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Il documentario ‘Fuoristrada’ di Elisa Amoruso, che sta registrando il tutto esaurito in molte sale italiane, è un’iniezione di verità e amore. Andare fuoristrada è necessario se questo serve a ritrovare se stessi. E’ un film da vedere, un potente antidoto contro il pregiudizio e la bigotteria. Ed il viatico per un viaggio, consapevole e avventuroso, alla ricerca della nostra autentica identità.

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‘Fuoristrada’, locandina del film

Ho visto il documentario Fuoristrada di Elisa Amoruso in un cinema di Ostia (Roma), nell’ambito della rassegna ‘Cinema di periferie’, realizzata dalla direzione generale per il cinema in collaborazione con Casa dei teatri di Roma Capitale, Centro sperimentale di cinematografia e Cinecittà Luce. E al termine della proiezione ho intervistato la protagonista, Beatrice (Giuseppe Della Pelle), seduta con lei su un divano rosso. Davanti a noi il desk per l’accoglienza e questa frase di Leo De Berardinis: “Il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso. Dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”.
L’abbiamo letta insieme, l’intervistata e io, e ci siamo capite al volo, senza parlare: come per magia il senso di quanto stavamo per dirci era già lì, in quella frase che, semplice e diretta come una spina nel cuore, traduce perfettamente l’anima della pellicola.
Beatrice è una donna bionda con le palpebre bistrate di azzurro, le unghie coperte da smalto colorato, grossi orecchini dorati e al tempo stesso è Pino, un meccanico con la tuta da lavoro e le scarpe da officina. Creatura unica e particolare, che i conformisti etichetterebbero subito come transessuale: racconta la sua vita fatta di amore per la moglie Marianna, per i figli, per la madre, per i suoi cani, per la sua casa, per i rally e i “fuoristrada”.

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La regista, Elisa Amoruso

Una storia d’amore unica, prorompente, fondata su un sentimento così forte da superare qualunque barriera sociale e culturale. Catturata, con delicatezza e raffinatezza stilistica, dalla giovane Elisa Amoruso che, con questo lavoro, ha ottenuto il premio Menzione speciale Festival del film di Roma 2013.
L’intervista a Beatrice è preceduta, in un poetico contagio di anticonvenzionalità, da una preghiera di Rabindranath Tagore intitolata Il coraggio e la certezza dell’amore:

Dammi il supremo coraggio dell’amore.
Questa è la mia preghiera:
coraggio di parlare,
di agire, di soffrire,
di lasciare tutte le cose,
o di essere lasciato solo.
Temprami con incarichi rischiosi,
onorami con il dolore,
e aiutami ad alzarmi ogni volta che cadrò.

Dammi la suprema certezza dell’amore.
Questa è la mia preghiera:
la certezza che appartiene alla vita nella morte,
alla vittoria nella sconfitta,
alla potenza nascosta nella più fragile bellezza,
a quella dignità nel dolore,
che accetta l’offesa,
ma disdegna di ripagarla con l’offesa.
Dammi la forza di amare
sempre e ad ogni costo

Beatrice, Fuoristrada è un documentario che toglie la vigliaccheria del vivere. Sei d’accordo?
Sono pienamente d’accordo. Racconta della vita vissuta con il coraggio di essere se stessi, messaggio che non entra nel film come una tempesta, una burrasca, ma piano piano come una brezza leggera. E’ come se la pellicola prima riuscisse a farti pensare, e poi ti lasciasse di stucco cancellando ogni traccia di bigotteria. Tutto in modo naturale, grazie ad Elisa, la regista, e alla sua pazienza e arte. Io sono uno spirito molto libero e lei ha girato quasi 100 ore di riprese, riuscendo poi a condensare in un’ora un messaggio forte, che anche io ho riscoperto, ho riconosciuto, quando ho visto per la prima volta il documentario.

Chi in particolare dovrebbe vedere questo film?
Per me, prima di tutto, dovrebbero vederlo i ragazzi. Sono loro il seme del futuro, da loro può partire il cambiamento. Spesso i più giovani, penso ai banchi di scuola, sono distratti da mille esperienze e non si rendono conto che vicino a loro ci sono tanti compagni di strada che hanno delle piccole problematiche. O, meglio, quelle che possono apparire come problematiche ma che, in realtà, per chi le vive sono tante gocce di tristezza, un malessere che fa soffrire e che ci si porta dentro nella vita, in famiglia o a scuola, appunto. Chi sente di essere etichettato come “diverso”, ha una spina nel cuore, che mi piacerebbe non rimanesse invisibile, perché questo genera sempre e comunque dolore.

Tu hai detto che vorresti che questo film desse il coraggio di essere autentici…
Sì, è così. Io, purtroppo questo coraggio l’ho avuto troppo tardi. Essermi liberata in un’età molto avanzata, questo è il mio unico rammarico. Davanti a me vedo tutti quei ragazzi e quelle ragazze che, nel frattempo, non ci sono più perché sono stati sconfitti dal nostro mondo bigotto, ottuso, cieco. I genitori, gli insegnanti dovrebbero spiegare che esistiamo anche “noi”, che “noi” siamo persone come le altre. Un messaggio come questo potrebbe dare speranza e, insisto, togliere molte spine da cuori infelici, che non possono esprimersi, che non permettono a se stessi di sentire e amare.

Alla fine del documentario tu parli del sogno di andare in Australia con il tuo fuoristrada e Marianna, tua moglie. Cosa sono per te i sogni?
Voglio risponderti con un’immagine che nasce da un ricordo. Io ho vissuto in collegio, a Salerno, e quando avevo 10 anni ho subito tante angherie e ingiustizie quotidiane. Dormivo in un letto che dietro aveva un grosso finestrone. Tutte le sere mi rifugiavo lì, con gli occhi guardavo le stelle, la luna e mi dicevo “stai tranquilla è un sogno, anche questo passa”. Oggi realizzare il mio sogno è come dire che sono me stessa e che sto bene, grazie alla forza d’animo che ho avuto. Vorrei che anche gli altri fossero felici come me.

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Chiara Bolognini

Adora scoprire gli invisibili, dare voce a chi rimane nascosto, perché dentro tutti noi c’è sempre un mistero da svelare e qualcosa da imparare, condividere, amare. Di mestiere è giornalista e si occupa di comunicazione e marketing. E’ anche una counselor e una life coach, in formazione permanente. Adora il vino rosso, i tortelli con la zucca, la parmigiana, gli alberi, Mozart, Gaber e Paolo Conte. Ma soprattutto gli aquiloni e i palloncini che vagano, soli, nel cielo.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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