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3. SEGUE – In questa terza e ultima conversazione sul tema del lavoro, ho voluto cambiare prospettiva e pensare al lavoro non come a un diritto, ma come a un servizio, reso alla comunità in nome del principio della solidarietà sociale. Si ribalta la prospettiva: non l’idea del reddito di cittadinanza oggi proposta da più parti, ma quella di un esercito del lavoro come esercizio di cittadinanza responsabile. Una leva obbligatoria di un paio di anni per i giovani di entrambi i sessi con il compito di produrre e fornire beni e servizi di prima necessità e garantire così a tutti, senza criteri di censo, i diritti fondamentali al cibo, alla salute, all’abitazione, all’istruzione. È la riforma contenuta nel volume “Abolire la miseria” di Ernesto Rossi, autore insieme ad Altiero Spinelli, Ursula Hirschmann ed Eugenio Colorni e del Manifesto di Ventotene “Per un’Europa libera e unita”.
“Abolire la miseria”, pubblicato nel 1946 e poi nel 1977 da Paolo Sylos Labini (nuova ed. Laterza 2002), è un vero e proprio piano di protezione sociale e di riforma del sistema scolastico, scritto da un economista liberale e liberista discepolo di Luigi Einaudi, che ha scritto una “Critica del capitalismo”, “Capitalismo inquinato” e “Padroni del vapore”. Era sua opinione che “la libera concorrenza non porta necessariamente al massimo di benessere economico.
È Daniele Lugli, presidente emerito del Movimento Nonviolento ed ex difensore civico della Regione Emilia Romagna, a parlarmi di Ernesto Rossi del suo libro. Ciò che lo ha sempre colpito di lui era la “capacità di fare sempre i conti con il massimo della sincerità, senza curarsi delle contraddizioni eventuali che nella vita possono accadere, mettendosi in gioco ogni volta in modo trasparente. È stato interventista e dal 1919 al 1922 ha scritto sul “Popolo d’Italia” di Mussolini. Poi, l’incontro con Gaetano Salvemini che gli ‘schiarisce le idee’: si schiera con l’antifascismo e ne diventa uno dei protagonisti. Subito dopo la morte di Matteotti, nel 1924, a Firenze costituisce Italia Libera che pubblica ‘Non mollare’”. L’impegno antifascista continua fino al 1930 “quando viene arrestato e il Tribunale speciale lo condanna a 20 anni” per aver fatto circolare stampa contraria al regime e come membro del gruppo dirigente di Giustizia e Libertà. Dopo 9 anni la pena viene commutata in confino sull’isola di Ventotene”. Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione contribuisce alla fondazione del Partito Radicale, dove militerà fino alla morte.
“L’altra componente del suo pensiero, insieme al manifesto federalista europeo, è il contrasto alla miseria, che in certe condizioni può produrre esplosioni rivoluzionarie, come quella avvenuta in Russia nel 1917: secondo lui un sistema che non può funzionare, perché basato sulla costrizione militare e su rigidità burocratiche”. Nemmeno il sistema capitalistico però va bene così com’è. Il limite più forte per Rossi è proprio la miseria, “il non trattare la condizione dei diseredati”, mi spiega Daniele. Per lui la miseria è una malattia che può contagiare il corpo sociale e quindi va affrontata con qualcosa di molto simile a “un sistema sanitario”. “Rossi ci ricorda che il problema dell’abolizione della miseria è un problema politico” e “il modo in cui lo si risolve costituisce in un modo differente la politica”. Dunque la sua idea è “un liberismo in cui a decidere è l’iniziativa delle persone, la loro capacità e propensione al rischio, misurandosi sul mercato, in cui insomma è l’innovazione a spingere avanti le cose, però il problema nodale della miseria deve essere affrontato dalla società nel suo complesso” e attraverso “uno strumento specifico”: l’esercito del lavoro.

Il liberista Rossi progetta una collettivizzazione della produzione di beni e servizi “necessari – scrive – per il mantenimento in completa efficienza fisica e spirituale”, vitto, vestiario, alloggio, scuola, salute, da fornire “a chiunque li chiedesse, povero o ricco, occupato o disoccupato, indipendentemente da ogni suo merito o colpa”. Questo perché la soddisfazione, garantita socialmente, dei bisogni essenziali potrebbe liberare le capacità individuali dalla necessità di fare qualsiasi cosa capiti a causa del bisogno impellente.
“La cosa interessante – secondo Daniele Lugli – è il principio su cui si fonda questa idea: la somma degli interessi individuali non costituisce l’interesse pubblico. Una cosa non così scontata, almeno dalla Tatcher in poi: da allora si pensa che il benessere non è della società, ma degli individui, un concetto che ormai abbiamo introiettato tutti. Rossi insomma è un liberale, ma per lui non contano solo la produttività e il Pil”. “Altro aspetto fondamentale per Rossi è togliere di mezzo logica assistenzialista, per cui ci sono persone che assistono e persone che vengono assistite. Con l’esercito del lavoro obbligatorio ognuno avrebbe dato il proprio contributo, perciò al momento di usufruire del servizio di altri, le persone non graverebbero sugli altri perché quando è toccato a loro hanno fatto ciò che dovevano fare. Non si tratterebbe quindi di solidarietà in termini astratti, ma di una solidarietà vissuta”.
Scrive Rossi: “Il mantenimento generale di un definito minimo di vita civile, che si riconosce essere nell’interesse collettivo non meno che nell’interesse individuale, diviene la solidale responsabilità di tutti i partecipanti ad un indissolubile contratto sociale”.
Dunque, sottolinea Daniele, “l’esercito del lavoro è una modalità concreta di far passare l’idea che ci sono diritti inviolabili, ma anche il dovere inderogabile di solidarietà e non c’è nessun diritto che sia inviolabile se non funziona la solidarietà”, e “l’idea che per certe cose la soluzione non è solo la distribuzione del denaro, cioè la redistribuzione non è sempre risolutiva”. Secondo Rossi non conviene, magari attraverso l’innalzamento delle imposte, dare aiuti ai poveri perché sono poveri o sussidi ai disoccupati perché sono disoccupati, piuttosto bisognerebbe aspirare a una gratuità tendenziale dei servizi di base per tutti, senza limitazione di reddito: attraverso il servizio dei ragazzi dell’esercito del lavoro si arriverebbe progressivamente a provvedere non solo al loro mantenimento – per il periodo di ‘leva’ – ma anche a quello di chi ne facesse richiesta, povero o ricco. Con l’esercito del lavoro si sarebbe sicuri che ciascuno contribuisce nella stessa misura al costo dei servizi pubblici a vantaggio della collettività e, dato che tale contributo deve essere corrisposto attraverso prestazioni personali e non in denaro, nessuno potrebbe rimbalzare su qualcun altro la propria quota o, peggio ancora, usufruire dei servizi pubblici senza avervi contribuito. Non si dà evasione o elusione perché, scrive Rossi “il contribuente legale è necessariamente anche contribuente di fatto”.
E riguardo il reddito di cittadinanza? “Forse non sarebbe stato contrario dati i tempi che stiamo vivendo – risponde Daniele – ma non sarebbe stato d’accordo con il reddito di cittadinanza. A suo avviso si riproporrebbe così l’assistenzialismo: “Dato che non riesci a guadagnare denaro in maniera diversa, tieni questi, non te li danno i tuoi genitori, te li dà lo Stato”. In questo modo cosa si riconosce in quelle persone? La loro dignità di cittadini? Per Rossi ciascuno è in grado di dare il proprio contributo, il problema più grande è l’organizzazione complessiva perché ciascuno possa avere un lavoro che abbia un senso, dato che di lavoro ce n’è tanto in giro. Il reddito di cittadinanza sembra un’idea moderna, ma non lo è: in realtà è carità pubblica”.

Rossi si preoccupa di dimostrare la tenuta economica della sua proposta: per esempio risponde alla possibile critica della minore produttività di maestranza continuamente rinnovate, per lui superabile grazie alla sempre maggiore divisione e automazione del lavoro (oggi ancora maggiori rispetto all’immediato dopoguerra); la standardizzazione a pochissimi tipi di prodotti e servizi per i quali l’esercito del lavoro avrebbe il monopolio, consentirebbe invece di investire i capitali per disporre sempre delle migliori innovazioni scientifiche, inoltre “verrebbero eliminati gli sperperi, derivanti dalle lotte fra le diverse imprese per togliersi reciprocamente una parte della clientela”. I guadagni prodotti dalla concentrazione industriale non andrebbero così a trsusts privati, ma allo Stato, che potrebbe utilizzare i vantaggi che darebbe il monopolio su questi prodotti per abolire la miseria.

Daniele poi afferma che un altro elemento interessante del progetto di riforma sociale di Ernesto Rossi è “il principio che ci sono cose il cui valore non può essere monetizzato. In una realtà nella quale si è abituati a pagare, ciò che è gratis non vale nulla, ma questo è avvenuto perché tutti ci siamo abituati a pensare che le cose valgono quello che costano. È difficile oggi pensare che il valore e il costo non coincidono sempre”. Il crinale sui cui si scivola porta poi a concepire il binomio servizi gratuiti quindi servizi non di qualità: “non bisognerebbe pensare che i servizi gratuiti sono per chi non può fare altro, perché i servizi saranno di qualità bassa. Se si pensa che la scuola pubblica sia solo per chi non può permettersi di iscriversi a quella privata, avremo una scuola pubblica che farà sempre più schifo; al contrario si dovrebbe costruire una scuola pubblica in cui i più abbienti vogliono entrare a tutti i costi”. “Così si rischia di perdere l’idea di cos’è un bene comune”. Non per niente la concezione dell’esercito del lavoro va di pari passo con una riforma del sistema scolastico che garantisca a tutti di poter frequentare fino a 18 anni e la “preparazione per mettere in grado tutti i cittadini di partecipare alla vita pubblica”, scrive Rossi. Non solo: la scuola professionale e la scuola secondaria, in preparazione agli studi universitari, dovrebbero avere pari dignità e gli studenti che terminano gli studi dovrebbero avere all’incirca la stessa possibilità di guadagno. Insomma, studi e lavori diversi, ma redditi simili perché è simile l’importanza sociale del lavoro: “domandare se ha maggiore importanza sociale il lavoro di un ingegnere o quello di un operaio è altrettanto privo di senso quanto domandare se in un orologio ha maggiore importanza per segnare le ore la molla, il bilanciere o una rotellina dell’ingranaggio”, scrive l’economista.
Secondo Daniele Lugli l’attualità di “Abolire la miseria” e del pensiero di Ernesto Rossi sta nel fatto che allora come oggi siamo in una situazione così grave che forse l’unica soluzione è sfruttarla come una “occasione per pensare a cose diverse da fare”. La miseria cui fa rifermento Rossi non è solo materiale, ma anche la povertà morale, delle relazioni sociali. Il progetto di Rossi va ripreso seriamente in considerazione non solo alla luce dell’altro tasso di disoccupazione giovanile – e non solo giovanile – ma anche perché è il momento in cui abbiamo più bisogno di una “costruzione in cui si cerca di far passare nei giovani l’idea che è costitutivo il rapporto di solidarietà, senza il quale non si dà una società”. Ci troviamo di fronte alla “sparizione dell’idea di un agire collettivo intelligente”, secondo Lugli, da qui la “necessità di sperimentare” proposte nuove come a suo tempo lo fu l’esercito del lavoro, anche se non ci sono leggi specifiche al riguardo e farlo anche a livello locale, regionale, non per forza nazionale.

Non stiamo parlando di mera teoria: attualmente in Italia esiste la possibilità di fare il servizio civile universale (art. 8 ddl 1870, la legge di riforma sul Terzo Settore) per i ragazzi dai 18 ai 28 anni, per un periodo che può andare da otto mesi a una anno. Qualcosa di simile dunque a un esercito del lavoro. “Per i giovani – spiega Daniele – potrebbe essere un’esperienza formativa non irrilevante, ma bisogna dare un’offerta seria e significativa, concentrando gli sforzi su questa unica direttrice, non disperdendoli fra altri progetti, come l’alternanza scuola-lavoro o GaranziaGiovani: per esempio alcuni dati dicono che i giovani che hanno fatto servizio civile all’estero, anche in contesti molto delicati, ma con progetti significativi per lo sviluppo delle proprie capacità e dal punto di vista umano, hanno trovato un lavoro più facilmente e più in fretta, anche se è ovvio che non c’è un vero e proprio collegamento diretto”.

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Federica Pezzoli

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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