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Emilio Cecchi, acuto studioso dell’Ottocento italiano, sintetizzava con lucidità la fortuna dei Macchiaioli fin dalla prima metà del Novecento in un saggio (1954) dall’evocativo nome “Parenti poveri”: “Nel suo breve corso che sostanzialmente fu concluso fra circa il 1850 e l’ultimo scorcio del secolo XIX, al movimento macchiaiolo non arrise gran fortuna, né rinomanza e prestigio né critica. I migliori che ne scrissero: il Cecioni, il Martelli, il Signorini, altrettanto e più che della purezza dei suoi ideali, testimoniano delle sue difficoltà e dei suoi sforzi per sopravvivere. Ed ecco che, dopo un lungo abbandono, in epoca assai prossima a noi, passati quattro o cinque anni dalla prima guerra, la gente si mise a ripensarci e mostrò di cambiare opinione… A poco a poco nuovi dipinti, un po’ sospettosamente, sbucarono fuori dalle avite raccolte e dai salotti familiari. Dove sonnecchiavano da parecchi decenni. E divulgati in riviste, cataloghi e monografie, passarono sotto il martello dei direttori d’aste. Perché nel frattempo s’era venuto creando un loro mercato, con quotazioni ad ogni stagione più alte, che avrebbero sbalordito gli autori; quasi tutti morti nell’indigenza più nera, o in una povertà appena decente”.
Il rilancio critico dei pittori toscani fa dunque seguito alla dispersione di numerose quadrerie e raccolte toscane che sin verso il 1930 potevano essere comodamente ammirate soprattutto a Firenze. E quando successivamente si formeranno nuclei importanti, frutto di un ambizioso collezionismo del nord imprenditoriale, come quelli del torinese Riccardo Gualino e del milanese Giacomo Jucker, il movimento dei Macchiaioli verrà valutato in particolare da Lionello Venturi e Roberto Longhi come il momento più significativo della pittura italiana dell’Ottocento.
Già Ugo Ojetti sulla rivista “Dedalo” (1925-26) delineava la dimensione indipendente di Telemaco Signorini e Giovanni Fattori, indiscussi protagonisti del movimento: una libertà e autonomia che diventa motivo ricorrente e si caratterizza nelle fughe in aperta campagna, ma più concretamente nella ribellione allo studio dell’Accademia.

Giovanni-Fattori-Butteri-e-mandrie-in-Maremma
Butteri e mandrie in Maremma di Giovanni Fattori

Fin dal 1849-50 in relazione ai movimenti di ispirazione liberale, fermenti di ribellione alla pittura dominante romantica e accademica animavano le vivaci discussioni attorno ai tavoli del Caffè Michelangelo, destinato a diventare la sede e il simbolo del movimento. Qualche anno più tardi, l’apertura al pubblico fiorentino della Collezione Demidoff in Villa Pratolino, ricca della migliore pittura francese contemporanea da Ingres a Delacroix fino ai paesaggisti di Barbizon, aveva portato una ventata di colorismo brillante e acceso, mentre il napoletano Domenico Morelli aveva fatto conoscere i suoi originali studi tonali di chiaroscuro. E’ una lezione, questa, intesa dai giovani pittori toscani come impalcatura strutturale del colore che si articola in macchia, in pennellate stratificate che nella pratica del paesaggio raggiunge gli esiti più interessanti come nel livornese Serafino Da Tivoli, anch’egli reduce nel 1856 dagli incontri parigini con Constant Troyon e Rosa Bonheur, la cui carriera già folgorante non tardò a raggiungere la Firenze dei Macchiaoli.
Gli anni Sessanta del secolo vedono lo sviluppo della tecnica di macchia in esperienze parallele, ma differenti, concentrate nella Scuola di Castiglioncello e di Piagentina.
La tenuta di Castiglioncello, ereditata da Diego Martelli alla morte del padre nel 1861, viene a sostituire il punto di incontro del fiorentino Caffè Michelangelo e diventa territorio privilegiato dell’attività di sperimentazione sul “vero luminoso” che si traduce nelle Vedute e nelle Marine di Abbati, Sernesi e Borrani, nei dipinti scolpiti a colpi di sole e dall’ombra nera di Signorini, Cabianca e Banti e nelle tele solari di Giovanni Fattori, impostosi ben presto come personalità dominante del gruppo, insieme a Silvestro Lega, la cui pittura tuttavia è improntata a un intimismo più lirico. Aliena da ogni intonazione affettiva, ma fedele ai principi di solidità strutturale, che nella macchia avevano trovato origine, si svolge, al contrario, la straordinaria pittura di Fattori: nella scansione esatta dei piani e delle luci, l’artista infatti modula le campiture di colore in piccole tele di formato orizzontale allungato, dove raggiunge un equilibrio solidamente classico.
La Mostra “I Macchiaioli, Le collezioni svelate” a cura di Francesca Dini, presenta al pubblico oltre 110 opere dei Macchiaioli attraverso un’insolita angolatura. Il percorso espositivo, infatti, si articola in nove sezioni intitolate alle collezioni di provenienza. Così, collocando le opere nel contesto storico-collezionistico, vien dato spessore a personalità di intellettuali, imprenditori e uomini d’affari che hanno influenzato il dibattito culturale dell’epoca, dando avvio alla fortuna del movimento toscano, talvolta acquistando le opere per sostenere gli amici pittori in momenti difficili, altre volte per il puro piacere estetico o per l’ambizione di accrescere le proprie collezioni d’arte. Personalità come Cristiano Banti, Diego Martelli, Edoardo Bruno, Gustavo Sforni (ed altri) fanno da sfondo a capolavori come “Il giubbetto rosso” (1895 ca ) di Federico Zandomeneghi, “Marcatura dei cavalli in Maremma” (1887) e “Ciociara” di Giovanni Fattori, “Ritratto della figlia Adelaide” (1875 ca) di Giovanni Banti, “Cucitrici di camicie rosse” (1863) di Odoardo Borrani, “Ritratto della moglie Isa” (1902) di Oscar Ghiglia.
La prima sezione è dedicata alla galleria privata del pittore Cristiano Banti, che spesso svolse opera di mecenate a favore dei propri compagni macchiaioli, costruendo con finezza critica una raccolta preziosa composta da diciotto dipinti di Fattori e arricchita da opere famosissime come “I promessi sposi” (1869) di Silvestro Lega, “Le monachine” (1861) di Vincenzo Cabianca, “Il ponte della pazienza a Venezia” (1856) di Telemaco Signorini.
La seconda sezione è dedicata a Diego Martelli, critico, pittore e mecenate degli amici macchiaioli, alcuni dei quali furono ospitati negli anni Sessanta nelle sua tenuta di Castglioncello. Per l’alta qualità delle opere, la sua raccolta è andata successivamente a costituire il nucleo di partenza della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti .
Di origine piemontese, Edoardo Bruno è un imprenditore farmaceutico cofondatore della ditta Menarini, con sede operativa nell’antico palazzo Galli-Tassi in via dei Pandolfini nel cuore di Firenze, ma vive nella villa rinascimentale di Montegirone. Al primo piano è custodita la sua quadreria composta di 140 dipinti. Amante del teatro, della letteratura, dell’arte e della musica, intrattiene rapporti amicali con l’élite culturale ed economica della Firenze dei Macchiaioli. Già alla metà del Novecento, la collezione Bruno è meta di pellegrinaggio da parte degli studiosi di pittura macchiaiola come Emilio Cecchi ed Enrico Somarè.

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Cucitrici di camicie rosse di Odoardo Borrani

Tra le tante opere da ammirare in questa terza sezione troviamo “Le cucitrici di camicie rosse” di Odoardo Borrani, un dipinto dalle forme e dai toni austeri, ma di grande intensità emotiva.
Davanti a una finestra, protetta da morbidissimi tendaggi bianchi, quattro donne raccolte attorno ad un tavolo cuciono in silenzio le camicie rosse per i volontari garibaldini; la luce limpida definisce le fisionomie femminili e gli arredi del salotto borghese di gusto Biedermeier. Le tende bianche accostate al rosso delle stoffe e al verde della tovaglia e del velluto delle poltrone creano un commosso omaggio al Tricolore, sottolineando il significato patriottico del dipinto in cui spicca sulla parete azzurra di destra il ritratto di Garibaldi. Così la prosa nitida ed essenziale di un quotidiano semplice e provinciale acquista un significato storico ed evocativo di un Risorgimento al femminile.
Il punto di forza della collezione Bruno è tuttavia costituito da grandi tele di Fattori: “L’appello dopo la carica” (1895), “Incontro fatale” (1900), “Marcatura dei cavalli in Maremma” (1887) e “Mandrie in Maremma” (1894), opere della piena maturità fattoriana, dove un più profondo e rinnovato rapporto con il reale si esprime nei tagli obliqui e nelle continue variazioni cromatiche che sottolineano la velocità del movimento e della potenza costruttiva dei corpi. I cavalli di Fattori sembrano fatti “della stessa carne dei butteri che li allevano, li domano e li cavalcano, destinati a lavorare e – talvolta spaventati – ad accompagnare l’uomo nell’ingrata fatica quotidiana”. Spogliati della retorica carducciana sono eroi domestici di un paese ancora profondamente rurale e agricolo dove è ben presente il valore di una fatica vissuta come condizione naturale, condivisa da uomini e bestie.
Anche Gustavo Sforni, collezionista, pittore e mecenate, fu un cultore dell’opera di Giovanni Fattori, come è documentato nella quinta sezione della mostra, a lui dedicata. Piccole tavolette dipinte dal vero, tra cui “Le vedette” (1865) e “Cavallo sotto il pergolato” (1870 ca), mai esposte fino ad ora, sono accostate a splendide fototipie Alinari, virate a seppia, scelte dall’amico pittore macchiaiolo Oscar Ghiglia per la pubblicazione di un lussuoso volume monografico dedicato allo stesso Fattori.
Nelle sale del Chiostro del Bramante le emozioni non cessano di inseguire il visitatore, tanti sono i capolavori capaci di colpire il gusto contemporaneo per l’originalità della sperimentazione che ha saputo rinnovare generi pittorici tradizionali. Un passaggio questo che l’elite dei collezionisti toscani attorno ai quali è costruita le mostra, incoraggia, contribuendo a promuoverne il successo.
Dopo la grande rassegna sui Macchiaioli, allestita nel 1975 a Monaco e trasferita l’anno dopo in un edizione più arricchita al Forte del Belvedere a Firenze, altre sono seguite tra cui quella fondamentale di Palazzo Zabarella a Padova, curata da Fernando Mazzocca e Carlo Sisi, considerata un punto di arrivo degli studi sull’argomento. A quest’ultima si riallaccia idealmente la mostra romana frutto di decennali studi di Francesca Dini.

“I MACCHIAIOLI. Le collezioni svelate”, Roma, Chiostro del Bramante fino al 4 settembre 2016.

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Anna Maria Baraldi Fioravanti


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di Piermaria Romani

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