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Oggi niente piazza Castello, niente duomo, niente vetrine e sguardi di plastica. Insomma, niente illusioni. Cerco la parte della città che annaspa. Quella che non sempre ce la fa a restare a galla. Vado verso i margini, la parte di ordito dove il tessuto si smaglia. Dove la trama ha preso una piega diversa da quella consueta. Giro con la bicicletta in zona stazione e ho l’anima oppressa da una pigrizia a cui sono abituato. Oggi sento la fatica della ricerca degli altri che preme sulle tempie. Alcuni giorni è come se ti mettesse davanti a una perpetua salita, la ricerca; come se il mondo generasse una quarta parete da scavalcare.

Per fortuna giunto di fronte allo stadio trovo la prima scena che scrolla di dosso il torpore: sono due attività commerciali, l’una affianco all’altra a distanza di circa quindici metri, solo che davanti alla prima, un alimentari, sono tutti neri, presumibilmente africani; davanti alla seconda, un bar, tutti bianchi, a giudicare dall’accento autoctoni. Per un attimo Ferrara mi pare Johannesburg. Il mio amico Gianni vive in un appartamento nei paraggi e sostiene che la rigida segregazione, la cortina di ferro tra i due esercizi, risponde a una ragione economica oltre che etnica. L’alimentari è oggetto di continue incursioni da parte delle forze dell’ordine, evidentemente ritengono che non fornisca solo il pane e il latte fresco. Il bar, invece, ha il record delle autoambulanze che accorrono per i frequenti coma etilici registrati tra i clienti. Io li considero due musei della condizione odierna, questi luoghi. Sono le camere iperbariche che nascono a ridosso dei salotti cittadini. Per qualche spicciolo accolgono chi issa la propria bandiera bianca.

In via Cassoli mi viene in mente Dumitru. Non so se si allena quest’oggi, la palestra di boxe a cui è iscritto si trova proprio qui vicino. Un giorno a scuola gli avevo promesso che sarei passato a visitare la palestra Vigor.


boxe

A Ferrara, quando dici boxe, parli della famiglia Duran, mi dice Ibrahim. Parli di Carlos Duran, negli anni ’60 campione argentino naturalizzato italiano, fondatore della Vigor. Oppure dei figli Alessandro e Massimiliano, che hanno seguito le sue orme. Dentro la palestra di boxe ritrovo l’aria rancida, umida, di quelle della mia infanzia, a terra un tappeto di gomma, in aria sacchi che pendono, alla parete una specchiera occupa un intero lato della sala rettangolare. Sul ring due ragazzi combattono con foga. Per fortuna trovo Dumitru che mi introduce togliendo l’imbarazzo. È lui che mi presenta l’istruttore Ibrahim: marocchino di Casablanca, venti anni di pugilato alle spalle, il sorriso largo in grado di trasformare i suoi occhi in due strette fessure e la fronte madida di sudore mentre si esercita con la fune. È un’immagine quieta, quella di Ibrahim che si allena, i suoi movimenti lenti e fluidi possiedono grazia. Da l’idea di essere dove vorrebbe e osservarlo, in parte, restituisce la stessa sensazione.

Ibrahim

Sul ring ci sono Vincenzo e Luca. Quando smettono facciamo due chiacchiere. Vincenzo Ricciardi tira pugni da quando aveva tredici anni, ora ne ha ventiquattro. Figlio di genitori agrigentini, la mattina si sveglia alle cinque, lavora in un negozio di ortofrutta in via Bologna. Si allena tutti i giorni tranne il sabato e la domenica. La scuola l’ha abbandonata presto, prima del diploma, mentre dice che è stato un stupido a farlo, scuote la testa, sua madre aveva ragione, non avrebbe dovuto. Anche Luca, suo avversario e amico, braccia tatuate e pizzetto, si pente di averla abbandonata troppo presto. Ora di mestiere fa il muratore. Ha ventitré anni e pratica il pugilato da quattro. Il suo preparatore ha deciso che “Canna”, così lo incita sul ring abbreviando il suo cognome, Canella, è pronto. Per lui è arrivato il momento di combattere e Vincenzo lo aiuta a prepararsi. Della boxe entrambi amano la misura, il fatto che evidenzia i tuoi limiti, ti costringe a spostarli, poi restituisce i sacrifici patiti: è qualcosa che, a poco a poco, diventa tutt’uno con la tua vita.

In questa città invisibile, che affonda nella terra, potrebbe bastare pure osservare i sogni e le passioni degli altri per riceverne in cambio qualcosa. Potrebbe bastare l’aver vinto la fatica dell’incrociare passi sconosciuti. Non ci sono meriti né calcoli in questo. Non c’è guadagno. È il tentativo di sfilarsi da un sommario di solitudini quotidiane. Di abbassare la guardia, nell’illusione di scardinare la fortezza della diffidenza edificata negli anni. Girare mi dice che paghiamo un prezzo troppo alto alle finte sicurezze, a una vita di insignificanti, o peggio ancora ipocrite, certezze.

Così, per un attimo, oggi ho sognato gli stessi sogni di Luca e Vincenzo, di Dumitru e Ibrahim. I loro pugni fasciati e chiusi sono i miei, così come i sacrifici e la fatica, la forza e la determinazione. Oggi scrivo dei loro sorrisi e dei nostri sogni.

[Tutte le foto sono di Sandro Abruzzese – diritti riservati]

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https://twitter.com/sandroabruzzese

Dumitru

I Guanti di Luca

Vincenzo Ricciardi

Ibrahim

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Sandro Abruzzese

Nato in Irpinia, vive a Ferrara dove insegna materie letterarie in un istituto d’istruzione superiore. Per Manifestolibri ha pubblicato Mezzogiorno padano (2015). Con Rubettino ha pubblicato CasaperCasa (2018) e Niente da vedere (2022). Sul suo blog, raccontiviandanti, si occupa di viaggio e sradicamento

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

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Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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