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Agli albori degli anni Sessanta, nel suo ineguagliabile saggio sulla Ferrara rinascimentale, Bruno Zevi decantava quella che lui stesso argutamente definiva “la poesia del non-finito” di Biagio Rossetti, lungimirante edificatore del primo piano urbanistico della storia, che in anni recenti ha valso al sito estense l’ambito titolo di Città patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco.
A distanza di cinquecento anni, sarà una questione genetica, lo spirito del non-finito continua ad aleggiare sul tessuto urbano ferrarese. A cominciare dal centro storico, dove il pregevole palazzone dell’architetto Piacentini – che ai tempi ospitava l’Upim e oggi una multinazionale della ristorazione – pugnalocchia col contesto circostante, lasciando per l’appunto nell’osservatore la sensazione ineluttabile del non-finito, ovverossia del fatto che non è finita lì e prima o poi l’insulso volume verrà giustiziato a colpi di tritolo per lasciare finalmente il posto ad un’architettura come dio comanda nel cuore della città Patrimonio di cui sopra.
Per continuare col reticolo di circonvallazioni che dovrebbero evitare l’attraversamento della città da parte del traffico di passaggio, dove la trama del non-finito si dispiega compiutamente nei cavalcavia che puntano spavaldi verso il cielo e lì si fermano in attesa che qualcuno si decida a tirar su l’altra metà, nelle ruspe che tracciano alacri le nuove bretelle che avrebbero dovuto essere completate già da decenni, nella ferrovia che continua a segare in due via Bologna nonostante i progetti del suo interramento risalgano all’epoca dei moti carbonari. E con gli edifici dell’immediata periferia, nei quali lo struggimento del non-finito erompe dai vetri rotti, il calcestruzzo sbrecciato, le finestre dagli infissi divelti che occhieggiano come orbite vuote di teschi e fanno tanto arredo urbano. Per non dire delle piste ciclabili, che avviluppano la città in un affascinante nastro rosso costellato – per restituire compiutamente il senso di suggestiva imperfezione che promana dall’antica città di cotto – di buche, rigonfiamenti, crepe sapientemente intervallate da palozzi in ferro che spuntano come funghi dall’asfalto nel mezzo esatto del passaggio, sostituendo efficacemente la banale segnaletica orizzontale a base di strisce bianche riservata alle auto.
Per finire con la delicata poetica del non-finito culturale che permea praticamente tutti i ferraresi (lettori di questo corsivo esclusi, ça va sans dire). I quali sono a conoscenza che la dinastia estense si è bruscamente interrotta col ritorno del ducato tra le grinfie del Papa, ma situano l’evento in un tempo indeterminato: dopo la morte dell’ultimo duca. I più addentro alle vicende di storia patria azzardano che la cosa è avvenuta nel Seicento, inteso non come anno, il Milleseicento, che sarebbe anche sostanzialmente esatto, ma come secolo, il Seicento appunto, il che equivale a dire a un amico “Ci vediamo in piazza nel duemilaquindici. Però, mi raccomando, vedi di essere puntuale: lo sai che non mi piacciono i tiratardi”.
Termino qui questa digressione; avrei anche potuto chiudere meno bruscamente, lo so, ma che ci volete fare: sono un estimatore del non-finito letterario.

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Andrea Poli

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Cari lettori,

dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “giornale” .

Tanto che qualcuno si è chiesto se  i giornali ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport… Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e riconosce uguale dignità a tutti i generi e a tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia; stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. Insomma: un giornale non rivolto a questo o a quel salotto, ma realmente al servizio della comunità.

Con il quotidiano di ieri – così si diceva – oggi “ci si incarta il pesce”. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di  50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle élite, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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