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di Roberta Trucco

Nero e voce fuori campo. “Io sono Benito della comunità 24 luglio”.
Inizia così il bellissimo e intenso documentario ‘I Migrati’ della ‘Comunità 24 luglio handicappati e non’ con la regia di Francesco Paolucci.
Poi, sullo sfondo, la spiaggia e Benito con i suoi amici. “La nostra comunità – prosegue – si chiama 24 luglio perché il 24 luglio di quasi 40 anni fa abbiamo fatto la nostra prima vacanza al mare ed è proprio al mare che io e i miei amici, Giovanni, Barbara e Gian Luca abbiamo deciso di tornare per cominciare il nostro viaggio”.
Calzoni tirati su e i piedi che entrano nell’acqua: “Vogliamo raccontare le storie di chi dal mare arriva nel nostro paese, un viaggio nei piccoli borghi del centro Italia nelle comunità dove i Migranti vengono accolti in attesa di capire cosa sarà delle loro vite”.
Il mare, nell’immaginario collettivo il confine naturale tra le popolazioni, diventa protagonista dell’incontro tra due mondi, quello dei portatori di handicap e quello dei migranti.
Due marginalità che mostrano la forza delle storie personali, ma anche e soprattutto la forza insita in quelle che troppo spesso consideriamo delle fragilità.
“Siamo sicuri che ciò che noi definiamo fragilità siano solo debolezze?” questa la domanda che mi pone Francesco Paolucci alla fine della nostra intervista telefonica. Ed è proprio questa la consapevolezza di fondo maturata in 40 anni dalla Comunità 24 luglio: le fragilità sono e possono essere dei punti di forza impensati per tutti, una risorsa per la società intera.

La Comunità 24 luglio è nata nel 1980 sulla spinta di una iniziativa di sostegno ai disabili da parte di un gruppo di giovani scout dell’Aquila e di giovani studenti universitari. Dunque non un’associazione nata da famiglie per autotutela ma da persone che erano felici di stare insieme.
Oggi è diventata un’associazione di volontariato, un’importante realtà del territorio che raccoglie circa 60 volontari attivi e 130 associati: è “un punto di riferimento per molti di noi, sia disabili, sia volontari, sia famiglie” dice Gaspare Ferella, presidente dell’associazione. “Siamo alla quarta generazione; i volontari sono anche ragazzi del servizio civile, studenti universitari che ci raggiungono grazie al passaparola e per conoscenza. Posso dire che siamo anche una discreta agenzia matrimoniale – scherza Ferella – perché spesso all’interno della nostra associazione si creano delle coppie”. Sembra una battuta lieve ma nasconde forse il segreto della forza di questa realtà: l’amore.
L’Associazione, fortemente radicata sul territorio, collabora con il Comune, le Asl e altre associazioni. E’ una comunità fatta di persone con handicap e non, ma la differenza è nel nome e non nel rapporto, che è sempre paritario: “non c’è un assistito e un’assistente, non c’è un io e un noi, ma c’è il noi fatto di tante storie diverse, di tanti io”, specifica Anna Romano coordinatrice delle attività diurne del centro e della progettazione sociale, compresi progetti, laboratori, formazione.

La filosofia alla base della comunità comprende l’apertura all’esterno e la condivisione delle fatiche quotidiane. Nascono così attività laboratoriali dedicate all’arte e, in questi ultimi anni, al teatro e alla realizzazione di video. Proprio da un’attività laboratoriale di formazione multimediale che prevedeva incontri con giornalisti, reporter, fotografi e video maker è nata l’idea di produrre e girare questo documentario.
Il progetto è stato presentato al bando nazionale 8×1000 della Chiesa Valdese e ha ottenuto il finanziamento. “Abbiamo studiato, ci siamo documentati sulle associazioni che andavamo a incontrare e, una settimana di giugno dello scorso anno, siamo partiti in 12: i 4 protagonisti, un regista, due aiuto registi, un fonico, un cameramen, una segreteria di produzione con aiutante e io come responsabile di produzione”, racconta Anna .
La cifra distintiva de ‘I Migrati’ è la tenerezza dei 4 apprendisti giornalisti, i protagonisti, stupendamente autentici nelle loro domande, con la voglia di imparare e di superare i loro limiti.
E ci riescono!

Benito Marinucci e Barbara Fontanazza i giornalisti, Giovanni Diletti il cameramen, Gianluca Corsi il fotoreporter. Ognuno di loro capace di portare un punto di vista particolare e originale.
“Una tenerezza non cercata”, afferma il regista, che racconta di avere lasciato anche i silenzi densi, la durezza delle domande che a tratti sembrano crude, perché non c’era alcun copione da seguire e le riprese hanno registrato fedelmente gli incontri.
Una tenerezza che si avverte già nel titolo ‘I Migrati’: una scelta forse grammaticalmente non corretta, ma voluta proprio per restare fedeli al registro linguistico dei ragazzi e per testimoniare che non è facile trovare un nome che definisca la situazione di chi scappa dal proprio paese per cercare la pace e cercare la possibilità di costruirsi una vita.
“I nostri ragazzi ogni volta usavano un termine differente, migranti, migrati, immigrati e ci è sembrato giusto scegliere quello meno stereotipato”, racconta Francesco.
Lo spettatore rimane avvinto, per tutta la durata del documentario, dall’autentico desiderio dei giornalisti di conoscere le storie dei migranti che incontrano, “perché forse il loro destino è comune”, come mi fa notare Anna, “ma non le loro storie, che sono tutte diverse”.
E’ autentico il desiderio di Benito e degli altri di trovare una soluzione alla mancanza di documenti dei migranti, autentica la preoccupazione che se trovati per le strade senza documenti verranno rispediti da dove sono venuti, che sono senza un nome, senza una famiglia.
Il giornalista deve sempre partire da domande elementari, chi, dove, quando e perché, e Benito e Barbara partono sempre da lì: il nome, cosa fanno, da dove vengono.

La locandina del documentario

Il documentario è l’esatta cronistoria del viaggio della troupe, tranne l’inizio e la fine in cui il mare ritorna chiudendo il cerchio, unico momento a-temporale del montaggio, fortemente simbolico.
Il primo giorno raggiungono, con un pulmino, il comune di Sarnano nelle Marche, dove incontrano i migranti accolti dall’associazione Acsim (Associazione Centro Servizi Immigrati Marche), che accoglie tutti senza distinzione di provenienza, anche italiani, e opera in una struttura capace di accogliere fino a 160 persone. Il secondo e terzo giorno è la volta di Carunchio in Abruzzo presso il casolare Hope del consorzio Matrix, poi il Comune di Ripalomisani e il comune di Oratino in Molise, realtà in cui i migranti sono accolti dal paese intero, grazie al lavoro dell’associazione Dalla Parte degli Ultimi, e sono inseriti in percorsi di lavoro sia nella pubblica amministrazione sia in aziende private. Il sindaco di Oratino, Luca Fatica, da quando amministra ha fatto richiesta di accogliere 15 ragazzi, tutti hanno il permesso di soggiorno e tutti hanno trovato un lavoro: “se tutti i comuni facessero come noi e accogliessero 8/9 ragazzi, invece che tenerli tutti in un posto unico, credo ci sarebbero le condizioni per una buona integrazione come è avvenuto da noi”. Il quarto giorno si raggiunge Priverno in Lazio dove la responsabile della cooperativa Karibu, Stefania di Ruocco, mostra i migranti che lavorano alla realizzazione di turbanti sgargianti e colorati che servono per una raccolta fondi. Stefania spiega a Benito che i turbanti in Africa servono per coprire il capo dal grande caldo e qui sono pensati per le donne che affrontano la chemioterapia e che perdono i capelli. A Roccagorga, sempre in Lazio, la presidente della cooperativa Karibu, Marie Therese Mukamitsindo sottolinea l’importanza di ricordare alle persone in difficoltà che la debolezza non è uno status ma è momento. Il suo discorso è un’apologia del femminismo: “la donna ha una dignità e non è il sesso debole come spesso la dipingono. Le donne sono forti, specialmente quando sono mamme”.

Il documentario finisce con le riflessioni dei quattro protagonisti che si possono condensare in questa frase: “abbiamo imparato a fare i giornalisti, abbiamo imparato a fare molte domande e abbiamo avuto molte risposte. Abbiamo imparato a parlare con le persone e a capire le loro storie. Storie importanti che spesso non si conoscono bene, che noi stessi prima di questo viaggio non conoscevamo. Ora sappiamo qualcosa in più di quando siamo partiti e abbiamo una certezza: che bisogna continuare a fare domande!”
Il documentario ha avuto un grande successo e i diritti sono stati acquistati per un anno dalla Rai, restano però all’associazione quelli sugli eventi e sulla partecipazione ai Festival. I protagonisti di questo splendido progetto stanno girando l’Italia per presentarlo.
“Qual’è il ricordo più bello di questo viaggio?”
“Il mare” rispondono all’unisono Benito e Giovanni; poi il primo mi dice “porto con me il ricordo del cuoco afgano che ha trovato un lavoro stabile e starà bene per i prossimi novanta anni” e il secondo aggiunge “porto nel cuore il giardiniere, un giovane africano che ha trovato un lavoro e una famiglia che lo ha accolto” .
Basta questo per capire che siamo chiamati tutti a portarne almeno uno nel cuore.

Articolo pubblicato, in spagnolo, sulla rivista trimestrale Iglesia Viva, n° 270/2017, diretto da Teresa Forcades

Fb: comunità 24 luglio; I Migrati – il documentario

Il documentario sulla Rai: CLICCA QUI

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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