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di Alessandro Oliva

Nove ottobre 2014: una data che ci riporta a una tragedia che ancora oggi è in grado di scatenare dolore, rabbia e sofferenza. Sono passati cinquantun anni dal disastro del Vajont. Catastrofe epocale su cui pesano oltre duemila morti e la distruzione di interi paesi, sciagura terribile che ha goduto di momenti di notorietà e oblio, il Vajont è una ferita insanabile per la cui memoria si è lottato e si continua a combattere. Lo ha fatto per prima Tina Merlin, la battagliera cronista dell’Unità, e poi hanno portato il loro solido contributo Marco Paolini e Renzo Martinelli, per giungere infine a Mauro Corona con la sua “La voce degli uomini freddi”.

La storia di questa tragedia annunciata è molto lunga e non si è ancora conclusa. Comincia con il progetto di un’ ambiziosa società idroelettrica, la Sade, che decide di costruire un’enorme diga nella valle del Vajont, tra Veneto e Friuli, nonostante si palesino rischi sempre più evidenti, e si trascina ancora oggi negli echi e nei segni tangibili delle ricostruzioni,delle cause civili e penali e degli esodi. Nel mezzo, alle 22,39 del 9 ottobre 1963, una catastrofe con oltre duemila vittime, uccise dall’onda assassina nata dalla titanica frana del monte Toc nel bacino della diga.

Le operazioni per tenere in vita il ricordo di questo disastro si ripetono ormai annualmente, in forma istituzionale e spontanea. Ci sono eventi, manifestazioni e commemorazioni, escono libri e film, flussi turisitici sempre più consistenti si recano sul luogo del disastro. Nonostante l’ignoranza di molti, i rari accenni nei libri di storia e l’occultamento passato della vicenda, troppo scomoda per gente troppo importante, il Vajont sembra dunque pian piano consolidarsi nella memoria collettiva. E’ importante, benché i rischi siano molteplici. Innanzitutto, nella crescente mole di contributi e commemorazioni, quello di una sua omologazione e “anniversarizzazione”, ”ovvero il ricordare limitatamente a una data e a un’occasione commemorativa mettendo in luce solo certi aspetti, magari quelli emotivi, adombrando i presupposti e la vera natura della tragedia. In secondo luogo e conseguentemente, la mancanza di ricadute pratiche, sociali e concrete.
E’ bene dunque che si esca dal silenzio di un ricordo relegato a una dimensione locale, ma non perdendo di vista cosa fu realmente il Vajont. E perché.

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La diga del Vajont

L’essenza del disastro si colloca infatti dietro agli avvenimenti, dietro alla fiancata di montagna che precipita nel lago artificiale della diga, scatenando un’onda di morte e devastazione. Fu una tragedia verificatasi, come dichiara Maurizio Rebershack, in senso greco, cioè di responsabilità pienamente umana, culmine di un processo di soprusi e prevaricazioni imposto dalla Sade con la collusione dello Stato; fu uno degli esempi più terribili dell’avidità e degli uomini, disposti a negare un fallimento e il pericolo sempre più evidente e arrivare a sacrificare duemila anime soltanto per il profitto, per mantenere la propria credibilità e affermare con sicurezza di poter dominare la natura; fu un periodo, un percorso lungo e difficile segnato dalla necessità di ricostruire, di fare giustizia, di andarsene, di emigrare e abbandonare la propria casa; fu il perfetto ritratto di una nazione infetta e corrotta; fu, infine, anche una sciagura destinata a ripetersi: come non poter pensare alla negligenza nella frana di Stava (1985, 268 vittime), all’incoscienza nell’alluvione di Sarno e Quindici (1998, 160 vittime) e non riuscire notare gli inquietanti parallelismi con il terremoto dell’ Aquila, (2009, 309 vittime)…

Tutte queste catastrofi hanno in comune la prevedibilità, l’irresponsabilità, l’imprudenza, una visione limitata e una totale e sconvolgente mancanza di coscienza e apprendimento da parte del passato. Che cosa ci ha insegnato allora il Vajont, concretamente? A quanto pare, ben poco. Politici, tecnici, scienziati e consulenti sembrano non aver ancora imparato la lezione, continuando a credere di poter plasmare la natura e il mondo a loro piacimento, a discapito dei notevoli rischi. E noi, noi comuni cittadini, che cosa abbiamo appreso? Marco Paolini, autore del “Racconto del Vajont”, afferma nell’introduzione all’ultima edizione, intitolata “Il Vajont e l’Aquila, due tragedie parallele”, che in questi casi le responsabilità si ampliano, non si può solamente puntare un dito d’accusa o ricorrere al vittimismo. Ogni scelta e ogni azione che impatta sul nostro ambiente ci coinvolge; siamo responsabili di ciò che ci circonda e dobbiamo imparare a prendercene cura e a lottare per esso.

Il mondo sta cambiando. Lo percepiamo, ma lo stiamo anche capendo? Ne siamo pienamente consapevoli? Consumiamo risorse naturali che ci hanno detto essere limitate, assistiamo a azioni distruttive del territorio, deforestazione, cambiamenti climatici, siccità, terremoti, inondazioni e frane, ma preferiamo occuparci di rischi e rendimenti finanziari. Intanto però stanno crescendo i conflitti ambientali, al cui interno procrastinano la mancanza di dialogo, la poca informazione, le scarse competenze, ma anche gli interessi economici, l’iniqua distribuzione di vantaggi per pochi e di svantaggi per molti che sono costretti a subire. Le ricadute ovviamente sono anche economiche, sociali, e tecniche.

Che cosa ci può insegnare allora il Vajont? Per citare nuovamente Paolini, a farci un nodo al fazzoletto, a prendere coscienza di un capitolo buio e maturare dei bisogni per una storia più luminosa: di fiducia, di trasparenza, di qualità, di sicurezza, di rispetto ambientale, di prevenzione e di certificazione; soprattutto, di coscienza civica come valore fondamentale, di un vero e proprio sentimento civile che ci porti, nel nostro quotidiano, a diventare responsabili per la collettività e in quanto collettività. Per questo giocherà un ruolo fondamentale il concorso, lanciato quest’anno, denominato «Vajont 50+ – Il mio Vajont», destinato a coinvolgere le scuole medie e superiori di tutta Italia, in modo da dare il via a una serie di riflessioni sulla tragedia: perché nulla è più pericoloso della nostra indifferenza.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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