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Il dibattito intorno al referendum ha offerto una prova di clima rispetto a quello (ben più rilevante per il merito) dell’autunno in materia costituzionale. Uno scontro acceso in cui l’oggetto (in questo caso) rappresenta sostanzialmente il pretesto di uno scontro politico a favore o contro il governo.
Mi sono chiesta più volte perché il dibattito politico assuma oggi i toni esasperati e scomposti tipici delle tifoserie del calcio, perché, proprio nel tempo che sancisce la fine delle ideologie, il confronto sia così animato da sentimenti fortemente antagonisti. Vincere o perdere, per la grande massa delle persone che si esprimono nello spazio pubblico, non è solo una questione di idee e di interessi, ma prima di tutto una questione di sentimenti e di appartenenza. Proprio quando le appartenenze reali si indeboliscono, i sentimenti sono più accesi. L’esito è che ogni questione appare sempre un’ultima decisiva battaglia, al termine della quale un cambiamento palingenetico ci traghetterà in un’altra situazione (un altro governo) in cui il confronto politico potrà assumere toni meno aspri e generare approcci e proposte meno laceranti. Ma così non può essere fino a che la politica non imbocca la strada di un ripensamento radicale.

Per troppo tempo si è scambiato per qualunquismo ogni critica severa alla classe politica, per troppo tempo sono stati considerati errori di ‘diversa natura’ quelli commessi da esponenti di uno o dell’altro schieramento (connaturati quelli di destra ed eccezionali quelli di sinistra). La constatazione del generale degrado ha poi dato luogo a una rabbiosa ricerca del capro espiatorio. Bisognerebbe prendere atto che le questioni sono più serie e profonde.
Certo, nessun paese è fuori delle grandi questioni che attraversano questo tempo: i nuovi problemi posti dalla globalizzazione e l’emergente tendenza alla ri-nazionalizzazione, vale a dire la illusoria ricerca di protezione di fronte ai movimenti migratori; la crescita delle diseguaglianze; la drammatica difficoltà dei sistemi di istruzione di confrontarsi con l’esigenza di formare competenze adeguate alle sfide (e alle opportunità) dell’innovazione e quella, opposta, di non tradire le istanze inclusive che hanno accompagnato la scolarizzazione di massa. Tutti i paesi vivono contraddizioni analoghe, sono in qualche modo vittime delle stesse dichiarazioni aggressive e manichee con cui i problemi tendono ad emergere. Pensiamo all’Inghilterra che dopo avere dato largo spazio alle espressioni anti Ue, vede con giustificate preoccupazioni per le proprie condizioni economiche, un voto orientato all’uscita dall’Unione.
Ma, mentre i partiti appaiono sempre più incapaci di un’impennata di consapevolezza e dignità per rigenerarsi, sembra che non esistano condizioni di governabilità al di fuori di questi. E’ questa l’impressione che ci rimandano gli infuocati scontri per le presidenziali americane: l’impressione che le appassionate testimonianze di dignitosi outsider resteranno appunto tali, non compatibili con regole ed equilibri che richiedono per il mondo (e non solo per un paese), equilibrio e senso della mediazione.
Allora forse sta qui il punto: di fronte a tante multiformi spinte populiste servirebbe recuperare il valore (e la capacità) della mediazione, della costruzione di proposte di medio-lungo periodo – oltre il breve riscontro offerto dai sondaggi. Questo vorrebbe dire essere preoccupati della crescita, come questione prioritaria, ricordando che il tasso di crescita in Italia resta attestato su percentuali decisamente inferiori a quello di altri paesi, tanto è vero che l’Ocse colloca il nostro paese al penultimo posto su 34 economie avanzate. Senza crescita non è possibile una democrazia inclusiva, non è possibile recuperare fiducia, non è possibile offrire fondate attese di un lavoro decente per molti giovani che rischiano la marginalità.

Maura Franchi vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com

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Maura Franchi

È laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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