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Non era mai accaduto che un papa inviasse un messaggio augurale al Super Bowl, la finale del campionato di football americano.
Il messaggio, un video di 45 secondi, è stato mandato in onda all’inizio della partita giocata a Huston, in Texas il 5 febbraio, per l’evento televisivo tradizionalmente più visto dell’anno negli Usa.
La richiesta è pervenuta in Vaticano dagli organizzatori e, quando gli è stata sottoposta, papa Bergoglio ha deciso di accettare.

Andrea Tornielli scrive sul sito Vatican Insider che questa attenzione del pontefice per il mondo sportivo in verità non è nuovissima, citando i precedenti del videomessaggio in occasione dei Mondiali di calcio in Brasile del 2014 e, nell’agosto 2016, per le Olimpiadi a Rio de Janeiro.
“I grandi eventi sportivi come il Super Bowl – ha detto papa Francesco in quest’ultima circostanza – sono altamente simbolici, dimostrando che è possibile costruire una cultura di incontro e un mondo di pace”.
Qualcosa suggerisce che l’originalità di questa volta possa andare al di là dell’evento sportivo-popolare in sé e tenere in conto il contesto nel quale le parole del papa sono state pronunciate. Un contesto che porterebbe a caricare di significato un appello alla pace, all’amicizia e alla solidarietà che, altrimenti, potrebbe finire nel catalogo delle parole e degli auguri di circostanza.

Naturalmente è più che legittimo che più d’uno possa avere riserve sull’opportunità (incauta?) di rispondere affermativamente a questi inviti, così esposti alle finalità tutte strumentali del cosiddetto circo mediatico, che tutto fagocita e riduce a spot pubblicitario.
Da un lato la popolarità straordinaria di un canale che consente di far risuonare parole di pace e solidarietà in una platea impressionante, dall’altro l’ambito fortemente connotato, che tutto riduce a spettacolo e business.
Eppure sono diversi gli elementi che farebbero pensare stavolta a una particolare soglia di attenzione.
Intanto la lingua nella quale Bergoglio si è espresso: lo spagnolo. Non solo è la sua lingua madre, ma anche quella dei milioni di ispanici fra i presenti allo stadio e, soprattutto, davanti alla tv. E lo spagnolo non è forse anche la lingua dei messicani nei cui confronti la nuova amministrazione Trump intende costruire l’ormai celebre muro per arrestare il flusso migratorio verso gli Stati Uniti?
Lo stesso quadro alle spalle del pontefice mentre diffonde il messaggio dalla Casa Santa Marta, dove solitamente riceve i piccoli gruppi di pellegrini, che raffigura la Madonna che scioglie i nodi, è un caso?

Il linguaggio felpato a cui spesso ci ha abituato la Chiesa cattolica, forte di un’esperienza secolare, non significa che il proprio messaggio dirompente debba necessariamente essere espresso da una lingua sempre tagliente.
Non so quanto sia pertinente il parallelo, ma il pensiero corre agli auguri di buon Natale che il pontefice ha rivolto a Unomattina, in occasione dei trent’anni della trasmissione Rai. In quell’occasione Bergoglio ha augurato un “Natale cristiano com’è stato fatto il primo – ha detto – quando Dio ha voluto capovolgere i valori del mondo”.
Come per l’evento di Huston, anche in questo caso il papa dimostra di non temere i contraccolpi della popolarità, non importa nemmeno se ingigantiti dalla dimensione mediatica.

E’ come se Francesco volesse abbattere i confini non solo fra gli Stati e i popoli, ma anche degli ambiti, più o meno canonici, nei quali far risuonare le parole della speranza e la postura della misericordia.
E’ come se la sua “Chiesa in uscita”, secondo una delle sue formule più note, spaziasse dalle periferie del mondo fino a non temere di varcare le soglie delle agorà mediatiche, dove il ‘popolare’ è spesso usato come sinonimo di ‘spazzatura’.
Una sfida tutta francescana ai limiti dell’azzardo, evidentemente basata sulla speranza che la forza umile del messaggio cristiano, innanzitutto testimoniato, possa essere superiore ai rischi, già peraltro ampiamente in atto, della televisione come medium secondo la lucida intuizione di Enzo Iannacci: “La televisiun la g’ha na forsa de leun. La televisiun la g’ha paura de nisun. La televisiun la t’indormenta cume un cuiun”.
Questo mettersi in cammino oltre ogni confine, con il rischio di esporsi alle critiche di quanti – dentro e fuori la Chiesa – temono i pericoli di purezza della ‘Ditta’, non si riscontra anche nel caso del videomessaggio texano, rivolto alla pancia popolare di un paese che ha appena votato un presidente che quei confini li vuole invece costruire?
E lo stesso invito a “costruire una cultura di incontro e un mondo di pace” non sono in fondo un messaggio rivolto anche a un’amministrazione che, proprio in questi giorni, ha dovuto incassare la sentenza d’incostituzionalità della Corte d’Appello al bando del presidente Trump all’ingresso negli Usa da sette Paesi a prevalenza islamica: Iraq, Iran, Siria, Yemen, Sudan, Somalia e Libia?
Un bando emesso invocando il pericolo terrorismo islamico, quando i principali casi per gli Stati Uniti si sono storicamente concretizzati, per esempio, da paesi come l’Arabia Saudita (la nazionalità di uno degli attentatori delle Torri Gemelle nel settembre 2001) o dal Pakistan (paese dove aveva trovato rifugio Osama Bin Laden), non compresi nell’elenco della Casa Bianca.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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