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“È nell’apparentemente banale che sta il grande valore” (Giuseppe Pontiggia)

MONACO DI BAVIERA – Una storia forse banale, ma una lezione importante. Tutto cominciò da una lettera apparsa all’inizio del 1997 nella rubrica “Lettere dei lettori” nel quotidiano italiano “La Nuova Ferrara”. Un lettore rispondeva polemicamente alla lettera di un altro lettore, si discuteva della politica di Israele e del rapporto tra israeliani e palestinesi, fascismo contro antifascismo. Nulla di straordinario quindi: in Italia come nel resto d’Europa queste polemiche sono all’ordine del giorno.
In un punto della sua lettera Franco Badiali ricorda tuttavia un ‘piccolo’ episodio capitatogli 50 anni prima, quando suo padre aveva salvato, nel 1944, dei documenti della Comunità Ebraica di Ferrara dalle azioni vandaliche dei fascisti e li aveva nascosti nella Biblioteca Ariostea, della quale il padre era custode.
Questa annotazione marginale colpisce l’avvocato Paolo Ravenna, che da anni cerca di ricostruire la complessa storia della Comunità Ebraica di Ferrara. In questi anni Ravenna sta cercando di ricostruire i fatti precisi in cui avvennero le devastazioni della Sinagoga da parte dei fascisti, tra il 1943 e il 1945. Leggendo la lettera del quotidiano ritorna con la memoria alla sua storia personale mai dimenticata.
Nel 1949, tornato a casa dall’esilio in Svizzera, si era recato alla Biblioteca Ariostea per cercare alcuni libri. A pochi anni dalla fine della guerra la biblioteca non era ancora ben assortita e funzionante, tuttavia Ravenna scoprì, non senza stupore, alcuni volumi dell’epoca napoleonica, che appartenevano alla antica collezione ‘Elia Minerbi’. Questi libri avrebbero dovuto essere nell’Archivio della Comunità Ebraica, come erano arrivati qui? Per molti decenni l’avvocato ebreo Ravenna non pensò più a quell’episodio finché non lesse la lettera di Franco Badiali. Ravenna, il cui padre era stato podestà di Ferrara fino alle leggi razziali del 1938 (ma questa è un’altra importante e non banale storia), si mette in contatto subito con il Badiali. Lo prega di raccontargli dettagliatamente le circostanze in cui quei documenti ebraici furono salvati.
Badiali racconta all’avvocato la storia già descritta nella lettera, ma aggiunge un dettaglio interessante: padre e figlio non erano soli quando avevano messo in salvo i libri con loro c’era un soldato tedesco della Wehrmacht, che li aveva aiutati. Aveva portato alcuni libri dalla sede della Comunità Ebraica di via Mazzini alla vicina Biblioteca Ariostea. In un italiano stentato aveva detto al padre di Badiali che voleva proteggere i libri dai “soldati stupidi”.
Ravenna chiese se Badiali aveva ricordi precisi di questo soldato. Sì, egli ricordava alcune cose: era un uomo gentile dai capelli scuri e portava dei guanti bianchi. Insomma un soldato molto corretto mentalmente un ‘prussiano classico’, ma senza l’aspetto tipico del tedesco. Lo si incontrava spesso in biblioteca, aveva un grande amore e rispetto per i libri e si era sempre presentato dicendo gentilmente il proprio nome. L’avvocato chiese se ricordava questo nome. Doveva chiamarsi Schapf o Scharf o Scharpf, precisamente non ricordava, ma suonava più o meno così.

Gli elementi raccolti sembravano troppo generici, perché la ricerca potesse avere successo. Ravenna tuttavia non si scoraggiò, perché voleva trovare quel soldato tedesco onesto e gentile. Non era interessato ai molti che avevano aderito al fascismo e nemmeno a quelli che avevano preso parte allo sterminio, i responsabili si conoscono, sono stati giudicati o lo saranno a Monaco e a Stoccarda, come stabilito. Forse doveva rivolgere le sue ricerche ai mandanti e alle vittime degli assassini del periodo fascista invece di sprecare le sue forze per cercare un soldato tedesco, che aveva salvato alcuni documenti della comunità ebraica di Ferrara.

E con la ricerca del “buon” soldato tedesco non si relativizzava forse il comportamento segreto ed ingiusto di parti dell’esercito tedesco durante la guerra ?
Al di là dei massacri e al di là dell’individuazione dei responsabili di tali azioni rimane la storia di questo ebreo ferrarese, la cui famiglia dovette fugire nel 1943 in Svizzera, che aveva perso parenti ed amici ad Auschwitz. Nell’epitaffio della Sinagoga di via Mazzini ci sono i nomi dei 96 ebrei ferraresi che morirono nei campi di concentramento nazisti: 14 portano il cognome Ravenna. Non tutti appartenevano alla famiglia dell’avvocato Ravenna, ma questo può essere importante?

Egli vuole conoscere quel soldato che ha avuto un comportamento così diverso dagli altri nei confronti degli ebrei e della loro storia, scritta in quei libri che ha salvato. Un amico tedesco, un giornalista, gli viene in aiuto. Il giornalista comincia la ricerca negli archivi tedeschi non senza dubbi sugli esiti, le tracce sono poche, è probabile un insuccesso. In molti casi non si ottengono risposte, in altri si sconsiglia la ricerca visti i pochi elementi a disposizione. Ma si continua pazientemente, si aspetta…. Dopo due anni una notizia che insieme a molte delusioni lascia sperare. Si trovano infatti due soldati dal cognome Scharpf che rispondono alle caratteristiche richieste. Di uno non si sa se sia stato impiegato in Croazia e in Italia. La descrizione dell’altro potrebbe coincidere con il soldato cercato. Il suo nome è Paul Scharpf, nato il 13 giugno 1914 a Stoccarda. E’ stato attivo in un reggimento che ha operato nel ’44 nell’Italia del nord nei pressi del Po. Questi dati incuriosiscono. Purtroppo è morto nel ’95 a Stoccarda, con lui quindi non è più possibile parlare, ma forse si può farlo con i famigliari. Si devono cercare. Si prendono contatti con loro e ci si conosce non senza un certo timore.

Si mettono a confronto i dati posseduti, i ricordi dei testimoni ferraresi, sembra che i familiari non sappiano molto di quel periodo in Italia, ma molti dettagli combaciano. Perché ci si ricorda così bene del male e si dimentica il bene così in fretta? Nella primavera e nell’estate 1944 Paul Scharpf era effettivamente stato nel nord Italia. Dove precisamente non si era in grado di ricostruire in base ai ricordi dei famigliari. La moglie però si ricorda molto bene delle cartoline che lui inviava da una città “vicina a Bologna”. Le cartoline non ci sono più. Si mostrano documenti della vita di Paul Scharpf che permettono di ricomporre il mosaico per l’identificazione di questo “buon” soldato. Scharpf non ha mai lasciato, a parte il periodo della guerra ed in occasione di alcune vacanze, la sua città natale Stoccarda. Là è nato e là è morto. Suo padre era un maestro-pittore benestante. Dalla sua fanciullezza e giovinezza non emergono fatti particolari. E’ stato un uomo onesto e riservato. La moglie ricorda che il marito quand’era soldato era solito portare guanti bianchi. Anche dopo la guerra ha frequentato con continuità la Biblioteca Comunale di Stoccarda, ha sempre letto molto e il figlio aggiunge che il padre gli ha trasmesso questo suo amore per i libri. Il suo ricordo è simile a quello di Franco Badiali, quel suo toccare il dorso dei libri quasi li accarezzasse. Il padre diceva anche qualche parola in italiano, ma al figlio sembra improbabile che il padre conoscesse il contenuto dei libri che aveva salvato. Sebbene soldato aveva odiato la guerra. I nazisti non li sopportava. Ma poi era stato richiamato e aveva fatto il suo dovere. Dopo, a differenza di molti amici e conoscenti, non aveva mai parlato delle sue esperienze in guerra: “Non voleva né sapere né sentire più nulla della guerra”. Così non aveva raccontato a nessuno, nemmeno ai suoi famigliari, di quel periodo in Italia. E nessuno gli aveva chiesto nulla. Nell’autunno del ’44 era nato suo figlio. Di quel periodo non aveva più parlato, solo questa ultima data era per lui significativa e del resto non aveva più detto nulla.

Dal dopoguerra fino alla pensione aveva lavorato come ingegnere alla Bosch, cosa abbastanza normale a Stoccarda. Durante questa ricerca ci si imbatte apparentemente solo in banalità e normalità, materia per una storia eroica non se ne trova. Nelle foto mostrate all’avvocato Ravenna si vede un uomo in divisa militare, ma non imponente. In chi lo guarda da l’idea di un uomo ritroso , semplice, in un certo qual modo cortese, un uomo da conoscere e con il quale parlare per quei tratti del carattere ricordati dal figlio e da Badiali, che avevano commosso l’avvocato ferrarese… Non c’era niente di straordinario in quest’uomo, colpito anche negli ultimi anni della sua vita dal morbo di Alzheimer, o forse qualcosa di straordinario c’era, come ha scritto Hannah Arendt nel suo saggio ” Eichmann a Gerusalemme”: “Oggi sarebbe tutto diverso in Germania, in Europa, forse in tutti i paesi del mondo, se ci fossero più storie come questa da raccontare”. Storie come quella del soldato tedesco Paul Scharpf, che ha mostrato rispetto per i libri che non gli appartenevano, ma che potevano rappresentare per altri un valore inestimabile. In un momento storico cosi drammatico e importantissimo ha dimostrato con un solo gesto la sua umanità e la sua coscienza storica.

Franco Badiali fu sorpreso da questo racconto, soprattutto dal fatto che Scharpf non si fosse reso conto di aver fatto qualcosa di straordinario e dopo l’incontro con il giornalista e l’avvocato se ne tornò al suo lavoro abituale di portiere di notte di un albergo ferrarese. Anche questo rientra nella norma. E una storia come questa, che parla di cose straordinarie, può in fondo apparire banale.

Ma certamente molte cose sarebbero andate diversamente in Germania e in Europa, se tra il 1933 e il 1945 ci fossero state un po’ di più di queste storie normali.

(Traduzione di Claudia Tumaini)

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Carl Wilhelm Macke

È nato nel 1950 a Cloppenburg in Bassa Sassonia nel nord-ovest della Germania. Oggi vive a Monaco di Baviera e il piu possibile anche a Ferrara. Lavora come scrittore e giornalista. E’ Segretario generale della rete globale “Giornalisti aiutano Giornalisti (www.journalistenhelfen.org) in zone di guerra e di crisi, e curatore dell’antologia “Bologna e l’Emilia Romagna”, Berlino, 2009. Amante della pianura.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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