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Dopo ‘La sindrome della rana’ che rischia di rimanere bollita, ‘La città della conoscenza’ questa settimana si occupa di lumache e tartarughe, con ‘L’elogio della lentezza’. Non sono gli animali dell’Imperatore di Borges, ma sempre bestiole utili alle nostre riflessioni.

L’analogia fra la nostra mente e il computer pare ormai far parte del senso comune. Tanto che abbiamo perso di vista, se è il computer che deve tendere ad imitare i meccanismi del nostro cervello o se dobbiamo essere noi ad apprendere a funzionare come un elaboratore. In attesa di una fantascientifica era di osmosi tra la macchina e l’uomo, prima che il processo si avvii, per progressiva atrofizzazione di quanto non sia coinvolto nello smanettamento di iPhon, tablet e tastiere, concediamoci un intervallo di sano ‘slow’. Prendiamoci il gusto di andare controcorrente, di fare come Ribelle, la lumaca della favola di Sepúlveda, che in viaggio sul carapace di una tartaruga scopre l’importanza della lentezza.
Le tartarughe le hanno affrescate anche i pittori del Vasari, oltre cinque secoli fa, nel soffitto del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze. Sono tartarughe a vela, una sorta di simbiosi tra animale e macchina ante litteram. Sì, perché ognuna porta inalberata sul carapace una vela gonfia di vento, con la scritta ‘festina lente’, affrettati lentamente, ossimoro quanto mai significativo.
Sono queste immagini a suggerire al professore Lamberto Maffei, presidente dell’Accademia dei Lincei ed ex direttore dell’Istituto di Neuroscienza del Cnr, di scrivere ‘L’elogio della lentezza’, edito da il Mulino.
Il professore Maffei ci spiega, con buona pace dei cognitivisti della Human Information Processing, che non siamo multitasking, che non siamo biologicamente predisposti per eseguire più programmi contemporaneamente. Il nostro cervello e il computer hanno ben poco in comune ed è quanto mai pernicioso per la salute della nostra corteccia cerebrale tentare di imitare, o addirittura competere, con la rapidità dei nostri ‘processing device’.
Sarebbe sufficiente pensare alla storia dell’evoluzione del cervello umano, per comprendere che si tratta di una macchina lenta, con i suoi tempi e le sue sequenze. La velocità, i ritmi frenetici, la convulsione non convengono a lui, tanto meno a noi che dai suoi impulsi facciamo discendere le nostre reazioni, che, per via della fretta, spesso si rivelano ingannevoli e avventate.
In un mondo in cui viviamo continuamente con l’incubo del tempo insufficiente, del tempo perduto, fermarsi dal correre forse a molti può apparire un lusso. Ma chi non ha gridato almeno una volta, come Mafalda di Quino, ‘fermate il mondo che voglio scendere’, per avere la soddisfazione di guardarlo da fuori, manifestando così la sua avversione per i pensieri deboli e veloci?
Sebbene l’inglese, da questo punto di vista, non dia molte garanzie, è tutto un fiorire di slow city, slow food, slow motion, fino allo slow touring come indubbie espressioni del bisogno di prendersi un po’ di respiro, della necessità di riscoprire i vantaggi dei tempi lunghi. Tanto da celebrare la giornata mondiale della lentezza, il 13 maggio.
Potete pure visitare il sito dell’associazione italiana “Vivere con lentezza” (www.vivereconlentezza.it). È un progetto nato per riflettere e far riflettere sui danni economici, sociali, personali e ambientali determinati da una vita ad alta velocità. Propone di ripensare al valore sociale del lavoro per uno sviluppo economico in armonia con l’uomo e con l’ambiente. Promuove uno stile di vita in contrapposizione con i ritmi frenetici della nostra agenda quotidiana, fornendo l’elenco dei primi 14 “comandalenti”, per trovare la velocità giusta nella vita.
Per esempio: se fate la fila, in un supermercato, davanti a uno sportello in banca, in un locale pubblico, non cedete alla tentazione della rabbiosa insofferenza, e approfittatene piuttosto per fare una nuova conoscenza, o ascoltare una storia. Non inzeppate l’agenda di impegni, così come non provate a fare sempre più cose contemporaneamente. E non dite mai: non ho tempo. Anche perché non è vero, e la lentezza è molto più di una possibilità, come ci ricorda il funzionamento del nostro cervello. Lento dalla nascita.
Esiste anche ‘La pedagogia della lumaca’, è un libro che ha scritto un uomo di scuola, di Cesena, Gianfranco Zavalloni, purtroppo ci ha lasciati da poco, a soli cinquantaquattro anni. Per una scuola lenta e non violenta, rispettosa del tempo e soprattutto della vita dei nostri bambini e ragazzi.
Sapremo ritrovare tempi naturali? Sapremo attendere una lettera? Sapremo piantare una ghianda o una castagna nella consapevolezza che saranno i nostri pronipoti a vederne la maestosità secolare? Sapremo aspettare?
Sono alcune delle domande a partire dalle quali Gianfranco Zavalloni cerca di fornire risposte con il suo libro. È un invito a genitori, insegnanti, educatori a riflettere insieme sul senso del ‘tempo educativo’ e sulla necessità di adottare strategie didattiche di rallentamento.
Daniel Kahneman, premio Nobel nel 2002, in ‘Pensieri lenti e veloci’, edito da Mondadori, ci richiama alla lentezza proprio per evitare gli errori sistematici del nostro pensare. Soprattutto quelli così diffusi come i pregiudizi, che sono dovuti non al fatto d’essere vittime delle nostre emozioni, ma alla struttura particolare dei meccanismi cognitivi.
Che la mente sia logica e razionale è un assunto dogmatico. L’ipotesi che la nostra mente sia soggetta a errori sistematici è ormai largamente dimostrata.
È sconcertante il limite della nostra mente, l’eccessiva sicurezza con cui crediamo di sapere, la nostra evidente incapacità di riconoscere quanto siano estese la nostra ignoranza e l’incertezza del mondo in cui viviamo.
Questo perché la mente rischia il buio nel sovrapporsi di decisioni troppo rapide e noi rischiamo di compiere le scelte sbagliate.
Dunque la riscoperta della lentezza potrebbe essere una buona terapia contro i nostri ‘bias’, falsi concetti, e gli effetti dello stress digitale, dove tutto viene comunicato in tempi record attraverso e-mail, sms, tweet.
Forse è il caso di rispolverare il vecchio adagio ‘rifletti prima di parlare’, per lasciarsi prendere dal ritmo delicato della lentezza, per apprendere ad ascoltare l’altro, per imparare il dialogo e come la vera conoscenza apprezzi i tempi lunghi.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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