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Mi hanno raccontato una storia alquanto strana, ma molto divertente. Ve la voglio riferire: sarà vera? A voi l’ardua sentenza.

J era un tipetto sveglio sugli undici anni, simpatico, ma un po’ timido, non gli piaceva farsi notare troppo, ma era gentile con tutti e sempre il primo ad aiutare: i suoi compagni con i compiti a scuola, la mamma e il papà a casa. C’è chi chiede per non sbagliare e chi osa pur di continuare, J era fra i primi, tuttavia non si tirava indietro quando gli proponevano una nuova esperienza, una cosa mai fatta.

Da qualche tempo nel Paese dei mattoni gialli c’era qualcosa che non andava, tutto era sbiadito, grigiastro, ogni giorno sempre un po’ uguale all’altro. Eppure i più anziani si ricordavano di giornate spensierate, colorate, di risate squillanti e avventure impreviste.
Quando però cercavano di raccontare la loro infanzia ai nipotini questi non capivano:
“Ma come, voi non giocate?”, “Si nonno gioco: ieri nella mia camera ho giocato tutto il pomeriggio”, “E che gioco hai inventato?”, “Non l’ho inventato, era già pronto nella sua scatola!” O ancora: “Ma non stai insieme ai tuoi amici?”, “Ma certo nonna, a scuola siamo tutti nella stessa aula per tutta la mattina!”
Un giorno J stava tornando a piedi da scuola: aveva avuto compito in classe e per terminarlo aveva usato tutto il tempo a disposizione… più quei pochi preziosi minuti mentre gli altri consegnavano il proprio e al suono della campana facevano lo zaino, e così aveva perso il pullmino. Percorreva l’ultimo tratto della via prima del suo vialetto con la mente che tornava al compito: la geografia proprio non gli entrava in testa, chissà se aveva risposto correttamente a tutte le domande! All’improvviso una sagoma gli tagliò la strada andandosi a rifugiare dietro una siepe nel giardino dell’unica casa non abitata della strada. Ripresosi dallo stupore, J guardò dentro quella siepe: due occhi sbarrati dalle pupille a forma di spillo lo scrutavano. Era una micia a tre colori, bianca, rossa e nera, J si avvicinò e vide un buco nella siepe, lei si addentrò dentro il giardino: quando le si avvicinava, la gattina si allontanava, ma se J si fermava allora anche lei si sedeva e sembrava aspettarlo, la coda ricurva come un punto interrogativo, il fare altezzoso da piccola principessa.

J la seguì fin dentro quello che sembrava un capanno per gli attrezzi. Una volta aperta la porta però non c’era più traccia della gattina a tre colori. Si trovò in un luogo completamente diverso: era come se avesse attraversato una specie di portale, come quelli che solitamente si vedono nei film. Spaventato girò i tacchi e aprì la porta per filare dritto a casa, ma quando uscì si ritrovò in un piccolo parco sul retro di quella che sembrava una scuola. J aprì e richiuse la porta più e più volte, ma lo scenario non cambiava e lui era sempre più spaventato: dove si trovava? Come avrebbe fatto a tornare a casa?
Improvvisamente si sentirono delle voci, urla di gioia e di divertimento: di punto in bianco il giardino era stato invaso di tanti piccoli gruppetti di bambini. J decise di restare nascosto per il momento, in attesa di capire meglio cosa gli stava capitando. Mentre li osservava, notò che potevano avere più o meno l’età della sua sorellina più piccola, comunque non più di dieci anni, i loro capelli erano bizzarri, erano tanti fili sottili che con il vento si muovevano, e le loro mani avevano cinque strane protuberanze che usavano per afferrare le cose. “Ma in che posto sono stato catapultato?” Pensava J fra sé e sé. “Ciao! Come ti chiami?” J trasalì, tanta era stata la curiosità per quegli strambi bimbetti che, senza accorgersene, era uscito dal suo nascondiglio e ora una di loro, dai grandi, dolci, occhi scuri, gli tendeva la mano: “Io mi chiamo Tammie!” Lui, mentre tentava di capire come stringerle la mano, rispose titubante: “J”. “Che bello, come Junior e come Joy! Sai che sei buffo: è come se avessi i guanti, quelli senza le dita”: esclamò lei.
Quegli occhi profondi erano, chissà perché, rassicuranti e J decise di osare per continuare e provare a fidarsi: “Dove mi trovo?”. “Siamo a Ferrara, a Pontelagoscuro: questo è Il Castello, si chiama così dai tempi dei tempi. I grandi lo chiamano ‘centro socio-educativo’ e dicono che è retto da un tipo che si chiama Germoglio, noi non capiamo bene bene cosa voglia dire: qui non ci sono piante a dirci cosa dobbiamo fare, ma possiamo contare su ragazzi simpatici che d’inverno ci aiutano con i compiti e poi ci fanno giocare e d’estate inventano tante cose da farci fare e le fanno con noi”.

“Pontelagoscuro? Ferrara? Ma perché qualcuno dovrebbe costruire una città con un ponte su un lago dall’acqua scura? Mah! Maledetta geografia, la odio!”, pensava J mentre cercava di seguire le parole di Tammie. Intanto altri bimbi avevano fatto capannello intorno a loro, c’era chi ridacchiava guardando J, ma furono presto rimessi al loro posto, la maggioranza aveva già deciso: bisognava aiutarlo e l’unico modo era portarlo da Nando e Cami, gli educatori, loro avrebbero saputo cosa fare. Mentre attraversavano il parco, Tammie non la smetteva di parlare e spiegava a J tutte le cose che si facevano lì al Castello: “Ogni mattina facciamo qualcosa di diverso, stamani abbiamo fabbricato gli aquiloni, quelli che adesso stanno facendo volare là con Nando vedi?” Tammie indicava un gruppetto di bimbi intenti a far volare alcuni aquiloni con l’aiuto di un ragazzo più grande. “Usiamo solo cose riciclate, cioè cose che se noi non le adoperassimo, andrebbero buttate. Nando e Cami ci hanno detto che domani verrà un amico di un’associazione che si chiama Lipu per dirci tante cose sugli uccellini che cantano qui nel parco e insegnarci a costruire delle casette per loro e forse poi lo andremo anche a trovare dove lavora con gli altri volontari per vedere altri uccellini da vicino: non vedo l’ora! Il pomeriggio stiamo sempre tutti insieme qui in giardino per fare tanti giochi, ma il momento che mi piace di più è la mattina quando costruiamo le cose. Non c’è un momento delle giornate qui al Castello che non mi piace, ma forse quello in cui mi diverto un po’ di meno è quando dobbiamo fare le pulizie. Però so che se tutti ci diamo da fare per prenderci cura del posto dove giochiamo, sarà sempre bello e sarà un po’ come se diventasse anche nostro: me lo ha spiegato Cami e io mi fido!”
J era alquanto frastornato, era difficile seguire quel fiume di parole, entrarono nel Castello, a destra c’era la stanza della lettura e quella dei compiti, al muro ecco i turni per le pulizie e la mensa e il programma delle attività della settimana, accanto ai disegni dei bimbi, lungo il corridoio, fra gli armadietti personalizzati, Tammie e il resto della squadra di soccorso corsero incontro a una ragazza mora: quella doveva essere Cami.
Mentre Tammie spiegava a Cami la situazione – meno male che almeno lei sembrava averci capito qualcosa! – J pensava che i colori del giardino e dei disegni gli sembravano più sfavillanti rispetto a quelli del suo Paese dei mattoni gialli: chissà come mai?
Cami disse: “E’ un bel pasticcio. Devo parlarne con Nando, ma tranquilli troveremo una soluzione”. Al termine del consulto, Cami e Nando stabilirono che, anche data l’età di J, era meglio parlarne con “gli educatori dell’Indelebile”: “cosa centrava ora un pennarello? Saranno veramente in grado di aiutarmi?”, si chiese J.
E così lasciarono Nando con gli altri bimbi al Castello, mentre Cami, Tammie e J raggiunsero un altro edificio poco lontano.

“Ciao Peter!” esclamò Tammie correndo incontro a un ragazzino abbracciandolo. “Mollami Tammie! Non vedi che sono impegnato! E questo qui chi è?” “Si chiama J, come Jolly e come Joker” “E’ strano forte! Perché non ha le dita? E perché si guarda così intorno?” “Sto cercando il pennarello! L’Indelebile! Strano sarai tu con quelle cinque ‘cose’ che ti spuntano dalle mani e con la faccia piena di torta!”, rispose J, che – a dirla tutta – un po’ permaloso lo era. “Ma che pennarello! L’indelebile è il nome di questo centro, siamo tutti ragazzi dai 10 ai 14 anni e insieme ai nostri educatori abbiamo deciso di chiamarlo così perché volevamo un nome che restasse nel tempo, che non si potesse cancellare, proprio come le esperienze e le amicizie che viviamo qui!”
Peter era il fratello di Tammie, un tipo dai modi sbrigativi, ma sul quale si poteva sempre contare, e soprattutto molto curioso, non la smetteva mai di fare domande a Mel e Nic, proprio a loro Cami voleva parlare per riuscire ad aiutare J. “Perché hai la faccia piena di panna, Peter?”, chiese Tammie. “Non vedi che stiamo giocando maschi contro femmine? È un quiz musicale e quando riconosciamo la canzone dobbiamo prenotarci spiaccicandoci la torta sulla faccia. Le torte le abbiamo fatte noi questa mattina, L’indelebile si era riempito di farina, ma dopo mangiato abbiamo pulito tutto, altrimenti sai che confusione! Dai lasciami concentrare, che siamo in vantaggio”. Proprio mentre Peter stava finendo di parlare un altro ragazzo della sua squadra tuffò il viso nella panna e cominciò a ridere tantissimo, eppure non c’era nessuna canzone da indovinare. “Ma che fa?”, chiese J, “Ah, quello è Max – rispose Peter – ogni tanto fa di testa sua, ma è solo perché ha bisogno di giocare come vuole, basta lasciarlo fare per un po’ e poi ricordargli le regole del gioco. Lo abbiamo voluto in squadra con noi perché non si fa scappare una canzone, le sa praticamente tutte, pazienza se abbiamo dovuto preparare qualche torta in più!”. “Perché fate voi le cose che poi usate per giocare? Nel mio paese noi giochiamo con giochi già fatti: si fa prima!”, disse J rivolgendosi a Tammie e a Peter. “Sì, ma così possiamo crearli come piace a noi, come li abbiamo pensati con la nostra immaginazione. È divertentissimo perché non puoi sbagliare!”, gli rispose Tammie: in effetti il ragionamento non faceva una piega.

In quel momento arrivarono Cami, Mel e Nic: “Proviamo a sentire cosa ne pensano James e Alice, dell’Urlo”. “Come? Io non vengo in un posto dove si urla. Assolutamente no! E poi perché si urla?”, esclamò J: in fin dei conti li aveva appena conosciuti, tutti loro, va bene fidarsi, ma senza esagerare!
“Tranquillo! Non c’è nulla da temere – spiegò Mel, con tono rassicurante – l’Urlo è il nome del nostro centro di aggregazione giovanile qui vicino, in un posto che si chiama Barco, ci vanno i ragazzi più grandi di te, dai 14 ai 18 anni. Si chiama così perché cosa c’è di più liberatorio ed energetico di un urlo di gioia e di entusiasmo?” “Tranquillo sono tipi a posto! Noi dell’Indelebile e del Castello li conosciamo perché ogni tanto facciamo delle gite tutti insieme, come per esempio al mare”, aggiunse Peter. “Mmmh, un centro di aggregaz… cosa?”, chiese J. “Un centro di aggregazione giovanile: è uno spazio dove si può andare per incontrarsi fra amici, giocare in tanti modi diversi, partecipare o anche organizzare attività diverse e imparare a fare delle cose”, sorrise Mel.

J non aveva afferrato fino in fondo, ma capì meglio quando lui, Tammie e Peter, insieme a Mel, Nic e Cami, arrivarono all’Urlo: c’era un gran frastuono, ma non era fastidioso. Era come se qualcuno stesse suonando tanti ritmi tutti insieme: sbirciò da una porta e vide ragazzi più grandi di lui improvvisare su tanti tipi di tamburi diversi. “Vedi, questo si chiama laboratorio di percussioni”, spiegò Cami a J. Il nostro nel frattempo aveva notato che tutti stavano facendo tante esperienze diverse e si convinceva sempre più che tutto, qui in questa Ferrara, fosse più colorato rispetto al suo Paese dei mattoni gialli.
Improvvisamente eccola di nuovo: era la micina a tre colori, la causa di tutti i suoi guai. Dopo un’apparizione fugace nel corridoio si era infilata su per la scala: “Fermati tu, fermati brutta antipatica! Non so come, ma è tutta colpa tua se sono finito qui!”
“Colpa?” miagolò la gattina: “Hai vissuto un’avventura in un luogo in cui non eri mai stato, hai imparato che è più divertente dare sfogo alla fantasia e crearselo il gioco, invece che limitarsi a leggere le istruzioni sulla scatola, hai conosciuto tante persone simpatiche e gentili. E tutto in un solo giorno. Sei sicuro di non volermi ringraziare piuttosto? Non fa niente, ti aiuterò comunque a tornare a casa”. “Che presuntuosa! Però in fondo ha ragione!”, fu costretto ad ammettere J fra sé e sé mentre la seguiva dentro un vecchio armadio. Ed eccolo di nuovo nel vecchio capanno della casa disabitata nella sua via. Magico!
Nei pomeriggi seguenti J giocò all’aperto insieme ai suoi compagni di scuola e insieme si ingegnarono a ideare e costruire nuovi giochi colorati, mettendo ogni volta alla prova la loro fantasia. Ecco quello che mancava al Paese dei mattoni gialli: i caldi, sfavillanti colori dell’amicizia e dell’immaginazione.

I centri estivi de Il Germoglio: Questo gioco chiamato Estate!
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