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Tra Ferrara e Firenze il 27 agosto 2014, ripensando a questo giorno del 1950 quando lo scrittore a cui ho dedicato sudate carte si tolse la vita: Cesare Pavese.

Sotto un cielo degno del Rosso Fiorentino, attraverso lentamente Firenze fendendo folle più composte di quelle che abitualmente l’invadono: quasi intimorite della bellezza che si sprigiona dai suoi monumenti, dalle sue strade, dalle sue case e palazzi. Una fisarmonica si lamenta di fronte all’Accademia e un ragazzo dai piedi deformati porge un bicchiere di plastica per un obolo. Molti lasciano cadere una moneta, altri lo evitano. Una bella e giovine poliziotta municipale osserva apparentemente distratta se tra la folla non s’inserisca qualche borsaiolo. I gradini del Duomo spariscono sotto folle di giovani e anziani che addentano panini, bevono birra e lasciano un tappeto di cartacce mentre selfie a ripetizione, tra urletti di soddisfazione e ostensioni a braccio rigido degli improvvisati testimoni, indifferentemente fotografano il campanile di Giotto e le cartacce, Brunelleschi e folle non propriamente odorose. Ma niente catenelle. Nelle vetrine dei posti di ristoro in verità non molto allettanti, tra massicci cumuli di gelati dal dubbio colorito, campeggiano discreti cartelli “No toilet” in un improbabile inglese mentre a pochi passi di distanza la “toilet” pubblica di Piazza Duomo registra file gigantesche di fruitori seconde solo a quelle che si formano per la salita sulla Cupola. Intensi odori umani e occhi meravigliati nel lento pellegrinaggio verso Palazzo Vecchio e la quasi insuperabile strozzatura di Ponte Vecchio, ma l’occhio non vede catene o sbarramenti che impediscano di avvicinarsi a monumenti così preziosi. Forse ai tempi di Giovanni Boccaccio era la regola questo misto di umanità e fritture. Le chiese intese nel senso antico di “ecclesia” e di comunità raccoglievano fedeli in preghiera e corteggiamenti serrati. Pure i cani scorrazzavano liberamente. Persino Dante, come racconta nella Vita Nuova, si permette di usare una donna dello schermo per attrarre lo sguardo di Beatrice e al diniego del saluto pianti, lacrime, svenimenti fino alla decisione suprema “quando apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino tanto che io potesse più degnamente trattare di lei”. E nasce la Commedia. Così tra gli incontri dei giovani che si riuniscono a Santa Maria Novella e decidono di recarsi in campagna a raccontarsi storie, si registra la storia di Andreuccio da Perugia che caca tra i muri del chiassetto precipitando per la rottura di un asse nel maleodorante fondo. Andreuccio “richiedendo il naturale uso di dover disporre il superfluo peso del ventre” si reca nel luogo indicato e precipita senza farsi male “quantunque alquanto cadesse dall’alto; ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, s’imbrattò”. E Dante ancora immerge nel liquame prostitute, mezzani e seduttori tra i quali non fa una bella figura il signore di Ferrara Alberto d’Este.

Per quanto non frequenti la Piazza il mercoledì non credo che la situazione sia peggiore né che occorrano catenelle per tener lontane le intemperanze dei festeggianti. I cani non entrano più in chiesa, gli amori nascono nelle discoteche e non certo nei luoghi sacri, eppure ancora qualche Andreuccio da Perugia contemporaneo non capisce la differenza tra il rispetto del luogo e il soddisfacimento dei propri comodi. Serviranno catene e baluardi? Ne sono poco convinto. Cosi, se è “incivile” il comportamento di chi bolla la mendicità come discriminazione (e ben lo ha rilevato il Sindaco) altrettanto “incivile” è il comportamento di chi pensa di comportarsi secondo il proprio estro o per seguire l’ideologia del branco. Allora a che servirebbero catene e catenelle a chi non capisce lo spirito che dovrebbe informare il raduno dei giovani? Ai miei tempi, lontani, la meglio gioventù si radunava al “Moka”, il caffè ora scomparso in piazza Trento Trieste. Non si disdegnavano belle bevute, ma a soddisfare le urgenze della vescica soccorreva un magnifico bagno pubblico all’angolo di via Contrari dove disciplinatamente ci si recava. Ma di catenelle nemmeno l’ombra. E provare con wc chimici e sorveglianza? Con cestini e multe?
Chissà che non si riuscisse a imporre il rispetto per la Bellezza e la Storia senza incatenarle…

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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