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In pochi mesi il demone della guerra, sempre santa per chi la combatte, ma sempre abbietta per chi la subisce, ci ha rapito e distrutto alla memoria e al cuore due momenti fondanti della nostra civiltà, ma non solo: i templi di Palmira e la cosiddetta Tomba di Giuseppe.
Perdite tanto più dolorose perché più indissolubilmente legate alla mia flaubertiana education sentimentale.  Cinquantacinque anni fa, nelle aule che davano sull’Arno, due grandi storici dell’antichità, Giulio Giannelli e Giovanni Pugliese Carratelli, ci raccontavano della scoperta di Palmira e della regina Zenobia. Dopo più di mezzo secolo, quando la memoria si era concretizzata in templi e colonne restaurati,  l’Isis distrugge monumenti e ricordi fino alla barbarie suprema di giustiziare il conservatore di quei luoghi. Dopo pochi mesi, nella terribile lotta che oppone palestinesi e israeliani, viene distrutto un altro momento della nostra coscienza: la Tomba di Giuseppe, sacrario di memorie per  entrambe le religioni.
Sembra quasi che l’ottenebramento della luce sia sigillo e prerogativa di stolte guerre che dalla religione prendono spunto per stendere un greve e pesante velo di non-conoscenza, di falsificazione della verità, che brilla solo quando è protetta dall’arte, quando è poesia. Le mistificazioni, i compromessi, gli orrori della guerra sono il non-patrimonio della nostra Storia, l’insulto feroce alla ragione e al cuore.

Nel 1933 esce nella Germania appena divenuta nazista il primo volume dell’immensa opera di Thomas Mann che prenderà il nome di Giuseppe e i suoi fratelli. Il primo volume, pubblicato a Berlino, porta il titolo “Le storie di Giacobbe” (Die Geschichten Jaakobs), l’ultimo della tetralogia verrà concluso solo nel 1943 nell’esilio americano e pubblicato a Stoccolma con il titolo “Giuseppe il Nutritore” (Joseph der Ernährer).
Negli anni Sessanta del secolo breve venni iniziato alla conoscenza di questo romanzo dal mio maestro Claudio Varese. La sua lettura, assieme alla “Recherche” proustiana, diventò fondamentale per indirizzarmi a quegli studi che da allora sono sostanza del mio percorso critico. Ma cosa poteva trovare nei ponderosi volumi della tetralogia manniana un giovane ricercatore che oltretutto non conosceva e non ha mai conosciuto la lingua tedesca? La risposta arrivò anni dopo con la conoscenza di Furio Jesi, che nella sua “Germania segreta” mi introdusse al concetto della manipolazione del mito, il mito tecnologico, che abolisce la Storia e mistifica ciò che noi dovremmo sapere del passato per costruirci un futuro. E mi scuso per la semplificazione di un concetto che sta alla base della democrazia nata dalla e nella Storia e che invano cerca di non servirsi del mito per produrre la verità. In altri termini il mito nella sua insondabile e non descrivibile profondità è la garanzia e l’assicurazione che l’uomo può e deve realizzarsi nella Storia. Così il prologo delle “Storie di Giacobbe” – pubblicato molte volte come riflessione generale del pensiero manniano con il titolo “Il pozzo del passato” rappresenta forse il risultato più complesso della necessità del mito nella storia. Se il mito non può essere sondato fino in fondo perché il pozzo del passato ci lascia solo sfiorare gli orli e gettare uno sguardo nella sua insondabilità, sono poi i racconti del mito e sul mito che ci permettono di accedere a ciò che è sostanza mitica e al senso del nostro essere al mondo.

Il racconto di Giuseppe è dunque comune alle fedi che si richiamano al patriarca Abramo, l’ebraica, la musulmana e cristiana: Giuseppe è figlio di Giacobbe e nipote di Isacco, a sua volta figlio di Abramo. Quindi sarebbe inconcepibile che la presunta tomba di Giuseppe a Nablus in Gisgiordania sia stata profanata venerdì 16 ottobre – il cosiddetto ‘venerdì dei coltelli’ – dai seguaci delle tre fedi. Si sostiene però che il fuoco sia stato appiccato da un centinaio di Palestinesi. Ciò che rende ancor più angoscioso questo episodio della lunghissima guerra israelo-palestinese è che ancora una volta la fede è usata come pretesto da chi, nel suo nome, vuole distruggere il senso di una storia che per essere cambiata deve essere annullata. Thomas Mann in quel prologo ci offre la possibilità di accedere al mito raccontando la storia del giovane Giuseppe e la sua straordinaria missione di conciliazione con mondi e fedi diverse. Molte fonti sostengono che Giuseppe sia morto in Egitto e lì mummificato e sepolto, ma come sempre nella storia dei luoghi santi, la tomba di Giuseppe a Nablus è un riferimento più mentale che reale della sopravvivenza del mito, e lo scrittore tedesco sa che solo raccontando una storia ebraica nella Germania nazista è possibile ricostituire quella possibilità che il mito ha di accamparsi nella storia. Per essere fruito e riconquistato il mito ha però bisogno di essere avvicinato con l’ironia, quella leggerezza che Calvino ci ha insegnato a riconoscere nelle sue “Lezioni americane”. Di fronte alla violenza nazista del 1933 la storia ebraica di Giuseppe doveva far leva sul principio della leggerezza contro la soffocante solidità dei miti fascisti e nazisti, espressi da un racconto così intangibile e solido da essere vanificato nella montaliana fede feroce.

Ecco: i guerrieri dell’Isis che hanno distrutto le rovine di Palmira, i giovani palestinesi che hanno incendiato la cosiddetta Tomba di Giuseppe non conoscono né leggerezza né ironia, ma la greve, soffocante arma ideologica di una fede che non dà scampo, che non è misericordiosa.
La caritatevole visione di Thomas Mann, che al di là dei suoi convincimenti, dei suoi dubbi, delle sue ansie, vuole come suprema missione affermare la ‘nobiltà dello spirito’ non può che affidarsi a questo convincimento che apre le pagine immense della sua tetralogia: “Profondo è il pozzo del passato. Non dovremmo dire insondabile? Insondabile anche, e forse allora più che mai, quando si parla e discute del passato dell’uomo: di questo essere enigmatico che racchiude in sé la nostra esistenza per natura gioconda ma oltre natura misera e dolorosa. E ben comprensibile che il suo mistero formi l’alfa e l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande, dia fuoco e tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni nostro problema”.
Ma i feroci assassini della Storia non hanno voluto come Giuseppe ficcare lo sguardo “nei sotterranei abissi del passato”. A loro è bastato appigliarsi alla negazione di ciò che è umano per far prevalere ottusità e violenza in nome di un’incolpevole religione.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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