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Nella primavera fiorentina che offre ancora in certe ore e in certi momenti la possibilità di provare la sconvolgente esperienza della sindrome di Stendhal per la bellezza assoluta di cui questa città sembra avere inesauribile riserva, si esce alla mattina con i rigorosi principi del rispetto per quella città e per i suoi monumenti.

Muniti di sacchetti e di pacchetti di vecchi giornali volonterosamente ci si avvia alle aree interrate dove puoi scaricare le tue deiezioni. Cominciano i problemi perché appena fuori dalla porta sei sballottato e spinto da migliaia di persone con a capo un/una infelice che stremato/a racconta aneddoti improbabilissimi sulla storia e l’arte fiorentine in tutte le lingue del mondo. Le code ruminanti non guardano: mangiano, parlano, ti spingono e tentano di fare stupidissimi complimenti alla Lilla che non apprezza ma che vorrebbe avvicinarsi alle loro schifezze mangerecce. Invano. Così penosamente ci avviciniamo ai depositi interrati (pochi e messi nei luoghi più trafficati). Il pensiero corre agli anziani che debbono sobbarcarsi il medesimo percorso e quindi logicamente di notte abbandonano i sacchetti sulla strada per la gioia degli animaletti e per le tristi esplorazioni dei poveretti che praticamente vivono di carità lungo i percorsi turistici. A rendere il nostro discorso più comprensivo va detto che abito nella via dove c’è l’Accademia e troneggia il David di Michelangelo, oggetto del desiderio dei produttori di fucili ad alta precisione.

Frattanto si tenta di cambiar marciapiede ma è tentativo inutile. Una minacciosa e infinita fila di motorini ben piazzati non permette lo scambio di marciapiedi. Un muro che dura centinaia di metri tra urti e imprecazioni di chi vuol passare ma non ce la fa. Dopo aver espresso ad alta voce sdegno e angoscia si guarda in alto e tra l’azzurro come un sogno di pietra la Cupola e il Campanile ti riportano alla grande bellezza, poi si riporta l’occhio all’umanità transumante e ti viene da piangere. Che sia questa la formula per cui l’arte dà un riscontro economico? Lascio all’esperienza individuale l’ardua decisione. A me sembra una città distrutta, o meglio, mangiata dal turismo che implacabilmente tra un cattivo tramezzino e l’altro osserva con occhio indifferente la commovente bellezza della città forse più bella del mondo.

Vorrei comunque capire se questo tipo di formula di cui l’ex sindaco e ora presidente del Consiglio è orgoglioso sarà poi capace di risollevarne le sorti economiche. Al di fuori delle vetrine dei massimi marchi della moda i negozi chiudono a ripetizione. Nel centro è sempre più difficile comprare biancheria o calze in una merceria: tutto il “local” diventa “global”! Resta l’artigianato più sconsolante: statuette, collanine, borsettucce a mezzo tra una tradizione fiorentina mescidata con qualche fantasiosa elaborazione dell’est o dell’Africa. E nella città divorata dalla sua stessa bellezza un discorso abbastanza insultante come quello scritto da Visentini su “La Repubblica” dove si stigmatizza il lavoro delle sovrintendenze appare in tutta la sua vacuità o meglio senso del ripetuto e dell’inutile. Se anche questa fondamentale vocazione all’autodistruzione non viene in qualche modo “calmierato” dalla difesa eretta dalle sovrintendenze che senso ha parlare di rapporto pubblico-privato? Di irrinunciabile ritorno economico delle riserve artistiche? Se poi l’opera, il monumento, il sito, viene autofagocitato dalla stessa necessità di produrre?

E’ un circolo vizioso che appare in tutta la sua per ora insolvibile contraddizione: la bellezza che produce la bruttezza o viene vinta dal suo contrario. Poi dei miracoli come la imperdibile mostra sul Pontormo e il Rosso a Palazzo Strozzi, in assoluto tra le mostre più belle e più necessarie delle mostre di questi ultimi anni: quelle che nascono da una volontà scientifica di risistemazione e di rilettura di un patrimonio già acquisito e che ha bisogno di essere ridiscusso. Poi ma in linea secondaria si attua la strategia per rendere la mostra un’attrazione turistico-economica. C’è da riflettere su questa quasi irrisolvibile contraddizione. E si pensi che se gli Uffizi hanno quel numero di visitatori che li rende ormai inguardabili seriamente, gli altri importantissimi musei fiorentini sono semideserti come tutti i musei italiani esclusi tre o quattro universalmente conosciuti. Non è dunque un caso che nella città della bellezza si assistano ad episodi così umilianti per la bellezza stessa ormai agonizzante tra i motorini che non lasciano spazio a una contemplazione del bello almeno sopportabile e la ricerca disperata dei contenitori interrati dell’immondizia.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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