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25 Giugno 2018

Il giardino delle artemisie giganti

Tempo di lettura: 6 minuti


Dei ricordi fanciulleschi che affollano la mia mente, mai come adesso tormentata da tanta nostalgia, uno più di tutti ha sempre stuzzicato la mia fantasia. Parlo di uno strano episodio mai del tutto risolto. Mi trovavo in vacanza in un pittoresco paesello sulle rive di un lago, di cui per mia riservatezza non farò il nome, cintato da montagne poderose con pendici aguzze come lance a grattar nuvole perennemente di passaggio. Le giornate ombrose e insolitamente fresche costringevano spesso me e mio cugino a rinunciare a giocare nelle acque fredde del lago, in alternativa non rimaneva che avventurarsi nei dintorni campestri oltre il caseggiato.
Stavamo con le nostre famiglie in una grande villa presa in affitto per tutto il mese d’agosto. Il proprietario era un vecchio insegnante di musica a riposo, tal Brunamonti, un tipo solitario ma cordiale, che ci aveva preso in simpatia e ci raccontava puntualmente storie curiose e bizzarre che spacciava per vere e sacrosante. Una di queste riguardava un bellissimo giardino dell’entroterra, a nemmeno mezzora di cammino da dove alloggiavamo. Bastava percorrere la via maestra del paese e, passata l’ultima casupola prima della campagna, prendere a sinistra un largo sentiero sterrato e circondato da rovi impenetrabili che saliva su una collinetta irta di cipressi. Una volta in cima, appariva una vecchia villa in stile liberty e un maestoso giardino con tanto di serre, camminamenti, aiuole, fontane e laghetti.
Ebbene, un pomeriggio plumbeo di fine agosto, ad appena due giorni dalla fine di quell’indimenticabile vacanza, decidemmo di raggiungere quel posto e vedere coi nostri occhi se ciò che ci aveva raccontato il nostro padrone di casa era vero oppure no.
A dire la verità il tragitto ci parve subito più impegnativo di quanto ci eravamo immaginati. Non eravamo ancora usciti dal paese che avevamo imboccato la strada sbagliata, e ci volle una buona mezzora solo per raggiungere il bivio ai piedi della collina. La salita poi si rivelò più ardua del previsto e, quando fummo giunti in cima, non c’era l’ombra di nessuna villa e tantomeno di un giardino. Fu mio cugino che, avendo intravisto la porzione di un tetto che spuntava tra gli alberi in lontananza, mi chiamò dicendomi che forse quel tetto apparteneva proprio alla villa che stavamo cercando. E fu così.

Per raggiungere la villa descritta da Brunamonti dovemmo attraversare un fitto boschetto di cipressi e, una volta arrivati, ci rendemmo conto che il suo racconto aveva trascurato diversi particolari che fin da subito ci fecero venir voglia di tornarcene a casa.
La villa c’era, ma quel tetto, avvistato da mio cugino tra le cime appuntite dei cipressi, altro non era che la cuspide del campanile di una pieve gotica che affiancava un piccolo cimitero diroccato le cui lapidi erano quasi sommerse dalla vegetazione. La villa, effettivamente liberty, era poco distante sulla destra, ai margini di una fitta boscaglia di cipressi e grossi abeti, la cui ombra oscurava qualsiasi cosa si celasse al suo interno. Tutte le costruzioni apparivano disabitate da chissà quanto tempo e delle spesse tavole di legno inchiodate agli ingressi stavano a testimoniarlo.
E il giardino? Anche quello c’era, e la cosa più incredibile viene adesso!

Secondo Brunamonti il giardino era posto dietro la villa. Io e mio cugino ci guardammo in faccia titubanti, ma alla fine decidemmo di aggirare il fabbricato e di vedere cosa c’era dall’altra parte. Camminammo cauti e tesi più che mai, avevamo dieci anni io e dodici lui, e tutto quello scenario che si era rivelato intorno a noi si prestava benissimo a far correre le nostre fantasie in luoghi ben più oscuri e terribili di quanto avremmo voluto.
Ricordo ancora adesso, e la sensazione che riaffiora è tuttora viva e pulsante come di cosa appena successa, ciò che provai quando finalmente vidi quel giardino: meraviglia, estasi, terrore!
Il giardino era maestoso, lussureggiante, qualcosa che non avevamo mai visto. Innumerevoli varietà esotiche di piante fiorite creavano un arcobaleno di colori e stordivano coi loro profumi. Poi alberi enormi e sconosciuti e siepi dalle incredibili geometrie.
Ma la domanda che causava tanta meraviglia era: come poteva esistere un giardino come quello se il posto era isolato e abbandonato da tanti anni quanti noi non potevamo nemmeno immaginare? Poi una seconda domanda: dov’erano e com’erano fatte le artemisie giganti raccontate da Brunamonti?
In fondo era stata proprio quella seconda curiosità a spingerci ad affrontare quel viaggio: le artemisie giganti.

Il vecchio maestro ci aveva detto che in quel giardino esisteva una rara specie di artemisia carnivora che un giorno di tanti anni prima aveva divorato un ignaro fattore che si era addormentato all’ombra di una di esse. Successe che durante il sonno venne paralizzato dal suo profumo tossico, che i suoi rami gli si strinsero intorno, che le sue foglie lo avvolsero come in un sudario e che, rilasciando sul poveretto la sua linfa corrosiva, iniziò a digerirlo come nella più tremenda delle storie dell’orrore. Brunamonti raccontò che quell’incidente indusse il vecchio proprietario della villa, un ricco barone, a liberarsi di quelle piante tanto pericolose distruggendole e sostituendole con altre artemisie, del tutto identiche alle prime ma innocue. Ma Brunamonti ci confidò anche che il sospetto della gente era che, in verità, il barone non distrusse affatto le sue artemisie carnivore, semplicemente lo lasciò credere. Per questa ragione, il giardino divenne via via un luogo evitato da tutti quelli che ne conoscevano la storia. La morte dell’ultimo discendente del barone ne decretò poi il definitivo abbandono e la caduta in rovina.
Quel giardino in cui ci trovavamo però era tutt’altro che in rovina…
Poi qualcosa ci distolse dai nostri dubbi. Era stato uno strano rumore sommesso, come qualcosa di pesante che strisciava sul terreno. Ci guardammo attorno ma non vedemmo nessun movimento, tranne l’ondeggiare di piante e rami mossi dal vento. Eppure quel rumore continuava, e pareva farsi più forte.
Ricordo come quel vago senso di inquietudine che ci aveva accolto appena arrivati sul posto divenne improvvisamente una paura profonda. Paura che si trasformò in terrore appena avemmo l’impressione che erano stati gli stessi alberi a muoversi nella nostra direzione. Alberi splendidi e maestosi che, con movimenti impercettibili, si avvicinavano a noi trasformandosi ai nostri occhi in giganteschi mostri terrificanti.
In una manciata di secondi eravamo già sul sentiero sterrato. Correvamo come due lepri scendendo rapidamente verso il paese e poi nella casa delle vacanze, dove alla fine giungemmo entrambi col cuore in gola. Era tardi e i nostri genitori stavano sistemando la tavola per la cena sotto il portico di fronte all’ampio cortile. Vedendoci arrivare, ci venne incontro mio padre tutto accigliato che ci rimproverò di aver messo in ansia tutti quanti per essere stati via oltre quattro ore senza avvisare nessuno…
Quattro ore? Tanto tempo era passato?
A quel punto arrivò un aiuto inaspettato proprio dal maestro Brunamonti. Si avvicinò a mio padre e gli disse, scusandosi, che sapeva della nostra visita nel giardino in cima alla collina e che si era dimenticato di informarli e di rassicurarli che non avremmo corso alcun pericolo. Tanto bastò per rasserenare gli animi e per evitarci una sicura punizione.

Più tardi, il vecchio maestro ci prese in disparte e ci confidò che aveva immaginato dove fossimo andati perché si ricordava le nostre facce dopo che avevamo ascoltato il suo racconto del giorno prima riguardante il giardino di artemisie, poi ci chiese come avevamo trovato il giardino. Grati per il fatto che avesse mentito a nostro favore (in effetti, sicuri che non saremmo stati via a lungo, non avevamo informato nessuno delle nostre intenzioni, tantomeno lui), gli raccontammo quello che avevamo trovato, evitando però di rivelargli il motivo del nostro repentino ritorno a casa.
Lui ascoltò tutto con estremo interesse e alla fine disse: “Allora, ragazzi miei, è vero ciò che si dice in giro: le artemisie carnivore sono ancora lassù… e, a quanto pare, sono diventate degli ottimi giardinieri!”

Firth Of Fifth (Genesis, 1973)

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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