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New York Public Library, New York, 1952 ca ©Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

L’avevamo incontrata a Mosca, esattamente due anni fa, Vivian Dorothea Maier, e ne avevamo scritto estasiati, ammirando le 50 fotografie in mostra nella capitale russa (leggi qui l’articolo). Oggi Vivian arriva a Roma, dove il Museo di Roma in Trastevere espone 120 bellissimi scatti. Alcuni li ho riconosciuti, sia dall’esperienza e dai ricordi moscoviti sia dai numerosi volumi acquistati, altri sono del tutto inediti, ma sempre sorprendenti.

Nel quartiere romano, culla di movida e artisti, la mostra che ci attende, dal 17 marzo al 18 giugno, ripercorre momenti di questa fotografa bambinaia, avvolta da molto mistero, nata il primo febbraio 1926 a New York, nel Bronx, figlia di Maria Jaussaud, nata in Francia, e di Charles Maier, di origine austriaca. Di lei si sa che alla separazione dei genitori, viene affidata alla madre, che si trasferisce presso un’amica francese, Jeanne Bertrand, fotografa professionista. Negli anni Trenta, le due donne e la piccola si recano in Francia, dove Vivian vive fino a 12 anni. Nel 1938, l’artista sconosciuta torna a New York, città in cui inizierà la sua vita di governante e bambinaia. Nel 1956, si trasferisce a Chicago. E gli scatti con la sua fedele Rolleiflex hanno inizio. “Tata di mestiere, fotografa per vocazione”, viene definita. In un crescendo che solo oggi si scopre e vede la luce piano piano. Verso la fine della sua vita si ritrova in gravi ristrettezze economiche e, ricoverata per un banale incidente, muore il 21 aprile 2009. Nel corso della sua vita discreta e silenziosa realizza, tra il 1950 e il 1990, oltre centomila fotografie ma il suo lavoro rimane sconosciuto fino a quando John Maloof lo scopre per caso, nel 2007, acquistando a un’asta parte dell’archivio della Maier confiscato per un mancato pagamento dei canoni di locazione. Mentre lavorava a un libro sulla storia degli abitanti di Portage Park, una comunità nel Nordest di Chicago. E scombussolando la sua vita. John sarebbe diventato custode e testimone di un patrimonio e di un’eredità che tutti dovevano conoscere, dedicando oltre 3 anni all’archiviazione e alla conservazione dell’ampia opera della Maier.

New York, 1953 © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

John dichiara di essere particolarmente affezionato a una citazione estratta da una registrazione audio in cui Vivian esprime la sua filosofia sul senso della vita e della morte: “Dobbiamo lasciare spazio a coloro che verranno dopo di noi. È una ruota – si sale e si arriva fino alla fine, poi qualcuno prende il tuo posto e qualcun altro ancora il posto di chi lo ha preceduto e così via. Non c’è niente di nuovo sotto il sole”. Incredibilmente profondo e vero.

Nella mostra romana, ci sono 120 fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta e una selezione di immagini a colori scattate negli anni Settanta, oltre ad alcuni filmati in super 8 che mostrano come Vivian Maier si avvicinasse ai suoi soggetti. Ci sono immagini delle città in cui aveva vissuto, New York e Chicago, sguardo curioso e piccoli e grandi dettagli. Bambini che piangono, visi intensi di donne, gli anziani, i poveri e la strada. Il tutto magnificando imperfezioni e tristezze, sentimenti, sguardi e abbracci o mani che si intrecciano, in un mondo che si evolve e cambia. La trasformazione sociale e civile è in atto, lo si vede, lo si sente, lo si tocca. E poi ci sono i numerosi autoritratti, tutti scattati attraverso giochi di specchi luminosi, riflessi nelle pozzanghere o la sua ombra dal lungo cappello; immagini mai viste, mostrate o esposte quanto Vivian era in vita. Una scoperta continua e inarrestabile. Come scrive Marvin Heiferman “Seppur scattate decenni or sono, le fotografie di Vivian Maier hanno molto da dire sul nostro presente. E in maniera profonda e inaspettata… Maier si dedicò alla fotografia anima e corpo, la praticò con disciplina e usò questo linguaggio per dare struttura e senso alla propria vita conservando però gelosamente le immagini che realizzava senza parlarne, condividerle o utilizzarle per comunicare con il prossimo. Proprio come Maier, noi oggi non stiamo semplicemente esplorando il nostro rapporto col produrre immagini ma, attraverso la fotografia, definiamo noi stessi”.

Accompagna la mostra il bel libro ‘Vivian Maier. Fotografa’ pubblicato da Contrasto.

Chicago, 22 agosto 1956 © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York.
© Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

‘Vivian Maier, Una fotografa ritrovata’, è al Museo di Roma in Trastevere, dal 17 marzo al 18 giugno 2017. Apertura: Da martedì a domenica ore 10.00 – 20.00

Promossa da: Roma Capitale-Assessorato alla Crescita culturale-Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Fondazione Forma per la Fotografia. Organizzata da: Zètema Progetto Cultura. Maggiorni info sul sito web: www.museodiromaintrastevere.it/mostre_ed_eventi/mostre/vivian_maier_una_fotografa_ritrovata

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

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