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Intervenire su qualsiasi argomento in questi giorni convulsi sembrerebbe una perdita di tempo o un’assurdità. Cosa può legare ad esempio la crisi greca, quella ucraina, il cambio politico di casacca, la colossale evasione fiscale e il Festival di San Remo? Eppure un filo c’è: e si chiama mediocrità o meglio ancora, per citare la grande Arendt, la banalità del comportamento che percorre come un filo rosso questo tempo infelice.
Il “nazionale popolare” che si era trasferito dalle pagine gramsciane ai suoi nipotini che osservavano con un misto di compiacimento e di riprovazione il Festival di San Remo, tessuto aggregante delle aspirazioni medie dei cittadini medi; ma soprattutto degli intellettuali di sinistra che negavano di ascoltare il rito collettivo degli “itagliani”, poi facendosi la barba canticchiavano a voce sommessa “Vola colomba”: parola d’onore di chi si è comportato in questo modo. Da ragazzetto e da giovinetto impegnato. E gli smoking e gli abiti da sera che facevano sognare le ‘sciorette’ mentre, che so, il Vietnam, la Corea, il governo Tambroni creavano il sottofondo a “.. e la barca tornò sola”, terzo posto al festival nel 1954 cantata da Carosone. Tutti giuravamo di non ascoltarlo il Festival ma poi ci si trascinava stancamente dagli amici che, fortunati!, possedevano la televisione per parlare della traduzione dell’”Ulysses” di Joyce, mentre l’occhio avidamente fuggiva nella stanza accanto ad ascoltare gli idoli del nostro tempo.
Dal barbiere la mano distratta andava ai giornaletti dei fotoromanzi e alle avventure dei divi della canzone. Tanto poi a casa leggevi Proust e ti lavavi la coscienza. Il Barthes delle “Mythologies” insegnava. Magnifico questo paese di ipocriti! Sentire l’urlo della Santanchè da Giannini, travestita nell’acconciatura da Madia con tocco prerafaellita mentre la Madia ripudia la pettinatura che l’ha resa la più bella del reame per scegliere il “niente boccoli!” mi sembra straordinario.

Così apprendere che una biblioteca privata è stata scaricata nei cassonetti della spazzatura dagli eredi e che, corsa la voce, tanti hanno frugato nei contenitori per portarsi a casa un libro, ben ti dice della dissociazione di cui siamo complici e vittime. Ora tutte le biblioteche pubbliche rifiutano le donazioni dei libri, anche importanti. Il “non c’è posto!” scandisce inesorabilmente l’ultimativo rifiuto a prendersi cura dei libri. Un tempo Hitler andava per le spicce e ci faceva dei bei roghi. S’organizzano mostre e s’ignorano le realtà presenti in loco per stupire il malinformato fruitore nell’ansia di ricercare l’esotico, lo strano, il “mirabile visu”.

Per rendere più efficaci le banalità che escono dalla bocca dei parlamentari ecco la mimica della mano, l’occhio strabuzzato, la voce soffocata dall’indignazione mentre le signore parlamentari orgogliosamente portano quell’immenso strumento di fascinazione che è la borsa in posa manico d’ombrello con palmo rivoltato all’insù.
Quando si leggeva o s’ascoltava musica o s’andava a teatro tutte attività semi-obsolete questa attitudine italiana si chiamava melodramma o per i più fighi “melò”. E l’immortale Arbasino potrebbe commentare “signora mia!”.

Quale soluzione a tanta ipocrita italianità? Non lo saprei né dirlo né suggerirne il rimedio. Resta forse una via di salvezza che consiste (forse) nel riconoscere che la politica si evolve col tempo ma resta indietro rispetto alla rapidità dell’evoluzione della Storia. Se il principio della democrazia è accogliere i cambiamenti adeguandosi ad essi, là in fondo, in fondo nelle più inconfessabili profondità della mente, resta semisepolta una spaventata presenza che al di là di tutto resiste e ti fa vergognare (ma non troppo): l’aristocrazia del pensiero.
Brrrr…

Per ascoltare “Vola colomba vola” clicca qui

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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