Skip to main content

Se si prende per buona la distinzione di Norberto Bobbio tra destra e sinistra (1994), e non pare ci siano buoni motivi per non farlo, la prima è tradizionalmente portatrice dei valori di libertà, mentre la seconda di quelli della giustizia.
Dovremmo perciò trovare nel campo culturale della destra impegno e attenzione per rimuovere prioritariamente gli ostacoli alle libertà personali, a partire dalla libertà d’iniziativa in campo economico. Quelle che tanta letteratura nelle scienze sociali e storiche ha chiamato le libertà borghesi. In quello della sinistra, invece, dovremmo trovare pari determinazione per affermare in primo luogo l’uguaglianza, la riduzione delle distanze, delle differenze.
Se fosse così, in un mondo nel quale ogni indagine e osservatore puntano il dito su distanze sociali ed economiche mai viste prima, ci si aspetterebbe, più o meno ovunque, la vittoria politica delle sinistre a mani basse. E invece non avviene, almeno non in misura schiacciante. Senza contare che laddove in Europa sono al governo più d’uno avrebbe dei dubbi nel definirle tutte ‘Sinistra’.
C’è, infatti, chi per sinistra intende che “anche i ricchi devono piangere” e chi, invece, al posto di un piagnisteo generale preferisce il modello più riformista di “tosare la pecora” capitalista, perché se si ammazza l’ovino poi non rimane più nemmeno la lana da redistribuire.
E’ il compromesso fra capitale e lavoro di cui parla anche Habermas in “Crisi di razionalità nel capitalismo maturo” (1973), in cui smentisce – come prima di lui Weber – l’analisi ortodossa marxista basata sul binomio struttura-sovrastruttura: non è per via razionale (cioè per lo scoppio endogeno delle contraddizioni economiche allevate dentro di sé: la struttura) che entra in crisi il capitalismo, ma per deficit di legittimazione, spostando così l’asse dell’analisi a quella che Marx avrebbe definito la sovrastruttura (per lui non determinante) del sistema socioculturale.
Ma allora perché se tutte le premesse sociali ed economiche ci sono la sinistra fatica ad imporsi sul piano politico?
Giuseppe Berta ha provato a dare una spiegazione nel suo “Eclisse della socialdemocrazia” (2009).
Osservando la parabola delle sinistre europee, principalmente nelle due declinazioni britannico-laburista alla Tony Blair e tedesca, lo studioso e docente bocconiano ha ravvisato due punti limite di quelle esperienze.
Nel tornante storico decisivo della globalizzazione dell’economia e dei mercati, sostanzialmente nel passaggio di secolo tra il XX e il XXI, la socialdemocrazia avrebbe compiuto l’errore fatale di credere che semplicemente assecondando un capitalismo che con la caduta delle barriere aveva messo il turbo ci sarebbe stata ricchezza per tutti.
Da qui la scommessa, blairiana e non solo, di puntare politicamente sugli skills, le capacità, su un deciso sforzo di formazione, per cogliere tutte le opportunità dell’economia della conoscenza, piuttosto che giocare difensivamente sui sussidi e altri strumenti del tradizionale asse Trade Unions – Labour. Da qui anche la stagione, tuttora in corso, di politiche del lavoro che chiedono cambiamenti, specie sul versante dell’offerta piuttosto che a quello della domanda, nel nome della flessibilità e della capacità di adattamento pretesa, e imposta, da mercati sempre più imprevedibili, volatili, just in time e delocalizzabili da un giorno all’altro secondo le convenienze.
La crisi, altrettanto globale, scoppiata tra il 2008 e il 2009, avrebbe rappresentato il capolinea (l’eclisse) di una socialdemocrazia teorizzata e declinata nella “Terza via” (Giddens), oltre che la fine politica del New Labour di Blair.
L’eccesso di fiducia in un sistema capitalistico che prometteva ricchezza illimitata, tutta giocata sul terreno delle opportunità piuttosto che su quello giudicato arcaico delle garanzie, nonché artificialmente basata sulla storica caduta del muro di Berlino che aveva bloccato il mondo novecentesco (la fine della storia), avrebbe fatto perdere di vista i mali di quel sistema. E dunque, lasciato correre a briglia sciolta, il capitalismo si è schiantato contro un nuovo muro di carta, più effimero ma non meno velenoso: quello della bolla finanziaria.
Luciano Gallino è stato fra quelli che con puntualità e linearità hanno descritto le radici di questa illusione, contestualizzando lucidamente in questa crisi strutturale del capitalismo anche le conseguenti, per nulla inevitabili, politiche del rigore che tuttora stanno abbattendosi sui sistemi di welfare, da sempre concettualmente strumento innanzitutto valoriale della cultura della giustizia sociale.
Sul versante del retroterra elettorale della sinistra, si è poi assistito al progressivo formarsi della società dei “due terzi”: quella che già Braverman in “Lavoro e capitale monopolistico” (1974) descrisse come l’evoluzione terziarizzata della società capitalistica dei servizi, più che delle fabbriche. Senza contare che ciò che Pasolini definiva il sottoproletariato urbano delle periferie oggi è sempre più serbatoio (tirato come le corde di un violino) delle nuove destre con venature localistiche, egoistiche e xenofobe, in preda alle nuove paure dell’insicurezza, ai contraccolpi di politiche dell’integrazione etniche, ormai a corto di respiro e di risposte e alle prese con la coperta sempre più corta di un welfare assediato dal mantra del rigore e del risparmio.
Il filosofo Remo Bodei lo scorso 29 febbraio, proprio a Ferrara, ha ricordato i pericoli di un sistema capitalistico che col processo di automazione 2.0 ha accelerato a dismisura le potenzialità della produzione, espellendo lavoro ben oltre le capacità legislative di crearlo all’interno degli inadeguati spazi nazionali, nonostante tutte le possibili flessibilità.
E il sociologo Bauman in una recente intervista su L’Espresso (18 febbraio 2016) parla dell’era di internet (ulteriore sfondamento sul terreno immateriale del sistema di produzione globale) come di un mondo sì a portata di dito, ma nei termini non di una comunità, bensì di una realtà sempre più puntiforme, isolata, che intrattiene rapporti virtuali e in cui, per tornare al tema, prevalgono le ragioni della distanza, della differenza, di un’inarrestabile diversità plurale, policentrica e conflittuale.
Lo stesso storico Massimo Faggioli, in una recente riflessione sul dibattito attorno alle unioni civili, riflette come l’ambito dell’affermazione dei diritti civili si affermi – più o meno ovunque in Occidente – a scapito e prescindendo ormai dalle diseguaglianze economiche e sociali.
Tanto che Bauman conclude emblematicamente la sua intervista: “Bello, giusto, d’accordo, ma cosa c’entra con il significato della sinistra? Cosa c’entra con la giustizia sociale, che era la ragion d’essere della sinistra?”.
L’impressione è che se si vuole che quel tempo imperfetto usato da Bauman (“era”) continui a essere un indicativo presente (“è”), occorre molto di più che una vittoria alle elezioni.

tag:

Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it