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Nella quasi incredibile presunzione umana non si può dire che i francesi siano secondi a nessuno. Come gli italiani, sono un popolo fatto di attrazione per i miserabilia e nello stesso tempo da questa loro naturale disposizione creano opere di una grandezza ineguagliata. Ritornare a Parigi con la ferma convinzione di vedere luoghi e monumenti da sempre accuratamente evitati quali la tomba di Napoleone o il Sacro Cuore (ah! La presunzione degli intellettuali d’antan…) non mi ha però impedito la decisione di andare a rendere omaggio alla tomba del Grande secondo l’antica esortazione foscoliana. Dopo avere l’anno scorso traversata mezza Francia per vedere la casa della “tante Leonie” e ammirare le madeleines ovvero il biscotto della memoria, dopo aver meditato sul cappotto di Marcel al musée Carnavalet, dopo essere entrato nella hall del Grand Hotel di Combray protetto dall’immagine delle jeunes filles en fleur, decido tra una mostra straordinaria sui gioielli di Cartier che sarebbe tanto piaciuta allo scrittore e la visita al Musée Rodin di attraversare Parigi per recarmi in commossa meditazione sulla tomba dello scrittore. Arrivo dunque al Père-Lachaise il cimitero monumentale di Parigi dove migliaia di giovani vanno in commosso e tribale pellegrinaggio alla tomba di Jim Morrison e mi avvicino al burbero guardiano che con fare sbrigativo mi dice di guardare sui tabelloni ma che comunque la tomba è molto lontana. Gambe in spalla consulto il cartellone e trovo che la tomba 90 (quella di Proust) è nell’appezzamento 85. Nulla. La tomba mi si rifiuta forse perché Marcel non sa che farsene di un vecchio suo lettore che ha per lui solo ammirazione e amore. Ai numerosi visitatori chiedo con fare umile se sapessero indicarmi la via: stupore e sconcerto. “Proust? Quoi? Poi deluso e irritato scendo ad un’uscita secondaria (tenete bene presente “uscita” e qui, fuori, trovo un addetto che ‘vende’ la mappa del cimitero… Pensate allora se a Ravenna non vi sapessero indicare la tomba di Dante o, a Milano, quella di Manzoni. Capisco che per un turista qualsiasi Proust è “un nome vano sanza soggetto” ma qui si rischia il ridicolo o meglio l’offesa e l’umiliazione a cui la cultura da sempre è soggetta e specialmente in questo momento storico. Se il nome di Proust anche nella cultura medio-bassa in Francia non significa più nulla o solo un ricordo cancellato sicuramente qualcosa non va. Come l’ennesimo scandalo che il 16 dicembre Adriano Prosperi denunciava su “La Repubblica” a proposito delle miserande condizioni in cui sono ridotte due tra le più importanti biblioteche d’Italia: quella della Sapienza di Pisa e quella storica di Modena. La stessa indifferenza per uno scrittore -che letteralmente ci ha obbligato a prendere coscienza di ciò che sta al di sotto di ciò che vogliamo ricordare- è la stessa che rende le case dei libri, patrimonio dell’intelligenza umana, luogo superfluo. Che dire allora dell’esaltazione delle magnifiche sorti e progressive di leopardiana memoria. Un gruppo sempre più ristretto di persone può comprare tutto e le vetrine di rue Saint-Honoré o degli Champs Elisées superbamente mettono in rilievo che la vera differenza tra gli “infelici molti” per usare una famosa distinzione di Elsa Morante (e qui ci si può riferire ai ricchi volgarotti che escono carichi di pacchi delle marche più famose) e i “felici pochi” (ch s’incantano di fronte a un libro antico o a una miniatura, a un quadro senza la necessità del possesso) sta nel lusso esibito e non in quello tanto più sottilmente élitario che è il lusso della mente a cui, purtroppo, ancor meno persone possono accedere. Perfino il lusso dei poveri diventa speciale allorché si trasformano i Campi Elisi in una fiera del mangiare e del comprare ignobili cianfrusaglie in linde casettine bianche che coprono sui due lati più di due chilometri della via tra lo sfavillio dei platani trasformati dai leds in bicchieri di champagne. E proprio in quel regno insopportabilmente volgare, il luogo del Lido o delle notti di Montmartre che non torneranno più perché hanno pero il fasto del proibito, ecco improvvisamente Proust che mi aveva negato la vista della sua tomba riapparire trasformato in un direttore d’orchestra, Ivo Pogorelich che in un concerto titanico mette in relazione e fa dialogare Chopin (nella mia giovinezza ricordato come un musicista per signorine!!!) con Liszt e il suo wagnerismo. Allora il Proust perduto mi viene incontro e mi fa capire che anche i miserabilia, specie della politica, sono il terreno su cui si fonda il genio umano. Dedicato quest’ultima riflessione a Grillo e a Forza Italia, negatori dei valori rappresentati dai senatori a vita. E una parola mi viene spontanea, tanto amata dai politici. Se credete che noi, popolo, paghiamo i rappresentanti della cultura, allora vergognatevi! Ma davvero.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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