversa e risponde che se ne parlerà più avanti per un eventuale ritorno alla convenzione MyFe; comunque una mossa almeno precipitosa per usare un eufemismo.

Il mio parere, se può valere qualcosa, consiste in quella che io considero la mossa più sbagliata nel tempo cioè la coesistenza nello stesso edificio di due istituzioni assai importanti quale la Pinacoteca e Ferrara Arte, organizzatrice delle mostre temporanee. La scelta del luogo per le mostre è da sempre stata infelice con la gravissima cesura tra le stanze in verità assai modeste dove si svolge la mostra e il passaggio en plein air che comunque rovina la continuità dell’esposizione per raggiungere le ultime due. Problema antico risolto malamente per non rinunciare al ‘marchio di fabbrica’ con cui erano cominciate e legato al Palazzo dei Diamanti. Tentativi di spostamento inesorabilmente bocciati, compresa la soluzione ottimale dei locali dell’ex Monte di Pietà, perché la collocazione ledeva il marchio. Ancor più suggestiva avrebbe potuto essere la ipotesi di farle in Castello.
Il trasloco delle mostre organizzate da Ferrara Arte procurerebbe quei locali di studio senza i quali una importante istituzione culturale non può sopravviver: luoghi in cui procedere ad aggiornare il catalogo; una biblioteca specializzata e un’agevole possibilità di raggiungere i depositi. Si pensi poi alla disastrosa presenza di servizi igienici obsoleti.

Sarà dunque vero che la primaria esigenza sarebbe quella di riempire la Pinacoteca con masse – absit iniuria verbis – attente a ‘selfare’ e a capire quasi nulla degli strepitosi capolavori che ivi tranquillamente abitano nella loro solitudine prosperosa? Ormai è la condizione più difficile da acquisire: solitudine, qualità, spazi adatti. Così passano anche sotto silenzio le bellissime conferenze che si fanno nel salone d’onore, ma è indubbio che pochi uditori si spingono a visitare gli abitanti più importanti, le opere custodite, avvolti nel loro mistero.
C’è poi il problema del deposito delle collezioni della Fondazione Carife non donate alla Pinacoteca, ma affidate alla cura di essa. Perché, si domanda Varese, non si ode la voce dei legittimi proprietari? Che potrebbero almeno far sentire il loro intento di come si risolve il problema della diffusione e conoscenza delle opere, lasciando alla direttrice colpe e oneri della scelta di uscire da MyFe.
Leggo poi in questa corsa affannosa a riempir musei e monumenti, secondo la logica dello sfruttamento, che ci si lamenta dei teloni (non teleri!!!) che coprono le facciate di quasi tutti i luoghi pubblici e artistici ferraresi.
Perché occorre la visione del luogo per recarsi al museo?
Lo so che mi si potrebbe accusare di essere un radical chic, sbagliando clamorosamente l’analisi. Sono costoro, i radical chic, che premono per lo sfruttamento dei luoghi artistici, ma purtroppo stiamo assistendo a una terrificante evoluzione dei tempi.
Sono andato a vedere una mostra meravigliosa e difficilissima da comprendere: ‘Revolutija. Da Chagal a Malevich, da Repin a Kandinsky’ al Mambo di Bologna. Folle giustamente incantate e probabilmente ignare della qualità di quella pittura. L’ho percorsa con un grandissimo storico dell’arte e non l’ho capita tutta. Però, come gli altri ‘io c’era’! Poi saliamo al piano superiore ad ammirare una volta di più il Museo Morandi cioè il luogo dove sono esposte le opere del più grande pittore italiano e non solo del secolo scorso.
Eravamo noi due.
Va bene riempire i musei, ma riempirli con cognizione di causa, ‘con juicio’ come predicava Manzoni. Eppure c’è il terrore dei flop.
Si è imbarazzati dal poco successo della mostra Bononi, tuttavia quel modesto risultato di pubblico ha permesso un ringiovanimento del punto di vista critico necessario e che darà i frutti col tempo.
Dunque un’esortazione a chiarire l’arruffata situazione dei beni culturali, specie di una città che contiene ancora tanti e così importanti testimonianze di un passato glorioso che lambisce anche gli ultimi anni del millennio.
Penso al tesoro sommo che Ferrara possiede: il museo della Cattedrale, che per fortuna è frequentato non da folle, ma da un numero accettabile di visitatori. Questo sarebbe l’ottima soluzione ma…

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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