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Mio fratello nacque nel 1944 in una cittadina del nord della Germania. Infuriava la guerra. I nazisti erano ancora al potere, specialmente nelle menti delle persone. Per i miei genitori deve essere stato scioccante apprendere che mio fratello era nato spastico.
Mia madre ammutoliva sempre, quando noi più tardi nella vita parlavamo della disabilità di suo figlio, mio fratello. Il padre, interrogato sui ricordi, amava rifugiarsi impacciato nelle frasi fatte: «Sono stati tempi difficili».

Ad un certo punto i miei genitori avevano anche sentito dell’eutanasia, ‘l’eliminazione delle vite senza valore’ come si chiamava nel gergo dei nazisti. Ma cosa importava a loro, fino a quando erano gli altri ad esserne colpiti? Certo pochi mesi dopo la nascita di mio fratello era finita la guerra e con essa il nazionalsocialismo, ma erano forse per questo diventate prive di fondamento le paure dei miei genitori?

Dal momento della nascita di mio fratello, per quanto io potessi percepire, i miei genitori cominciarono a comportarsi diversamente. Ci si vergognava di uno della famiglia, i cui modi di muoversi e di parlare erano diversi da quelli degli altri ‘bambini normali’. Fra la famiglia e il mondo esterno vennero eretti alti muri di paura e di distanza. La vergogna determinava interamente i nostri rapporti con le altre persone. I miei genitori ora evitavano l’ambiente circostante e si chiusero nel proprio mondo. Mio fratello venne iscritto nella scuola elementare di zona e non in una scuola differenziale. Una una cosa positiva, si direbbe oggi, ma allora fu l’inizio di una via crucis. In quel periodo venni al mondo io. Solo anni, forse decenni dopo cominceranno a crescere in me certi interrogativi.

Una rete emozionale intrecciata di affetto e repulsione, di ostentato amore e rabbia repressa, di sfida e disperazione si posa sopra una famiglia con un bambino disabile. Perché proprio noi, perché proprio io?

Sebbene fossi un bambino sano venni allevato in un mondo fatto a misura di un bambino disabile. Non ho mai imparato ad essere indipendente. Mi si veniva incontro su tutto. Non dovevo dare nell’occhio, dovevo ringraziare di non essere disabile. Il dover rinunciare al proprio tempo, per doversi orientare su quello quello altrui, lo ha ben espresso Carmelo Samonà nel suo racconto Fratelli. Riconoscente lo ero pure, ma avrei dovuto forse dire grazie di non essere preso in considerazione all’ombra di mio fratello?

Mia madre si impappinava con frequente evidenza quando chiamava i suoi figli. Diceva che le veniva sulle labbra innanzitutto la prima sillaba del nome di mio fratello. Si correggeva immediatamente e chiamava il mio di nome. «Di problemi ne abbiamo già abbastanza», replicò, quella volta che esposi al pubblico il nostro nome, per aver sottoscritto una lettera di plauso all’obiezione di coscienza, pubblicata da un giornale .

Oggi il mio riserbo verso gli sconosciuti non è venuto meno, più o meno come non si è placata la paura di far qualcosa di male e di dare nell’occhio. Continuo a sentirmi in molte cose inferiore. Ma perché, per quale ragione? I miei interessi li devo sempre porre in secondo piano. Avere riguardo per mio fratello era il mio primo dovere, che valeva sempre e dappertutto.

Oggi qualche volta penso che i miei genitori e io abbiamo patito della disabilità di uno della famiglia, più di quanto non sia successo al diretto interessato. Ma è consentito pensare una cosa del genere? È consentito anche pensare, magari addirittura dire, che nei confronti di un membro della famiglia disabile qualche volta si serbano anche sentimenti di livore, di rifiuto, persino di profonda rabbia?

Si può dire che una persona che vive con il permanente dovere di aver riguardo verso il prossimo più debole, venga anche privata di una parte della propria esistenza? «Eppure ci sono anch’io» – quante volte è echeggiato dentro di me, ciò che spesso non mi era permesso di dire. Le derisioni e le umiliazioni, sbattute in faccia a mio fratello a volte con cattiveria a volta per divertimento, colpivano anche me. Per una formazione da body guard non c’è nulla di meglio che un’infanzia al fianco di un fratello disabile.

Quando camminavo con lui per strada, avvertivo la paura verso coloro che ci venivano incontro. Si sarebbero messi a ridere, avrebbero iniziato a barcollare anche loro, lo avrebbero fatto passare per un ubriaco? Ridevano di mio fratello e in quel modo ridevano anche di me, il ragazzino al suo fianco. Ancora oggi mi è rimasta l’abitudine di guardarmi intorno, per vedere se qualcuno mi viene incontro. Voglio vedere se si girano a guardarmi e magari se mi ridono dietro. Mio fratello non poté finire il ciclo scolastico nella scuola elementare di zona. Insufficiente sostegno, fu la spiegazione ufficiale. Rifiuto dei compagni e dei maestri quella probabile. Mio fratello ebbe la fortuna di venire aiutato davvero in un istituto per l’istruzione di bambini disabili. Incontrò professori comprensivi e competenti, dai quali imparò ad avere un approccio consapevole alla propria disabilità e un’altra percezione della normalità.

Le necessità di una famiglia con un bambino disabile sono molto grandi e non bisognerebbe minimizzarle con patetici, moralistici e pietistici sermoni. E tanto più grave è la disabilità, tanto più grandi sono gli oneri per tutti. Ma si impara molto presto a riconoscere quali sono i valori realmente importanti nella vita: solidarietà verso i più deboli, pazienza verso chi esula dalla norma e verso le minoranze; riguardo, rispetto e responsabilità anche verso coloro che vivono all’ombra dei disabili. Nonostante tutto, ci sono anche loro.

(traduzione Antonella Romeo)

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Carl Wilhelm Macke

È nato nel 1950 a Cloppenburg in Bassa Sassonia nel nord-ovest della Germania. Oggi vive a Monaco di Baviera e il piu possibile anche a Ferrara. Lavora come scrittore e giornalista. E’ Segretario generale della rete globale “Giornalisti aiutano Giornalisti (www.journalistenhelfen.org) in zone di guerra e di crisi, e curatore dell’antologia “Bologna e l’Emilia Romagna”, Berlino, 2009. Amante della pianura.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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