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di Eleonora Rossi

Alla Biblioteca Ariostea si celebrano i 70 anni di Roberto Pazzi, uno dei più noti poeti e scrittori della scena letteraria ferrarese.
roberto-pazzi

Metti un pomeriggio della vita.
Hai da poco compiuto 70 anni e i tuoi amici e i tuoi lettori parlano di te, di quello che hai scritto nei tuoi tanti libri. Di tutto quello che hai lasciato.
Tu sei lì seduto ad ascoltare e sorridi, pregustandoti una fetta di eternità.
“Il sentimento dell’eternità non è solo dei preti, è dei poeti”.
Per il suo settantesimo compleanno Roberto Pazzi si regala una festa alla biblioteca Ariostea e una passeggiata speciale al di là della dimensione presente, “guardandosi dall’oltre”.
Lo scrittore si mescola al pubblico, ascolta, applaude, annuisce e si accarezza la barba, uditore invisibile degli interventi che parlano di lui, della sua poetica, della sua scrittura. Giocando a essere spettatore di se stesso – in un giorno che lo celebra e lo consacra – inseguito da Dalia Bighinati che continua a richiamarlo ironicamente al suo posto: davanti alla telecamera.
Con un sorriso leggiadro Roberto Pazzi sul finale riappare e invita il suo pubblico a vivere tutte le dimensioni del tempo, a immaginare quello che sarà (“non c’è niente di funebre in questo”) quasi a esorcizzare un territorio inesplorato, se non con la scrittura. L’eternità come una casa nuova da visitare. Per ritornare infine qui.
Ne parliamo con lui.

“Auguri, amato poeta e scrittore”. Come è nata l’idea di festeggiare il compleanno alla Biblioteca Ariostea?
È stata un’idea degli amici. Ero a Zurigo con Gerardo Passannante, avevamo presentato due dei nostri romanzi storici. Il 18 agosto avevo compiuto gli anni e lui mi chiese come mi avrebbe festeggiato la mia città. Ne ho parlato con Matteo Bianchi e Annarosa Fava e insieme a loro abbiamo organizzato un pomeriggio all’Ariostea, ci sembrava il luogo ideale per gli auguri a uno scrittore.

Il saluto del vicesindaco Maisto, le relazioni accurate e i ricordi di Matteo Bianchi, Alfredo Luzi, Gerardo Passannante, Serena Piozzi, Anna Maria Quarzi, Paolo Vanelli, Ranieri Varese, Sandra Vergamini. Che cosa ricorderà di martedì 11 ottobre 2016?
Mi è sembrato un sogno. Mi sono sentito straniato, proiettato in una dimensione nuova. Come fossi altrove e potessi vedere la mia vita con il cannocchiale rovesciato: dal punto di vista di chi ha svolto il “compito” e lo ha svolto in maniera coerente con i propri sogni.

La sala Agnelli della Biblioteca era gremita. C’erano tutti gli invitati?
Alcuni cari amici come Giulio Ferroni, Dacia Maraini e Alberto Rossatti non sono riusciti ad esserci. Mia madre ha 92 anni e non esce di casa, mia sorella era impossibilitata a venire. Ma chi non era presente era impegnato al lavoro e mi ha avvisato: ho sentito l’affetto sia di chi c’era sia chi non ha potuto partecipare.

Conosceva già il contenuto degli interventi o è stata una “sorpresa di compleanno”?
No, non sapevo nulla. Conoscevo solo il titolo degli interventi, così li ho assaporati ‘in diretta’. Con molta attenzione e curiosità.

È stato un pomeriggio denso, ricco di letture approfondite e trasversali per esplorare e ripercorrere una produzione vastissima: 19 romanzi – tradotti in 26 lingue – in cui lei ha raccontato il potere, i misteri del Vaticano, il sentimento del tempo e della mancanza. E Ferrara, città amata/odiata, ma soprattutto sognata. Non solo romanziere pluripremiato, ma poeta, giornalista e commentatore, conferenziere nel mondo, insegnante nei corsi della sua scuola creativa “Itaca”. Orgoglioso di tanti successi, abbiamo visto un Roberto Pazzi sorridente, capace di trasmettere un vitale ottimismo, un equilibrio solare.
Avverto un profondo sollievo, sento di aver assolto il dovere di una vita. Mi sento capito, compreso, accolto. Mi sembra di essere il personaggio del mio romanzo “La trasparenza del buio”, che si domandava “è stata veramente la mia vita o un sogno?” Tolti gli aculei, le spine dell’esistenza, resta infine la rosa.

Nello stesso modo si percepisce un inarrestabile entusiasmo creativo: ne sono esempio le 14 poesie inedite che ad agosto sono sbocciate una dopo l’altra. Un autore che – oltre a quello che ha già scritto – ha ancora molto da raccontare. A marzo infatti dovrebbe uscire il nuovo romanzo. Ci può dare qualche anticipazione?
Il mio nuovo romanzo si chiamerà “Lazzaro”: è un’ossessione, un sogno. Il Lazzaro evangelico non obbedisce all’invito a risvegliarsi. È una storia doppia. Un impasto di misticismo e di erotismo. Un testo surreale, magico, alla Bulgakov. Con incursioni del Diavolo.

Dunque una nuova avventura in bilico tra vita e morte, amore e tempo, corpo e anima.
Il critico Paolo Vanelli ha sottolineato come “la letteratura sia il regno del soprannaturale” e come la scrittura pazziana sia “un discorso che oscilla continuamente tra il filosofico e il teologico”. Perché chi scrive ha il bisogno forte di attingere a un Altrove.
Occorre guardare oltre. Spostarsi nel tempo. Viaggiare nel passato e immaginare quello che non è ancora. Serve uno sguardo visionario. La vista uccide la visione, che è la capacità di sognare ad occhi ben chiusi.

Sognare. Irrinunciabile per Roberto Pazzi. “Oggi sono tutto quello che ho sognato” è l’ultimo verso di una poesia splendida che ci ha consegnato nella giornata degli auguri.
Dal pozzo della memoria
Mi ritorna tutto su,
dentro l’estate un’altra estate,
in una via le molte attraversate
piene di gente con scarpe che non si portano più
nei vestiti che passano di moda,
le martingale, i colletti di pelliccia,
i pantaloni a zampa di elefante,
le camicie di popeline,
il gusto che della mente muta,
il sapore del vino che mente alla memoria
al fondo del bicchiere
chiama alla lingua i primi sorsi più golosi
e l’età bambina quando non potevo berne,
“fa male ai grandi, figurati a te”
ammonivano a tavola.
Ora che posso berne da star male
che posso andare dappertutto
senza chiedere permesso,
mi pare bella solo l’età dei limiti
e dei permessi, quando
come dal fondo di un pozzo
guardavo me affacciato lassù in alto
che mi sporgevo a spiarmi nel buio,
sognavo laggiù quel che sono oggi quassù,
oggi che sono tutto quello che ho sognato.
(Roberto Pazzi, Dal pozzo della memoria, poesia inedita)

Che cosa sognava Roberto bambino?
“Da bambino mi credevo re” (recita a memoria). L’ho scritto in un’altra mia poesia della silloge “Talismani” (Marietti, 2003): “Io, con la gran coperta da letto dei miei/ sulle spalle, da bambino mi credevo re, / in cucina ricevevo personaggi, /decidevo le guerre e le paci, /facevo politica mondiale./ Questa storia è andata a finir bene/ perché non è finita: non abbiamo/ più smesso di giocare”.

Oggi Roberto Pazzi è “re della parola”.
Ho trasformato la regalità del potere nella magia della parola. La carne si sublima nella carta. Nella parola che salva.

E a proposito della “parola che salva” è stata toccante la lettura delle poesie inedite – struggenti, umanissime – nell’intervento finale, l’ultimo del pomeriggio. Il pubblico era incantato quando, padrone del palcoscenico, Roberto Pazzi ha afferrato il microfono e ha letto le sue composizioni, accese dal “fuoco interiore” di cui ha parlato Sandra Vergamini. Versi che sembravano dire “Innamòrati”, “non smettere di desiderare”: “ho visto un altro bel viso da baciare,/ chiudiamo gli occhi, ancora per amore”.

Ancora per amore
Non si ferma la frana delle forme
e la forza delle dita di afferrare
il frutto proibito è quella d’una volta,
la ruota non si fermerà
macinerà nuovi primati e conquiste,
anche se la vita in vista del ritorno
si riposa volgendosi a guardare
tutta la via percorsa, le perdite di tempo,
la fretta, i pochi incontri veri,
le forme ingannevoli di un solo volto
inseguito nel piacere più squisito,
sempre lo stesso nei molti amati,
ma è presto, restiamo qui ancora un poco,
del mio tempo rimane il più prezioso e raro,
ho visto un altro bel viso da baciare,
chiudiamo gli occhi, ancora per amore.
(Roberto Pazzi, Ancora per amore, poesia inedita)

E in questi versi, così come negli occhi dello scrittore, occhi che sorridono insieme a lui, benevoli, si respira un sentimento autentico, viscerale: Roberto Pazzi ama la vita.
Sì, amo profondamente la vita. Alla fine della vita la amo ancora di più.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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