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Diritti o economia, una scelta che sembra vincolante e inequivocabile per lo sviluppo delle società odierne. Nel dilemma fra un’impostazione welfaristica ‘all’europea’ o liberistica ‘all’americana’ è facile perdersi in un oceano di luoghi comuni. Da una parte chi vorrebbe vedere i diritti sempre e comunque trascurati qualora l’obiettivo fosse un’economia più solida; mentre dall’altra l’economia dovrebbe venire inevitabilmente sacrificata se la volontà fosse di espandere i diritti e avere un miglioramento sul piano sociale.
Ma qual è in definitiva l’obiettivo di un’economia? Fosse davvero tutto semplice al punto da esser riducibile a formule matematiche, più che di economisti avremmo bisogno di ingegneri. Una delle definizioni più famose e fredde del termine economia è: “la scienza che studia la riallocazione efficiente delle risorse scarse”. Si tratta di una frase che da sola dice poco o nulla e il cui unico risultato è di spostare il punto di domanda da una parola a un’altra: cosa intendiamo per efficienza? E quando un’economia è efficiente? Dal punto di vista dell’insieme di variabili non potremmo non constatare che un miglioramento di alcune di esse ha come causa o conseguenza il peggioramento di altre (si prenda per esempio la curva di Phillips, che dimostra come vi sia un trade-off fra disoccupazione e inflazione); e una “saggia via del mezzo” non può dimostrarsi sempre e comunque auspicabile.
Ciò a cui punta, o dovrebbe per quanto possibile puntare, un’economia per essere efficiente è il massimo miglioramento realizzabile del benessere delle persone dati i mezzi a disposizione. Questo ovviamente non significa mettere in atto una politica del ‘panem et circenses’ per rendersi simpatici a un popolo viziato, ma far sì che sia la crescita dei diritti a trainare lo sviluppo economico. Si tratta dell’idea di base del pensiero di Amartya Sen, Premio Nobel per l’economia nel 1998 per “i suoi contributi alle teorie economiche del welfare” e per aver “restituito una visione etica all’economia”. Certamente molte cose vengono date per scontate nelle società progredite in cui viviamo, ma facendo mente locale ancora nel terzo millennio in molti paesi è più breve l’elenco dei diritti effettivamente goduti dalle persone che non quello delle illibertà da esse sofferte. Già l’eliminazione di queste ultime potrebbe rivelarsi un ottimo punto di partenza per lo sviluppo delle economie attualmente arretrate, schiave non solo di carenza di investimenti, ma anche di una carenza di libertà tale da soffocare l’iniziativa dei propri cittadini. Una chiara testimonianza è data dal fenomeno delle caste in India, a causa delle quali si è destinati o, per meglio dire, condannati dalla nascita a rivestire un determinato ruolo all’interno della società, senza la speranza di poter migliorare la propria condizione. Questo porta inevitabilmente una civiltà ad atrofizzarsi e a non essere in grado di sfruttare il capitale umano, che pure avrebbe a disposizione: una maggiore mobilità sociale può dare alle persone la possibilità di credere nei propri sogni, e credere nei propri sogni è il primo passo per realizzarli migliorando contemporaneamente il benessere sociale ed economico dei singoli e dell’intera collettività.
Un fenomeno analogo di mancato sfruttamento del capitale umano è dato dalle iniquità di genere. Al di là dell’aspetto etico, nessun paese potrà mai pensare di raggiungere un buon livello di competitività economica sul piano internazionale se decide di non sfruttare il 50% della sua forza lavoro potenziale. Ma questo è ciò che succede in molte aree in ritardo di sviluppo, dove alle donne vengono precluse tutte le possibilità non solo della vita lavorativa, ma anche dell’istruzione. Il fatto di non saper leggere, scrivere e fare di conto, come ci ricorda Sen, è fondamentale nel rendere l’individuo autosufficiente, libero e indipendente, oltre che a consentire di maturare in lui il senso critico necessario per prendere in mano il proprio destino. Ruolo attivo e benessere sono due elementi distinguibili solo a livello teorico: le donne per ottenere un benessere pari a quello degli uomini devono poter disporre degli stessi diritti e questi, per rendere una popolazione più partecipativa ed efficiente a livello economico, devono crescere.
Un altro luogo comune vuole che le democrazie siano meno efficaci a livello gestionale rispetto a sistemi autoritari nel garantire la crescita economica. Si tratta di una forzatura sicuramente facile da smentire: indubbiamente un potere centrale forte può essere più deciso nel suo operato, ma non sta scritto da nessuna parte che tale potere prenda le decisioni giuste. Al contrario, le potenze democratiche nel tempo hanno saputo dimostrare una maggior efficienza non solo sul piano sociale, ma anche su quello economico: mai nella storia si è registrata una carestia in un paese democratico. Vi sono state sicuramente annate in cui il raccolto è stato particolarmente scarso, ma i governi democratici hanno sempre dimostrato di avere una marcia in più per quanto riguarda il proprio approvvigionamento. D’altra parte, nulla è in grado di stimolare i policy-makers a mettere in atto politiche efficienti e utili allo sviluppo dei propri Paesi quanto il doverne render conto ai popoli da essi governati, sottostare al giudizio di questi ultimi in sede elettorale. Tutto ciò dimostra che un sistema democratico non è un punto di arrivo, bensì un punto di partenza per il processo di crescita dei Paesi in ritardo di sviluppo. Un potere autoritario con la forza può essere in grado di far crescere il Pil di uno Stato, ma ciò non basta a render lo Stato veramente sviluppato, né a garantire un’equa ed efficiente redistribuzione delle ricchezze accumulate, necessaria a garantire una spesa aggregata sufficiente a stimolare il circolo virtuoso della crescita.
Si parla continuamente della Cina, strabiliati dalla sua incredibile crescita economica, ma in fondo ben pochi di coloro che la conoscono veramente e che progettano il proprio futuro all’estero sarebbero disposti a stabilirvisi. L’attrattiva che un paese può esercitare su nuove forze lavoro giovani e istruite, in grado di apportare un contributo importante alla crescita economica non è data solo dalla sua offerta di lavoro, ma anche dai suoi livelli di sicurezza e salubrità, oltre che di libertà. Si tratta di requisiti che possono essere garantiti unicamente da un regime democratico, indispensabile perché non c’è vera crescita senza democrazia.

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Fulvio Gandini


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

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